Donne libere che alzano la voce

RIVOLTE ARABE
Gameela Ismail (Egitto), Manal al Sharif (Arabia saudita), Ghada Gazaal (Siria), Azadeh Moaveni (Iran) e Maryam al Khawaja (Bahrain) raccontano il loro ruolo di «pasionarie» e le loro lotte, tuttaltro che silenziose, Contro le dittature e gli stereotipi Donne che fanno sentire le loro voci. Le testimonianze di attiviste, giornaliste, protagoniste delle cosiddette primavere arabe, sembrerebbero dimostrare che le rivoluzioni al femminile siano state tutto tranne che silenziose.

RIVOLTE ARABE
Gameela Ismail (Egitto), Manal al Sharif (Arabia saudita), Ghada Gazaal (Siria), Azadeh Moaveni (Iran) e Maryam al Khawaja (Bahrain) raccontano il loro ruolo di «pasionarie» e le loro lotte, tuttaltro che silenziose, Contro le dittature e gli stereotipi Donne che fanno sentire le loro voci. Le testimonianze di attiviste, giornaliste, protagoniste delle cosiddette primavere arabe, sembrerebbero dimostrare che le rivoluzioni al femminile siano state tutto tranne che silenziose. Le immagini di giovani e meno, velate e non, che manifestano in piazza, dall’Iran alla Tunisia, dall’Egitto al Bahrain, fino a Siria e Arabia Saudita, hanno fatto il giro del mondo e hanno scalfito in qualche misura alcuni stereotipi sul ruolo delle donne, sottomesse, oppresse e senza alcuna influenza sulla scena politica e sociale di quei paesi.
Gameela Ismail, giornalista egiziana e candidata alle elezioni parlamentari, lotta da più di dieci anni contro la dittatura di Mubarak. Manal Al Sharif, saudita, ha lanciato la campagna per rivendicare il diritto delle donne a guidare. Ghada Gazaal racconta una Siria più complicata di come ci viene mostrata. Infine Azadeh Moaveni, giornalista e scrittrice, autrice del libro Lipstick Jihad, nata in California, di origini persiane, che da adulta ha scelto di vivere in Iran. Un grido di aiuto arriva dalla giovane Maryam Al Khawaja, attivista che denuncia il silenzio sulla situazione del Bahrain che vive un’intensa stagione di contestazioni nell’indifferenza dei media. Queste donne, unite dalla pratica di una forma quotidiana di resistenza, sono anche state ospiti a Ferrara del festival di Internazionale. Ognuna di loro porta avanti una battaglia di genere, e non solo, per conquistare diritti di base anche per chi vive senza lavoro e nessun supporto economico.
Una condizione di ipocrisia
Se la violenza del regime in Siria ha dapprima scoraggiato le donne a parlare e scendere in piazza per il rischio di arresti, torture, stupri e uccisioni, Ghada, ricercatrice di studi islamici e impegnata nel dialogo interreligioso, dice: «Se mi espongo contro il regime possono farmi del male o uccidermi, è un rischio che so di correre, ma purtroppo anche la mia famiglia potrebbe subire ritorsioni. Ho rischiato di essere arrestata per il mio attivismo. In Siria cerco di apparire dalla parte del regime altrimenti non potrei lavorare e viaggiare. Vivo una condizione di ipocrisia, se mi scoprono potrebbero arrestarmi o peggio, ma non sono preoccupata se avrò ottenuto qualcosa per la mia nazione. La generazione di mia madre è stata testimone dell’attacco del padre di Bashar al-Assad ad Hama nell”82 che in meno di un mese ha ucciso e torturato più di 40 mila persone. Per questo lei e le sue coetanee hanno paura per noi, ma le nuove generazioni sono più coraggiose e determinate». Sulle differenze e le analogie fra donne occidentali e mediorientali aggiunge: «Entrambe abbiamo degli stereotipi sulle altre. La ragione è che ci conosciamo solo attraverso i media che sono manipolati. Non abbiamo l’opportunità di interagire. Tutte le donne hanno la responsabilità di educarsi e imparare l’una dall’altra. È tempo di lavorare e stare insieme».
Gameela, una pasionaria, ripercorre gli ultimi dieci anni di battaglie contro il regime, il dittatore, la sua famiglia e l’entourage. «Oggi – spiega – stiamo cercando di costruire un nuovo Egitto e una consapevolezza nella società su quanto sia importante rispettare le libertà di donne e uomini, i diritti, le minoranze. È una battaglia che stiamo combattendo senza nessuna autorità, in prima persona per la prima volta. Ci sono stati campi che ci sono stati preclusi per molti anni, è tempo di riappropriarcene».
Sul ruolo delle donne a livello mondiale e nelle proteste che stanno attraversando il mondo arabo, commenta: «Siamo capaci di spingere le coscienze sociali, stiamo guadagnando più potere e forza, siamo più influenti e sicure che in passato. Abbiamo scoperto le nostre potenzialità e la coscienza che si può fare e cambiare il futuro del paese come stiamo facendo. Dopo aver rovesciato i regimi e mandato via i dittatori è necessario fare qualcosa per noi stesse, avviare un cambiamento nella società. La costituzione è in costruzione, nessuno può più toccare i nostri diritti, siamo pronte a nuove ribellioni. Ci vorranno molti altri sacrifici, sarà una lunga battaglia, forse si dovrà versare altro sangue».
Ha le idee chiare Manal, mamma single di un bambino di sei anni in Arabia Saudita, wahabita superconservatrice che a causa delle difficoltà ad accompagnare il figlio in ospedale, mentre la sua auto era parcheggiata in garage, ha realizzato quanto fosse assurdo il divieto di guidare. È diventata la promotrice del diritto a condurre l’auto, ed è al volante che Manal è arrivata a Ferrara da Ginevra. «Non mi sento una rivoluzionaria – ammette sorridendo – e nemmeno un’eroina. Sono una mamma sola che vuole vivere con dignità. Nel mio paese è necessario che sia un uomo a fare tutto, io non voglio aver bisogno di un uomo, voglio vivere la mia vita da me. Sono indipendente, ho un lavoro, prendo decisioni, vivo da sola. Non voglio che sia un compagno a prendersi cura di me, darmi il permesso, guidare la mia auto. Sono un essere umano adulto e voglio essere trattata come tale». E aggiunge: «Guidare è un atto simbolico, significa essere una cittadina completa. È una goccia nell’oceano dei diritti delle donne, considerate minori. Ci sono dottoresse, professoresse, che si occupano di bambini e delle vite delle persone a cui però non è permesso condurre l’auto. Le donne devono agire e spingere il governo a concedere questo diritto, altrimenti non succederà mai». Il divieto alla guida porta con sé una serie di problemi sociali: «Per la gente della classe media come me – spiega – è troppo costoso avere un conducente privato, le più povere non possono neanche permettersi l’auto. Per questo chiediamo trasporti pubblici per tutti, così le donne potrebbero lavorare. Il 50% perde o non ha accesso a un’occupazione perché non può avere un autista che le conduca al lavoro, e resta così nella povertà».
Una specie di confino
A ispirare queste battaglie gli esempi presi dalla storia dei movimenti americani ed europei: «Le vostre madri e nonne si sono battute per i diritti, in passato c’erano condizioni anche peggiori di quella attuali in Arabia Saudita» ricorda. E prosegue: «Da voi spesso la libertà è considerata scontata, garantita, e non sempre è apprezzata abbastanza. Alla fine del 2000 internet ha aperto una grande finestra, fino ad allora vivevamo in una specie di confino». Manal conclude: «Donne libere creano uomini liberi» anche se lei da pochi mesi ha dovuto trasferirsi a Dubai.
Altro paese altra storia, Azadeh Moaveni, racconta di un Iran che sotto Ahmadinejad è diventato molto più repressivo specialmente nei confronti delle donne. «Si sta tornando indietro – spiega -. Le donne non hanno accesso a molte facoltà. L’istruzione, un diritto base, è la chiave per andare lontano nella vita pubblica. Le donne iraniane vogliono avere uguali diritti, hanno capito che ci deve essere uguaglianza legale». La forza e la determinazione di queste donne, che ogni giorno sfidano le autorità anche rischiando la vita, hanno qualcosa da insegnare a noi occidentali. Secondo Azadeh «l’Iran ha forse due lezioni da offrire». E suggerisce: «La vita quotidiana può essere un campo su cui combattere le battaglie, lavorare per i diritti delle donne non è solo partecipare a marce di protesta, ma può essere semplice come chiedere cambiamenti sul luogo di lavoro o rivendicare in famiglia un’equa ripartizione dei compiti domestici». Inoltre, aggiunge, «l’idea dei diritti umani e dell’attivismo sta attraversando la classe media, il movimento delle donne sta rompendo la convinzione che sia solo appannaggio di un’élite. Anche le donne della working class, e le meno abbienti, sentono di essere rilevanti».
Chi si mobilita per il Bahrain?
La più giovane, Maryam Al Khawaja, è anche la più combattiva, attacca i media che non si occupano del suo paese il Bahrain, e dice «ci sono proteste ogni giorno, il regime continua a reprimere e opprimere la gente. Gli stati occidentali stanno a guardare perché è nel loro interesse. Gli europei e gli americani dovrebbero chiedersi perché i governi sostengono regimi che violano i diritti umani in maniera così dura mentre per altri stati ci si mobilita in nome dei diritti umani e la democrazia. È difficile ricevere supporto internazionale, ci sono omicidi, arresti arbitrari, un eccessivo uso della forza».
Fra gli arrestati anche suo padre, difensore dei diritti umani condannato all’ergastolo, e la sorella, in carcere dopo una manifestazione in difesa del padre. Maryam vuole imparare dalle donne mediorientali: «Sono state forti e coraggiose durante le proteste – dice – e le lotte durante le cosiddette primavere arabe continueranno anche se gli uomini decideranno di fermarsi. È la dimostrazione dell’importanza delle donne nei movimenti, contro diversi stereotipi dei paesi occidentali».

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HAMID DABASHI Intervista all’autore di «Corpus anarchicum»
Non si può fare una rivoluzione e poi negare i diritti alle cittadine
L. Chia.

«In Francia indossare il velo può essere illegale, in Iran accade l’opposto. È un doppio nonsense: sarebbe meglio rispettare la libertà di scelta» Hamid Dabashi, iraniano classe ’51, insegna letteratura comparata e Iranian Studies alla Columbia University, la più antica e prestigiosa in questo campo, dove occupa la cattedra che dalla fine degli anni ’70 è stata di Edward Said. Dabashi è membro del Centro studi sulla Palestina ed è considerato fra i più illustri intellettuali di critica e studi post-coloniali. Fondatore di Dreams of a Nation, progetto per salvaguardare il cinema palestinese. Nelle scorse settimane è stato a Milano ospite di un incontro in cui si commemorava Edward Said, scrittore palestinese naturalizzato americano, docente d’inglese e letteratura comparata alla Columbia, noto per la sua critica del concetto di Orientalismo, morto nel 2003, e suo grande amico. A Bologna Dabashi, che ha da poco pubblicato The Arab spring: the end of postcolonialism in Usa e Inghilterra, dove sta per uscire anche Corpus anarchicum in cui affronta il tema del corpo delle donne, ha tenuto una lezione sull’umanesimo letterario alla Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università.
Nel suo ultimo libro affronta il tema del corpo delle donne come “luogo” in cui si combattono battaglie politiche. Ci spiega meglio cosa intende?
Le donne che hanno partecipato alle primavere arabe sono cittadine e hanno avuto un ruolo significativo quanto quello degli uomini. Come in tutti i luoghi del mondo le donne sono soggette a due tipi di tirannie: quella del patriarcato misogino e dell’assolutismo, e il colonialismo. Le donne hanno un ruolo contro le restrizioni culturali e legali che subiscono. Le battaglie sono per le libertà civili. Definisco i diritti delle donne libertà civili, come avviare le pratiche del divorzio, avere un lavoro, un’istruzione, pari accesso alle università. Non si tratta di fare una rivoluzione contro i dittatori e poi chiedere alle donne di stare in silenzio in attesa di ottenere quei diritti in futuro. Le rivoluzioni sono per i diritti democratici dei cittadini e le cittadine, il diritto alla salute, alla formazione, alla gestione dei propri corpi e dei propri organi riproduttivi per decidere quando e se avere figli. Poter essere nelle condizioni di ricorrere ad un aborto legale, sicuro. Queste non sono solo prerogative del mondo arabo, ma questioni attuali anche negli Usa o nel contesto cattolico europeo. Si deve cominciare dalle libertà civili e i diritti democratici di tutti i cittadini, incluse le donne. In merito all’hijab, ad esempio, non è affare di Sarkozy o Hollande decidere se le donne non possono portarlo, come la scelta di non indossarlo non è affare della Repubblica islamica dell’Iran. I corpi delle donne sono delle donne, decidono loro quando avere figli o non averne, se abortire o no. Questo strano, inusuale e rivoluzionario modo di pensare è semplicemente un diritto umano, civile. Preferisco parlare di diritti civili, perché significa legale, che deve essere scritto nella costituzione. È una questione di legalità che i corpi delle donne siano sotto il loro stesso controllo.
È sul corpo delle donne che passano alcune politiche?
È ad esempio un territorio di contestazione fra la repubblica islamica e la Francia. Se in Francia una donna sceglie di indossare il velo non può essere contro la legge francese, in Iran accade l’opposto, chi non vuole portarlo si scontra con la moralità islamica. Entrambi sono nonsense. È indispensabile rispettare la libertà di scelta.
Durante le contestazioni c’è stato anche un nuovo uso dello spazio pubblico.
Sì, e ha svolto un ruolo principale nella formazione della ragione pubblica e delle libertà civili. L’apparizione delle donne nelle piazze ha avuto la stessa cittadinanza degli uomini. C’è un pregiudizio, una sorta di femminismo borghese di tipo europeo, che non accetta l’hijab che abbiamo visto non nega alle donne le libertà civili e la possibilità di prendere parte alla rivoluzione. Si può essere politicamente impegnate e presenti nello spazio pubblico ed essere velate o no.
A Milano è stata celebrata la figura di Edward Said, che eredità ha lasciato?
Lo scopo era ricordarlo non solo come critico letterario, ma anche come difensore della causa palestinese e come un intellettuale i cui lavori sono stati tradotti in molte lingue. Una figura monumentale nella scena mondiale. Commemorarlo significa celebrare le sue idee e i successi letterari. La sua eredità è multipla, quelli che come me fanno vita accademica sono interessati alle sue idee, ai libri sull’orientalismo e l’imperialismo culturale, i saggi di critica letteraria, ma celebriamo anche l’impegno per la giustizia e l’abilità ad esporsi in pubblico lontano dalle torri d’avorio dell’accademia e impegnarsi per i milioni di palestinesi spossessati della loro patria.

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