Dal golpe ai forconi

I camionisti cileni del ’73 e i nipotini di Piazza del Popolo
I camionisti cileni del ’73 e i nipotini di Piazza del Popolo

Si dice che le proteste dei Forconi ricordino la rivolta dei camionisti cileni, quel luglio 1973 paralizzato dallo sciopero apripista del colpo di Stato di Pinochet. Blocco dei trasporti per esasperare la borghesia in un paese lungo 4 mila chilometri. Negozi che si spengono; mancano pane, latte, benzina e le signore di Los Condes (eleganza di palazzi e giardini) battono pentole vuote. In un certo senso, l’esasperazione cilena preannunciava le parole d’ordine del Calvani di piazza del Popolo: cambiare e rovesciare per salvare la patria dal potere infido. Attorno le maschere di Casapound; a Santiago camionisti abbracciati ai neofascisti Patria y Libertad. Allende aveva tagliato le sovvenzioni ai Tir distribuite dai governi della destra dell’imprenditore Jorgec Alessandri e dalla Dc di Eduardo Frei. Malumore consolato dai dollari segreti che arrivano da lontano: trame Nixon-Kissinger per scongiurare il pericolo del socialismo attorno alle miniere di rame. Da noi, negli anni del Popolo della libertà 10 miliardi rallegrarono i serbatoi dei trasportatori per i buoni uffici del sottosegretario Uggé, loro segretario generale. Nessun intrigo internazionale. Benevolenze dell’autarchia corporativa.
LO STRATEGA del boicottaggio cileno si chiamava Leo Vilarin capo della confederazione che riuniva 165 sindacati, 56 mila giganti della strada. Anni dopo parliamo sulla veranda di una piccola casa nel bosco di Alexandra, Virginia, residenza degli agenti Cia.
È scappato dal Cile. Ai militari dava fastidio la presenza del sindacalista infedele. Ha l’aria di un ospite provvisorio. Racconta di essere stato avvertito del colpo di Stato. “Passo la notte ascoltando la radio. Aspetto il proclama della giunta militare. Assieme ai dirigenti della corporazione ho respinto le pressioni del governo Allende grazie ai contributi di sindacati nordamericani”. Quali? provo a chiedere. Allarga le mani: non ricorda il nome. Ma esiste un’altra versione. Orlando Sáenz, presidente della Confindustria cilena, raccontava all’ombra della dittatura come avventurosamente portava i soldi a Villarin. “Dollari che finivano in 5 conti aperti in Europa, versati dall’Itt e altre multinazionali”. Itt, telefoni e telegrafi, monopolio Usa nel Cile minacciato dalla nazionalizzazione. “Se gli imprenditori cambiano una certa quantità di moneta americana nessuno prende nota. Normale per chi compra ed esporta in paesi lontani. Vendevamo i dollari a proprietari cileni. Passaggi nelle banche d’oltremare. A Santiago ritiravo l’equivalente in pesos. Con qualche spavento. Una volta la polizia ha perquisito i passeggeri dell’aereo. Nella borsa avevo il foglietto col numero dei conti. L’ho masticato”, e ride per la ragazzata.
Villarin scuote la testa. “Mai incontrato Sáenz. Racconti da ubriaco”. Adesso come vive? “I sindacati mi danno una mano”. Non mi pare sia il bosco dei sindacati … “Qui si mescolano realtà diverse”. Continua il ricordo: “Quella notte preparo il discorso suggerito dall’ambasciata americana. Dovevo leggerlo il giorno dopo, 12 settembre ’73…”. Lo recita a occhi chiusi: “Sospendiamo ogni agitazione avendo piena fiducia nel governo militare. Ribadiamo la nostra soddisfazione per aver contribuito più d’ogni altro alla caduta del governo”.
Mai incontrato Allende? “Cinque volte. Proponevo un accordo. Rispondeva: troppo impegnativo. Ne parliamo fra qualche mese. Era fine agosto. Il contatto dell’ambasciata Usa: lascia perdere, è tutto deciso”. Mani straniere robuste, mani italiane (speriamo) che s’agitano solo in piazza. Il generale in pensione Pappalardo non è Pinochet.

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