Ieri la Cassazione ha stabilito che il processo contro gli ex capi dei servizi segreti italiani dovrà  essere ripetuto: riassunto di una vicenda intricata

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La storia del rapimento di Abu Omar

La storia del rapimento di Abu Omar

Ieri la Cassazione ha stabilito che il processo contro gli ex capi dei servizi segreti italiani dovrà  essere ripetuto: riassunto di una vicenda intricata

La storia del rapimento di Abu Omar

Ieri la Cassazione ha stabilito che il processo contro gli ex capi dei servizi segreti italiani dovrà  essere ripetuto: riassunto di una vicenda intricata

Ieri la Corte di Cassazione ha deciso che Niccolò Pollari, ex capo del servizio segreto militare italiano, deve essere nuovamente processato in appello insieme al suo vice, Marco Mancini. In precedenza, Pollari e Mancini erano stati dichiarati non processabili perché parte della documentazione necessaria a chiarire il loro comportamento era coperta dal segreto di Stato. La storia di cui parliamo è quella del rapimento di Abu Omar, un cittadino egiziano. La Cassazione ha accolto il ricorso della procura di Milano e della famiglia di Abu Omar, e ha confermato tutte le condanne a più di venti agenti della CIA coinvolti nel caso.

Il 17 febbraio 2003 Hassan Mustafa Osama Nasr, meglio conosciuto come Abu Omar, stava andando nella moschea di Milano di cui era imam (leader spirituale) per la preghiera di mezzogiorno. Abu Omar era (ed è tuttora) un cittadino egiziano, ma aveva residenza in Italia, dove si trovava con lo status di rifugiato. Quella mattina, mentre camminava per la strada, venne avvicinato da un uomo, sceso da un’auto FIAT rossa, che parlava italiano e si qualificò come poliziotto, mostrando un tesserino. Gli chiese di mostrare i documenti e poi di sdraiarsi a terra. Poi, improvvisamente, Abu Omar venne bloccato, bendato, sollevato di peso da due uomini che arrivarono alle sue spalle e trascinato in un furgone che aspettava lì vicino. Nessuno doveva assistere alla scena, probabilmente, ma una donna che frequentava la moschea e che abitava nella via del rapimento, al terzo piano, vide tutto dal balcone.

Così inizia la storia del rapimento di Abu Omar, oggi 46enne, che è rimasto in carcere per diversi anni senza processo in Egitto e ha denunciato di essere stato torturato. Il suo caso è stato al centro del primo processo civile che ha indagato le responsabilità delle detenzioni illegali statunitensi, e non è ancora stato chiarito fino in fondo il ruolo e l’effettiva collaborazione dei servizi segreti italiani con quelli degli Stati Uniti nella vicenda.

Quel giorno di febbraio, Abu Omar venne portato con il furgone alla base militare NATO di Aviano, in provincia di Pordenone, da agenti della CIA statunitensi. Da lì venne portato in aereo prima a Ramstein, in Germania, e poi al Cairo, in Egitto. La rivoluzione di piazza Tahrir era ancora ben lontana e in Egitto era saldo al governo Hosni Mubarak, presidente da oltre vent’anni. L’Egitto era uno degli alleati più stretti degli Stati Uniti in Medio Oriente: gli Stati Uniti collaboravano in particolare con i servizi segreti del paese, che erano molto attivi nella lotta all’estremismo islamico e al fondamentalismo violento. Il regime di Mubarak, inoltre, non andava per il sottile in tema di diritti umani e rispetto dello stato di diritto.

Il caso di Abu Omar non è certamente isolato: un rapporto di Human Rights Watch del 2005 ha detto che la pratica delle extraordinary rendition (rapimenti e detenzioni illegali, portate avanti dagli Stati Uniti con la collaborazione di altri paesi) risale almeno alla metà degli anni Novanta, e un docente universitario di politica internazionale ha definito l’Egitto «il nostro gendarme nella guerra al terrorismo globale», a cui affidare «il lavoro sporco» visto che «i loro standard nella gestione dei prigionieri e degli interrogatori sono considerevolmente minori rispetto ai nostri». L’amministrazione Obama dichiarò nel 2009 che la pratica di consegnare “sospetti” a paesi terzi sarebbe continuata, ma da allora in poi si sarebbero cercate garanzie contro l’uso della tortura sui prigionieri.

Da parte sua, l’imam aveva avuto una vita avventurosa e con qualche punto oscuro: mentre era titolare di un negozio in Albania, raccontò lui stesso ad Al Jazeera nel 2007, era stato avvicinato più volte sia dalla CIA che dai servizi segreti egiziani con la proposta di lavorare per loro, ma non aveva accettato. Secondo quanto racconta lui stesso, in Albania, nel 1995, la CIA provò a rapirlo. Poi era andato in Germania per richiedere asilo politico, senza ottenerlo, e infine era andato a Milano dove aveva ottenuto finalmente lo status di rifugiato (dichiarò di essere «cittadino italiano con passaporto italiano») nel giugno del 2001. In Italia, Abu Omar è stato indagato per coinvolgimento nel terrorismo internazionale e nei suoi confronti è stato emesso un mandato di arresto, dopo il suo rapimento: ma al momento del suo rapimento, non era mai stato arrestato né interrogato dalle autorità italiane.

In un lungo articolo pubblicato da una rivista egiziana nel 2007 ci sono alcune informazioni attribuite alla documentazione dei servizi segreti egiziani e italiani, che aiutano a ricostruire la sua storia, spesso collegata a gruppi islamici fondamentalisti. Nel 1989 venne detenuto per sei mesi in Egitto, per aver fatto sermoni contro il governo in una moschea di Alessandria. È figlio di attivisti del Wafd, un partito nazionalista di opposizione dal lungo passato. Dopo la sua detenzione del 1989 (la seconda per questi motivi) lasciò il paese e, secondo quella documentazione citata da al Ahram e non smentita da Abu Omar, iniziò un lungo viaggio che prima di concludersi in Italia (dove arrivò come immigrato clandestino nel 1997) lo portò in Giordania, Yemen, Pakistan e Albania, In Albania rimase dal 1991 al 1996, si sposò e ebbe due figli. Di questi viaggi, Abu Omar non parla molto, scrisse il giornalista di al Ahram, e dice che lavorò in organizzazioni umanitarie islamiche e lasciò Peshawar, in Pakistan, in disaccordo con alcuni che volevano darsi ad operazioni armate.

In Italia, Abu Omar divenne l’imam – il leader spirituale, che guida la preghiera del venerdì e tiene il sermone – della principale moschea milanese. Nelle sue prediche, come riconosce lui stesso, denunciava spesso i “crimini” e i “massacri” degli Stati Uniti, aiutando la sua opera di indottrinamento anche con una pubblicazione in proprio settimanale (usciva il giovedì) intitolata La verità islamica. Abu Omar dice che furono queste critiche agli Stati Uniti, insieme all’organizzazione di marce e dimostrazioni antiamericane, a causare il suo rapimento, e che ha rifiutato un pagamento di 2 milioni di dollari da parte degli americani per mettere a tacere tutta la questione.

In un documento ritrovato nel luglio 2006 in un appartamento usato dal SISMI a Roma, racconta ancora al Ahram, vennero trovati documenti che riguardavano il caso di Abu Omar, tra cui alcuni dettagli di indagini sulla presenza di al Qaida in Italia. In questi documenti, che risalgono ai servizi segreti italiani e che sono emersi quando il caso era ormai già di dominio pubblico, Abu Omar è collegato con alcune tra le maggiori organizzazioni terroristiche del mondo arabo, da un gruppo jihadista egiziano a al-Ansar in Iraq. In quelle carte Abu Omar è accusato anche di aver fornito denaro e documenti falsi a membri di gruppi terroristici.

Resta il fatto che non sono mai emerse prove, neppure in documenti riservati, del suo coinvolgimento in attacchi terroristici e che, quel giorno di febbraio, venne rapito in totale segretezza. Secondo il racconto di Abu Omar, dopo essere arrivato al Cairo venne portato in una sede dei servizi segreti. Secondo quanto riporta Amnesty International, in una lettera dal carcere dichiarò di essere stato torturato per oltre dodici ore al giorno per sette mesi, descrivendo nel dettaglio le forme di tortura, tra cui pestaggi che gli avrebbero fatto perdere l’uso di un orecchio, scosse elettriche, sospensioni prolungate e dolorose a testa in giù.

Rimase nelle carceri egiziane per quattordici mesi, senza alcuna accusa formale né alcun processo, e senza che sua moglie, i suoi due figli rimasti in Italia e i suoi amici e familiari avessero idea di dove fosse. Venne prima messo ai domiciliari nell’aprile del 2004, poi riportato in carcere circa venti giorni dopo, dopo aver chiamato diverse volte al telefono la moglie e i familiari per dire che si trovava in Egitto. Rimase in un’altra prigione nei pressi del Cairo per quasi altri tre anni: grazie alle leggi speciali di Mubarak, poteva essere detenuto per 30 giorni senza accuse formali, e la detenzione poteva essere rinnovata di mese in mese a tempo indefinito e con poco sforzo. Ancora nel 2007, l’Egitto negava di precisare lo status giuridico di Abu Omar, di cui un funzionario del ministero dell’Interno aveva detto che si era «consegnato da solo» alle autorità del suo paese. I familiari e alcune organizzazioni per i diritti umani avevano presentato nel frattempo diverse richieste di rilascio e il suo caso cominciava ad essere seguito dai mezzi di comunicazione internazionali.

Abu Omar è stato rilasciato definitivamente solo nel 2007, stabilendosi ad Alessandria perché l’espatrio legale gli è impossibile. Ha detto più volte, nei mesi successivi, che aveva intenzione di tornare in Italia. I suoi legali dissero che dopo il rilascio era stato messo ai domiciliari e gli era stato imposto di non parlare, ma lui in realtà è stato intervistato diverse volte da canali televisivi e giornali. Poco dopo il rilascio, nel febbraio del 2007, si presentò inaspettatamente al processo di un blogger di Alessandria d’Egitto e, davanti alle telecamere, mostrò i segni di cicatrici sulle braccia, sui polsi e sulle caviglie, dicendo che ne aveva altre sullo stomaco e sui genitali e dicendo che erano il risultato delle torture durante gli interrogatori.

Da allora ha parlato diverse altre volte con i media italiani e stranieri: certamente non è il più tollerante dei religiosi né, politicamente, un moderato, certamente ha idee piuttosto retrograde e in alcuni casi racconta cose dubbie e che probabilmente non si potranno mai accertare. Ma altrettanto certamente è stato rapito da autorità italiane (ci arriviamo) dopo essere uscito da casa sua, in Italia, e ha passato molti anni in carcere in Egitto, non il più benevolo dei regimi con chi era sospettato di terrorismo islamico.

Questa è la storia, per così dire, umana: c’è poi la storia giudiziaria. Le indagini dei magistrati italiani sono cominciate quando la moglie, Nabila Ghali, ha denunciato la scomparsa del marito un giorno dopo il fatto, e per lunghi mesi non hanno portato a nulla. Dopo il primo rilascio di Abu Omar, nel 2004, l’uomo chiamò e iniziò a raccontare la sua storia alla moglie: in questo modo, i magistrati ebbero una prima versione dei fatti.

Il governo Berlusconi negò di aver mai saputo nulla o di aver collaborato in alcun modo con il rapimento di Abu Omar. Alla fine del 2006, i magistrati italiani individuarono dopo lunghe indagini un ufficiale dei carabinieri, Luciano Pironi, che ammise poi di aver fermato Abu Omar mentre camminava per la strada, con il pretesto di controllare i suoi documenti d’identità, e di averlo poi condotto verso il furgone utilizzato nel rapimento (Pironi ha collaborato con gli inquirenti ed è stato condannato con pena sospesa). Da lì, e dalle informazioni date da Abu Omar alla moglie, vennero ricostruite dai magistrati una rete di agenti statunitensi coinvolti nel caso e diverse operazioni, riunioni e decisioni dei servizi segreti italiani per sostenere l’operazione. Nella vicenda è stato coinvolto – e condannato per favoreggiamento – anche l’ex vicedirettore di Libero Renato Farina.

Le indagini, guidate dai procuratori aggiunti Armando Spataro e Ferdinando Enrico Pomarici, portarono all’apertura di un processo, nel giugno del 2007, che iniziò a Milano contro i presunti responsabili del rapimento: fu un caso molto seguito, non solo perché portò alle dimissioni dell’allora capo del SISMI Niccolò Pollari, ma anche perché era la prima volta nel mondo in cui un’operazione del programma dei rapimenti illegali della CIA – le cosiddette extraordinary rendition – era al centro di un processo.

Quanto successo nel processo e nei processi collegati, tra coinvolgimento del governo e dei servizi segreti, ricorsi alla Cassazione e segreto di Stato, è piuttosto complicato. Nel novembre 2009 vennero condannati in primo grado 23 cittadini americani (quasi tutti agenti della CIA) e due membri dei servizi segreti italiani (Luciano Seno e Pio Pompa, coinvolto anche in un altro processo per presunti “dossieraggi” contro oppositori politici del governo Berlusconi). Tra i condannati c’erano l’allora capo della sede CIA di Milano – e console – Robert Seldon Lady, e un colonnello dell’US Air Force che era di stanza ad Aviano. Per gli imputati americani si trattava di pene per lo più simboliche e nessuno di loro andò in carcere: non si trovavano più in Italia da tempo e il governo italiano – prima Berlusconi, poi Prodi – rifiutò a lungo di inoltrare le richieste di estradizione negli Stati Uniti attraverso il ministero della Giustizia. Il governo sollevò anche un conflitto di attribuzione, sul tema della violazione del segreto di Stato, contro i magistrati milanesi, per quanto riguardava gli imputati che erano membri dei servizi segreti italiani.

Infatti, il giudizio di primo grado stabilì che non si poteva procedere contro l’ex capo della CIA a Roma, Jeffrey Castelli, così come contro il capo del SISMI Pollari e il suo vice Marco Mancini, accogliendo la loro difesa secondo cui le loro azioni erano coperte dal segreto di Stato: proprio a questo riguardo è arrivata ieri la sentenza della Cassazione, che ha stabilito che Pollari e Mancini devono invece essere processati in Appello. Ex funzionari della CIA hanno dichiarato negli anni passati che l’operazione del rapimento di Abu Omar era stata concordata e approvata dai vertici del SISMI.

Foto: Abu Omar ad Alessandria nel febbraio del 2007.
AP Photo/Nasser Nasser

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