Il mappamondo ha perso i confini

OLTRE FRONTIERA I «movimenti indisciplinati» dei migranti e le dinamiche di scomposizione delle nazioni in un libro a cura di Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi

OLTRE FRONTIERA I «movimenti indisciplinati» dei migranti e le dinamiche di scomposizione delle nazioni in un libro a cura di Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi
Le migrazioni sono un «fatto sociale totale». Attraversano e condizionano le dimensioni costitutive di una società. Della società di partenza, di transito e di arrivo mettendo in tensione i significati e la materialità sociale di parole come cittadinanza, integrazione e lavoro migrante. Le migrazioni sono portatrici di «pratiche transnazionali» che rideterminano i concetti di territorio, confine e stato. Non attraversano solo frontiere, riconfigurano spazi politici. Il volume, da poco pubblicato, a cura di Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi (Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, Ombre Corte, pp. 271, euro 25) è allo stesso tempo un testo introduttivo e un bilancio della lunga stagione degli studi critici sulle migrazioni in Italia.
I due curatori scelgono di collocarsi in un campo di ricerca che permette loro di vedere sia le difficoltà delle scienze sociali quando sono investite da un fenomeno materialmente e non solo nominalmente interdisciplinare sia gli elementi costitutivi delle soggettività migranti. La densa introduzione di Mezzadra e Ricciardi affronta una serie di nodi problematici dei movimenti migratori con l’obiettivo di definire le coordinate di un’epistemologia politica delle migrazioni. I migration studies italiani si sono spesso arenati sulla definizione di «politico» perché troppo legati a statuti disciplinari contigui a un «codice nazionale», cioè all’immagine di una supposta società omogenea in cui i migranti sono incasellati in uno spazio tra l’integrazione e l’espulsione. La decostruzione di questo «codice nazionale» passa attraverso la messa in crisi del concetto di migrante come vittima, come soggetto mancato bisognoso di protezione e tutela, in ultima analisi come soggetto impolitico.
Scompaginare la governance
Le migrazioni non sono movimenti classici che fanno uso di repertori politici facilmente classificabili e di risorse consolidate. Sono movimenti sovversivi nel significato letterale del termine. Capovolgono concetti, spazi geografici, norme giuridiche e divisioni del lavoro. I confini diventano ubiqui e non delimitano solo l’ambito dello Stato-nazione, segnano profondamente i territori, gli assetti urbani, gli spazi politici di lotta e riconoscimento. Le dinamiche di scomposizione e ricomposizione dei confini esterni ed interni non conducono a un’immagine di un «mondo senza confini», piuttosto a una «deterritorializzazione» del loro controllo. Così come concepire un’opposizione netta tra inclusione ed esclusione non permette di cogliere i loro diversi gradi, a cui dà luogo la governance della cittadinanza e delle migrazioni, e le varie modalità di «inclusione differenziale» dei e delle migranti nella società e nei sistemi della produzione e della riproduzione sociale.
Nell’introduzione del libro si sviluppa e attualizza l’elaborazione di Abdelmalek Sayad, punto di riferimento di tanti studi e contributi critici sulle migrazioni degli ultimi decenni. Pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione, diceva Sayad. Nella loro riflessione, che non prevede sintesi, Mezzadra e Ricciardi vanno oltre Sayad con un’opera di estensione e approfondimento: le migrazioni non investono solo il «pensiero di Stato» ma anche il «pensiero di società». È qui che sorge la necessità di un’epistemologia politica delle migrazioni che si attesti negli spazi e nei tempi della convulsa trasformazione della sovranità statale e dei poteri sociali che non dipendono direttamente dal potere politico. Quindi anche la società globale pensa se stessa pensando alle migrazioni. Ma non solo. Al concetto, introdotto da Sayad, di «doppia assenza» dei migranti rispetto al paese d’origine e al paese di destinazione viene affiancato da quello di «doppia presenza» dei migranti in quanto lavoratori e individui che interpellano e confliggono con le lotte, i comportamenti, gli stili di vita con la rappresentazione classica del «politico».
Il lavoro migrante inteso come categoria politica e non semplicemente economica tende, con un doppio movimento, a rovesciare le regolazioni del mercato del lavoro anticipando i processi di precarizzazione e a evocare nuovi diritti che non possono essere conquistati rimanendo all’interno dei confini degli Stati nazionali. La compresenza, nei movimenti migratori, delle linee del colore, di genere e di classe complica l’analisi e richiede ulteriori approfondimenti delle caratteristiche del lavoro vivo migrante contemporaneo. Da questo punto di vista non pare che il pensiero dell’intersezionalità, che pur ha scosso alcuni ambienti di ricerca troppo paludati, sia in grado di andare oltre una sorta di arte combinatoria del genere, della classe e del colore che per farli reagire l’un con l’altro si devono presupporre come già dati e compiuti.
La costruzione del clandestino
L’uso, spesso irriflesso, da parte dell’antirazzismo istituzionale del concetto di integrazione dei migranti nelle società di arrivo non tiene conto, per dirla con il Marx dell’Ideologia tedesca, che sono «individui empiricamente universali». All’interno delle diversità di comportamento, delle culture c’è una tensione alla riaffermazione dell’uguaglianza, a una pratica immediata dell’universalismo che li mette in contraddizione con i principi astratti della cittadinanza e della democrazia. Non vi è nessun romanticismo in tutto ciò, nessuna mitologia delle lotte di resistenza dei migranti. Si mettono in chiaro i connotati di un’ambivalenza che riguarda non solo le migrazioni verso i paesi occidentali, ma anche le caratteristiche, troppo trascurate, delle migrazioni in India, America Latina e Cina.
I contributi che compongono il libro tracciano percorsi non predeterminati dalle procedure classiche della scienza «normale» delle migrazioni. I movimenti delle migranti parlano della frequentazione delle donne degli spazi di confine della società. Si può leggere il fenomeno migratorio attraverso le categorie del femminismo e si può leggere il femminismo attraverso le esperienze che le migranti mettono in circolo (Roberta Ferrari).
I lavoratori migranti sono portatori di una precarietà costitutiva che contiene tutte le altre precarietà. La sociologia italiana ha spesso classificato questi lavoratori come temporanea eccedenza non cogliendo invece la loro presenza strutturale (Devi Sacchetto). La costruzione sociale del migrante «clandestino», pensato come naturalmente propenso all’azione criminale, si fonda sulla stigmatizzazione e il confinamento dei soggetti in una sotto-classe da contrastare con paradigmi securitari che hanno una logica militare (Alvise Sbraccia).
Le migrazioni hanno ripercussioni sugli spazi e sui luoghi della città e della metropoli, che diventano un campo del conflitto, pur mantenendo un aspetto transnazionale e globale (Agostino Petrillo). I dispositivi che regolano la cittadinanza e i confini indicano la posizione di fronte a un ordine politico e giuridico definendola rispetto a un «dentro» e un «fuori». Le migrazioni mettono in crisi la rappresentazione di tale ordine come linea di demarcazione che garantisce un’unità di spazio e di diritto (Enrica Rigo). I movimenti migratori hanno reso problematico l’esercizio della triplice sovranità dello stato nazionale: militare, economica, culturale, alla luce del venir meno del concetto di popolo come soggetto relativamente omogeneo (Emilio Santoro). C’è una rimozione dell’esperienza coloniale e imperiale – in particolare delle nozioni di razza e razzializzazione – nella costituzione materiale e culturale della modernità capitalista. Il legame tra migrazioni e condizione postcoloniale sta a indicare l’irruzione dei margini nel centro, una transizione permanente intesa come insieme di continuità e rotture di quell’autoritarismo istituzionale e pedagogico incentrato attorno alla problematica nozione di «integrazione» (Miguel Mellino).
Tra cittadinanza e dominio
I figli dell’immigrazione rompono il mito della provvisorietà delle migrazioni. Sono una «posterità inopportuna» che rende permanente ciò che si vorrebbe provvisorio, e parlare di seconde generazioni è fuorviante perché riduce tutto a un’origine. La condizione giovanile migrante esprime comportamenti che variano dal mimetismo alla trasformazione dello stigma della discriminazione in emblema identitario (Luca Queirolo Palmas). Il regime discorsivo costruito dai molteplici intrecci narrativi sviluppati da diversi attori delle politiche di governo delle migrazioni nega lo spazio fisico e politico ai corpi in movimento. Le narrazioni mainstream delle migrazioni parlano di soggetti fantasmatici senza fisicità, raccontano «storie di impronte» (Federica Sossi).
Più che descrivere fotografie più o meno mosse dei movimenti migratori, nel lavoro coordinato da Mezzadra e Ricciardi si va in live-streaming. Certamente, ciò implica il rischio di riecheggiare una dialettica negativa delle migrazioni di stampo adorniano. Ma si tratta di un rischio necessario per mettere a fuoco, come giustamente dicono i due curatori, lo scarto che si è prodotto non solo tra le teorie della cittadinanza e della democrazia e le forme effettive dell’organizzazione del dominio e dello sfruttamento, ma anche tra quelle teorie e le pratiche sociali, le rivendicazioni, le aspirazioni dei soggetti subordinati. Insomma, è un libro che ha tutti gli aspetti di un lavoro seminale.

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SCAFFALI
Materiali resistenti e postcoloniali per il Frantz Fanon dei «Dannati della terra»
Frantz Fanon è uno degli autori che sta conoscendo, in Italia ma non solo, una vera e propria «renaissance». Psichiatra, militante nella lotta per l’indipendenza algerina, è stato uno degli autori che la sinistra francese ha inizialmente guardato con diffidenza per la sua militanza a fianco degli algerini, fino a quando Jean-Paul Sartre non legittimò la sua opera presentando come uno dei testi più importanti dell’antimperialismo l’opera di Fanon più nota, «I dannati della terra». In quel libro, lo psichatra di origine martinicana descriveva il lento processo di presa di coscienza e di conquista dell’«autonomia» del colonizzato, denunciando l’operato delle istituzioni totali dei colonizzatori. Su Fanon scese un coltre densa di silenzi e di rimozioni da parte dell’intellettualità «occidentali», anche di quella «critica». Solo recentemente nelle università anglosassoni, i suoi scritti sono ricominciato ad essere letti da una nuova generazione di intellettuali, variamente impegnati nei «cultural studies» e nei «subaltern studies». Ma aspetto ancora più interessante è che gli scritti di Fanon sono letti anche da militanti di base, che hanno cercato nei suoi testi elementi per comprendere le lotte dei migranti o le rivolte negli slums inglesi o nelle banlieue francesi. In Italia, invece, solo con la ripubblicazione dei «Dannati della Terra» e sopratutto con la pubblicazione degli «scritti politici» di Fanon (due volumi pubblicati da DeriveApprodi con la cura di Miguel Mellino) che la sua opera è tornata ad essere studiata. È di questi giorni la pubblicazione del volume, sempre curato da Miguel Mellino, «Fanon postcoloniale» (ombre corte, pp. 205, euro 19), che raccoglie i materiali del convegno internazionale, organizzato a Napoli dall’Università l’Orientale e dalla School of Business and Management del Queen Mary College, che fanno il punto sullo stato dell’arte della riflessione sull’autore dei «Dannati della terra».

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