Prison movies. Il film di Renato De Maria tratto dal libro Miccia corta

In Italia è proibito discutere di “anni di piombo”. A meno che non si concorra a sedimentare le verità  ufficiali – spesso limitate e parziali, e talvolta fuorvianti – per come consacrate nelle sentenze giudiziarie.

(da “Antigone”, quadrimestrale di critica del sistema penale e penitenziario, n.2/2008)

 «Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato» (George Orwell)

In Italia è proibito discutere di “anni di piombo”. A meno che non si concorra a sedimentare le verità  ufficiali – spesso limitate e parziali, e talvolta fuorvianti –  per come consacrate nelle sentenze giudiziarie. Ciò avviene per diversi motivi. Il principale è quello indicato da Manlio Milani, presidente dell’associazione delle vittime della strage di Piazza della Loggia: quando si parla di “anni di piombo” ci si riferisce solo alla lotta armata e agli attentati fatti da organizzazioni di sinistra. Il secondo motivo è conseguente: nell’opinione pubblica e nell’informazione diffusa (ma anche a livello della politica e della cultura) si è costruita ad arte e sedimentata un’indignazione a senso unico contro gli ex terroristi e gli eversori di sinistra. Quelli di destra, dal leader dei “Boia chi molla” della rivolta di Reggio Calabria Ciccio Franco allo stragista Nico Azzi, sono stati invece onorati e celebrati da istituzioni ed esponenti di governo.

Questo non è stato un processo casuale e innocente, ma l’esito di una precisa regia e intenzione: quella di rimuovere la memoria delle responsabilità statali, nazionali e internazionali, nella strategia della tensione e dello stragismo e di lasciarne impuniti gli autori. E, allo stesso tempo, di assoluzione reciproca (e analogo processo di rimozione e revisione storica) da parte dei due grandi partiti che hanno dominato la scena politica nella Prima Repubblica: la Democrazia cristiana e il Partito comunista, entrambi responsabili, nel quadro della Guerra fredda, di illegalità di vario genere, oltre che di complicità e collateralismo con i veri grandi crimini del Novecento, dallo sterminio degli oppositori al regime stalinista ai sanguinari golpe militari in paesi europei e dell’America latina, agli eccidi operati dai sistemi coloniali in Africa.

Sul piano morale va affermato che anche una singola uccisione per ragioni di odio e violenza politica costituisce un’uccisione di troppo. Sul piano storico andrebbe conservato un senso delle proporzioni, una capacità di analisi e ancor prima una memoria non selettiva, non a senso unico. Così non è, tanto che un editorialista può scrivere in riferimento a Erich Priebke: «Posso dire, senza suscitare scandalo, che quest’uccisore di ostaggi m’ispira meno disgusto dei terroristi italiani» (Il Giornale, 12 febbraio 2004). Appunto: senza suscitare scandalo né registrare voci di dissenso.

Una memoria tesa a uno sforzo di obiettività, non utilizzata come clava o manganello, oggi pare decisamente impraticabile e avversata. Specie se a proporla ? ovviamente come contributo, senza pretese di esaustività o di verità assolute ? è un ex militante della lotta armata. L’ostracismo nei confronti di questa “categoria” di persone ha raggiunto livelli impressionanti. Decisamente superiori a quelli dei processi di epurazione avvenuti nei confronti dei fascisti negli anni successivi alla Liberazione.

Così oggi assistiamo a un coro pressoché unanime di critiche nei confronti della Francia per la decisione umanitaria assunta verso l’ex Br Marina Petrella. Due gli argomenti usati: viene detto che anche l’Italia garantirebbe la vita e la cura dei detenuti, dimenticando, ad esempio, i militanti Gianfranco Faina e Fabrizio Pelli, a suo tempo lasciati morire dietro lo sbarre oppure ricoverati solo pochi giorni prima del decesso, o fingendo di non vedere le decine di suicidi e di morti evitabili che accadono ogni anno anche nelle prigioni italiane. Si dice poi che prima della clemenza deve avvenire l’espiazione. Eppure, non sono minori le avversità e gli ostracismi verso chi ha scontato per intero le condanne ricevute. In questi casi, viene detto che pagare non basta. Occorre tacere (e camminare a capo chino e in punta di piedi, come aggiungono i responsabili di “Ristretti orizzonti”, e strisciare lungo i muri, come Marco Travaglio vorrebbe facesse Adriano Sofri).

Ecco, la vera questione: il silenzio. Per scelta o per costrizione. Per pudore o per forza. Perché «non si è mai ex assassini». Perché la pena non abbia mai fine.

Ma dietro la voglia di gogna infinita e di “ergastolo bianco” traspare in realtà una finalità indicibile ma tenacemente perseguita: consegnare alla storia e alla memoria collettiva solo le verità ufficiali su quegli anni. Zittire ogni dubbio e qualsiasi diversa interpretazione. Togliere ogni spazio a ricordi diversi, negare legittimità a qualsiasi voce dei vinti.

Tutto ciò è alla base delle polemiche e delle censure nei confronti del film “Miccia corta”, tratto dall’omonimo libro da me pubblicato nel 2005.

La scorsa estate il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ha decretato che qualsiasi progetto di film sul terrorismo debba essere sottoposto al vaglio preventivo delle associazioni delle vittime. Un salto di qualità nella strategia di cui sopra e una decisione senza precedenti in Italia e addirittura incomprensibile negli altri paesi.

Fatto sta che nel mese di settembre, la competente Commissione ministeriale ha convocato diverse associazioni di famigliari delle vittime (del terrorismo, ma anche delle stragi e persino di quelle di mafia) per chiedere un parere su “Miccia corta”, peraltro non conoscendo neppure il copione. Associazioni e famigliari che hanno assunto al riguardo posizioni differenziate e che in qualche caso, a disagio per un’ennesima strumentalizzazione politica del loro dolore, hanno anche rifiutato l’audizione.

Essendo spiacevole (oltre che anch’esso segno dei tempi) doversi difendere da solo, consegno la cronaca della vicenda alle parole di un editoriale de “Il Riformista”, unico a prendere posizione: «Sdegnati articoli in prima pagina, pesanti pressioni politiche su alcuni degli esperti, lettere delle associazioni delle vittime, il ministro Bondi che annuncia giri di vite. Come meravigliarsi se alla fine “La prima linea”, già “Miccia corta”, il film che Renato De Maria intende liberamente trarre dal libro di Sergio Segio, non ha avuto via libera dalla commissione ministeriale incaricata di valutare i progetti “di interesse culturale nazionale”? Poteva andare peggio. Meglio un “rinvio tecnico” a dicembre che la bocciatura assoluta. Perché l’aria era quella, nonostante l’alto punteggio sul fronte artistico-produttivo. Non sono bastati nemmeno i ritocchi alla sceneggiatura introdotti dopo l’incontro con le associazioni delle vittime; il titolo cambiato per non fare pubblicità al libro; la rimozione di una scritta sui titoli di testa; l’introduzione di personaggi di fantasia per chiarire lo scontro ideologico; il riferimento diretto all’omicidio del giudice Alessandrini, eccetera. Fa un po’ sorridere, pur nel tentativo di salvare capre e cavoli, la motivazione adottata dalla commissione, là dove si chiede che “dall’esame definitivo del progetto emerga in maniera chiara ed inequivocabile (…) una netta condanna di questo fenomeno criminale”, cioè del brigatismo rosso e affini. Ci mancherebbe. Magari, sbollita la tensione mediatica, il film passerà pure. Resta il tema di fondo».

Il tema di fondo non è solo il dibattito, la possibilità di confronto e la riflessione storica su quegli anni, né tanto meno le sorti di quel film o il fatto che il sistema di produzione cinematografica in Italia sia reso volutamente dipendente dai finanziamenti pubblici, e dunque dai condizionamenti politici.

Il punto vero è che in questo paese è stato introdotto un pericoloso precedente dal punto di vista della libertà di espressione artistica, intellettuale, culturale e anche politica (chissà, magari per il prossimo film sui morti della ThyssenKrupp si imporrà il gradimento preventivo di Confindustria). E che lo si è fatto nella più totale assenza di reazioni critiche: ha taciuto il mondo del cinema e della cultura; hanno taciuto intellettuali e opinionisti; ha taciuto la politica e l’opposizione parlamentare; sono rimaste zitte e distratte le associazioni e i movimenti. Muti i giornalisti e i commentatori (tranne la suddetta preziosa eccezione); compresi quelli di sinistra, tradizionalmente attenti alle libertà civili e agli spazi democratici. Non una riga su “Liberazione”; cinque righe cinque, sommarie di cronaca e con nomi storpiati, su “il manifesto”.

Il problema, allora, non è solo che in Italia sia stato introdotto il Minculpop, come ha titolato “Il Riformista”. È che, a quanto pare, non se ne è accorto nessuno. Dunque significa che esso funziona già benissimo.

P.S.: Il 19 dicembre la Commissione ministeriale ha infine deliberato positivamente circa il co-finanziamento del film, prudentemente rititolato. Secondo quanto riferito dai quotidiani (ma anche riportato dai verbali della Commissione ministeriale, cfr. http://www.cinema.beniculturali.it/news/2009/Dossier_la_prima_linea/3all_3.pdf, ha però imposto “mille paletti” e “condizioni draconiane”. Le uniche osservazioni critiche ? anche se motivate solo da un’ottica liberista ? a tali inedite ingerenze sono venute dal vicedirettore del Corriere della Sera, Pierluigi Battista: «Le sovvenzioni arriveranno, ma solo a certe condizioni. Il copione sarà approvato, ma solo sotto stretta sorveglianza e previo parere dei parenti delle vittime del terrorismo. Altrimenti niente, il film non esce, non si produce, non si fa […]. Lo Stato che si arroga la titolarità della manipolazione persino dei copioni e addirittura della scelta del casting è del resto solo la manifestazione compiuta del baratro culturale in cui è precipitato un cinema che si è autoimposto il finanziamento pubblico come unico ed esclusivo standard per misurare il proprio stato di salute».

P.P.S.: Di fronte a un nuovo ciclo di polemiche innescate dal Corriere della Sera con una serie di articoli e dagli attacchi del magistrato Armando Spataro, la Commissione ministeriale è intervenuta con un nuovo comunicato stampa, datato 5 marzo 2009. Nel testo si legge: «Lo scorso 19 settembre queste associazioni [quelle dei familiari delle vittime del terrorismo, delle stragi e della mafia, ndr] hanno potuto esprimere il proprio parere riguardo la sceneggiatura di “La Prima Linea” in una seduta straordinaria assieme agli autori e alla produzione. Solo in seguito alle sostanziali modifiche apportate alla sceneggiatura avvenute sulla base di tale parere la Commissione ne ha approvato il finanziamento, ritenendo che essa non costituisce apologia del fenomeno del terrorismo, non lo giustifica e non nega le responsabilità politiche, morali e giudiziarie dei protagonisti. La Commissione ha vincolato la concessione del riconoscimento di interesse culturale e del contributo finanziario a rigorose condizioni: ogni variazione apportata dovrà essere tempestivamente comunicata alla Direzione Generale per il Cinema per essere sottoposta all’approvazione della Commissione, la copia campione sarà visionata al fine di stabilire la sostanziale conformità al progetto approvato, la produzione non potrà utilizzare nella fase di promozione del film nessuno dei protagonisti reali della vicenda e alcun provento del film potrà essere loro devoluto. […]

Pertanto se la copia campione del film prima dell’uscita in sala si dovesse distanziare da quanto approvato, rivelandosi un’opera apologetica del terrorismo, il relativo contributo verrebbe ritirato.

Si vuole, insomma, che il film venga girato “a comando”, con la libertà artistica legata al guinzaglio e minacciata di rappresaglia. Almeno ai tempi di McCarthy, c’era un movimento di opposizione alle persecuzioni e ai bavagli. Ora, che la censura si è fatta democratica e bipartisan, tutto tace e tutto va bene. Viva l’Italia.

Leggi l’introduzione integrale di Sergio Segio alla seconda edizione del libro Miccia corta, nella quale l’autore prende decisamente le distanza dal film “La Prima Linea” diretto dal regista Renato De Maria

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