? La morte di Custer in una rappresentazione teatrale del 1905

Philipp Meyer. Un'intervista con lo scrittore statunitense, autore di «Ruggine americana» e «Il Figlio». Due avvincenti romanzi sul mito della frontiera e del declino industriale. E svelatori della politica di potenza attuata contro i nativi e all'esterno dei confini nazionali
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La ruggine tossica dell’American Dream

? La morte di Custer in una rappresentazione teatrale del 1905

Philipp Meyer. Un’intervista con lo scrittore statunitense, autore di «Ruggine americana» e «Il Figlio». Due avvincenti romanzi sul mito della frontiera e del declino industriale. E svelatori della politica di potenza attuata contro i nativi e all’esterno dei confini nazionali

? La morte di Custer in una rappresentazione teatrale del 1905

Philipp Meyer. Un’intervista con lo scrittore statunitense, autore di «Ruggine americana» e «Il Figlio». Due avvincenti romanzi sul mito della frontiera e del declino industriale. E svelatori della politica di potenza attuata contro i nativi e all’esterno dei confini nazionali

Quando una gior­na­li­sta del Los Ange­les Times gli ha chie­sto iro­ni­ca­mente se il fatto di aver abban­do­nato la scuola a 16 anni lo avesse aiu­tato a diven­tare uno scrit­tore, Phi­lipp Meyer non ha avuto la minima esi­ta­zione a rispon­dere: «è stato il fat­tore deci­sivo, solo così ho potuto sod­di­sfare le mie curio­sità». Dopo un paio d’anni pas­sati a ripa­rare bici­clette e come volon­ta­rio al Pronto soc­corso trau­ma­to­lo­gico di Bal­ti­mora, la città del Mary­land, dove è nato nel 1974 — è cre­sciuto nella peri­fe­ria ope­raia di Hamp­den da una cop­pia che lui stesso ha defi­nito come «bohe­mien intel­let­tuali legati alle con­tro­cul­ture» -, Meyer è tor­nato agli studi prima di lavo­rare a Wall Street. Ha lavo­rato anche come mura­tore. Durante l’uragano Katrina a New Orleans, è invece tor­nato a lavo­rare in un cen­tro medico.

Nel frat­tempo, aveva comin­ciato a scri­vere, pub­bli­cando nel 2009, dopo una serie di rac­conti, il suo romanzo d’esordio, Rug­gine ame­ri­cana, salu­tato come un capo­la­voro dalla cri­tica sta­tu­ni­tense. Quat­tro anni dopo, gra­zie ad una borsa di stu­dio e ad una full-immersion nella realtà e nella sto­ria texana, è arri­vato Il figlio — appena pub­bli­cato, come il pre­ce­dente, da Einaudi (pp. 554, euro 20. Sul romanzo ha scritto Fabio Pedone su «Alias della dome­nica» il 16 marzo) che lo ha con­sa­crato defi­ni­ti­va­mente anche a livello inter­na­zio­nale. Il New Yor­ker ha inse­rito il suo nome nella clas­si­fica dei 20 migliori scrit­tori ame­ri­cani under 40.

Se Rug­gine ame­ri­cana rac­con­tava, quasi con le tinte del noir, tanto da meri­tarsi il plauso di un’autorità in mate­ria come Patri­cia Cor­n­well, le dram­ma­ti­che peri­pe­zie di due gio­vani sban­dati, figli della crisi indu­striale della Penn­syl­va­nia — «per oltre un secolo la Mon Val­ley era stata il cen­tro della pro­du­zione side­rur­gica del paese, anzi, pra­ti­ca­mente del mondo intero, ma da quando Poe e Isaac erano nati aveva perso 150mila posti di lavoro: la mag­gior parte delle città non pote­vano più per­met­tersi i ser­vizi essen­ziali» -, Il figlio pro­pone di inda­gare le ori­gini stesse del natio­nal buil­ding sta­tu­ni­tense. Nel suo primo romanzo, Meyer si inter­ro­gava su «cosa suc­cede quando il sogno di una nazione arru­gi­ni­sce accanto agli sche­le­tri delle accia­ie­rie dismesse», men­tre nel secondo descrive con lucida deter­mi­na­zione, assor­tita di san­gue, vio­lenza e sopraf­fa­zione, la mate­ria con cui quel «sogno» è stato edificato.

Come in un romanzo cri­mi­nale in stile western che ha come sfondo la terra del mito dello Stato della stella soli­ta­ria, Il figlio narra infatti l’epopea, lungo un arco tem­po­rale che va dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai nostri giorni, di una grande fami­glia del Texas, i McCul­lough che hanno costruito le pro­prie for­tune dap­prima con l’allevamento del bestiame e quindi con l’estrazione del petro­lio. Incro­ciando le vicende del capo­sti­pite, Eli, rapito da bam­bino e edu­cato dai Coman­che, di suo figlio Peter che si misu­rerà con­tro­vo­glia con il primo svi­luppo dell’industria petro­li­fera e cer­cherà di ribel­larsi ai cri­mini com­piuti in nome dell’impero fami­liare e di sua nipote Jeanne che assi­sterà invece all’entrata in crisi del mono­po­lio texano sull’oro nero a favore dei paesi del Medio­riente, Phi­lipp Meyer rico­strui­sce, con grande cura per ogni det­ta­glio — si è sot­to­po­sto per alcuni mesi ad un trai­ning inten­sivo con un ex-contractor della Blac­k­wa­ter per impa­rare a costruire archi e a ucci­dere bisonti -, una parte deci­siva della sto­ria ame­ri­cana, sin­te­tiz­zando per molti versi lo svi­luppo stesso della moder­nità a stelle e stri­sce e la costru­zione del suo mito. Il tutto, rifug­gendo da ogni reto­rica. Come ha spie­gato Meyer, ospite la scorsa set­ti­mana della ras­se­gna «Libri come» all’Auditorium di Roma, al sito The Mil­lions: «Ci siamo fatti strada nel con­ti­nente macel­lando e ucci­dendo e ce lo siamo presi un pezzo dopo l’altro con la forza. Ma d’altra parte le tribù native, come tutti gli umani sulla fac­cia della terra, hanno macel­lato, con­qui­stato e attac­cato i loro vicini più deboli e ne hanno preso la terra. In Texas gli Apa­che arri­vano e distrug­gono quasi tutte le altre tribù. Cent’anni dopo i Coman­che arri­vano e fanno loro la stessa cosa. Poi, tocca agli americani».

I McCul­lough non si fanno scru­poli a costruire la loro ric­chezza sul furto e l’omicidio, ma anche gli indiani non scher­zano quanto a cru­deltà. Per­ché sem­bra pro­prio che ne «Il figlio» nes­suno sia innocente?

Ho scelto di affron­tare due ele­menti cen­trali della cosmo­go­nia ame­ri­cana. Negli Stati Uniti, cre­sciamo con il mito di John Wayne, quello dell’uomo bianco che arriva a por­tare la civiltà in que­sto con­ti­nente appa­ren­te­mente vuoto. Degli indiani si parla poco per evi­tare di dover affron­tare i dif­fi­cili risvolti morali del fatto che si è tolta loro la terra, prima di mas­sa­crarli. Accanto a que­sto mito «tran­quil­liz­zante» che accom­pa­gna la nostra infan­zia, c’è poi il contro-mito che incon­triamo quando siamo più grandi, quello che si inse­gna nella mag­gior parte delle uni­ver­sità del paese, ad ecce­zione di quelle ultra­con­ser­va­trici, dove ci spie­gano che i nostri ante­nati erano in realtà delle per­sone orri­bili, avide e vio­lente e che sono arri­vati in que­sta terra dove i nativi, supe­riori dal punto di vista spi­ri­tuale e filo­so­fico, vive­vano come «santi», senza cono­scere l’odio o il con­cetto di pro­prietà. Gli indiani erano divisi in tribù che si face­vano la guerra di con­ti­nuo. Come del resto è acca­duto sem­pre nella sto­ria umana, tal­volta invo­cando la neces­sità di pro­teg­gersi o il fatto di incar­nare il «popolo eletto» rispetto agli altri. E il mito ame­ri­cano, in que­sto, non fa differenza.

In que­sta dram­ma­tica saga, solo Peter ha rimorsi per il modo in cui la sua fami­glia ha accu­mu­lato for­tune e potere. Negli Stati Uniti la sua figura non è stata amata troppo dai let­tori, perché?

Peter è il bari­cen­tro morale del romanzo; è il per­so­nag­gio che mette in discus­sione un po’ tutto. Pro­prio per que­sto, mi aspet­tavo che al pub­blico ame­ri­cano non pia­cesse, ma l’antipatia che ha susci­tato è andata oltre le aspet­ta­tive. I let­tori sta­tu­ni­tensi, com­presi quelli di sini­stra, si sono infatti iden­ti­fi­cati con Eli e Jeanne, per­so­na­lità forti e in linea con la sto­ria degli Stati Uniti. Men­tre scri­vevo, ho riflet­tuto spesso sul pro­filo di Peter, sulla sua forte tem­pra morale che ne fa in qual­che modo un outsi­der rispetto alla sto­ria della sua fami­glia e alla Sto­ria americana.

Lei descrive l’ascesa e la caduta dell’impero ame­ri­cano, si può leg­gere «Il figlio» come l’atto fon­da­tivo di quel mondo di cui con «Rug­gine ame­ri­cana» ha rac­con­tato l’epilogo con la de-industrializzazione e la crisi?

Senza dub­bio. Ho scritto Rug­gine ame­ri­cana sca­vando in un certo senso den­tro di me. È una sto­ria che parla dei miei amici, dei gio­vani con cui sono cre­sciuto, di tutti quelli che hanno avuto un padre o un nonno ope­raio. Anche nella zona di Bal­ti­mora c’erano fab­bri­che, soprat­tutto tes­sili, grandi accia­ie­rie e un enorme indotto di pic­cole offi­cine che ruo­tava intorno a tutto ciò. Poi, tutti gli ele­menti costi­tu­tivi di quest’economia indu­striale, hanno comin­ciato a sgre­to­larsi, un pezzo alla volta. Così, la nostra è diven­tata la prima gene­ra­zione per la quale non c’erano più pro­messe, alcuna spe­ranza, pro­prio per­ché il mondo delle fab­bri­che stava spa­rendo. Più tardi, mi sono chie­sto da dove era nato que­sto sogno ame­ri­cano che avevo visto crol­lare davanti a me. Ed è da que­sto spunto che è nato il pro­getto de Il figlio.Infatti, l’idea tutta ame­ri­cana che noi potes­simo sem­pre rein­ven­tarci, cavar­cela in ogni caso, viene pro­prio dalla cul­tura della fron­tiera che ho rac­con­tato nel mio secondo libro. Il sogno ame­ri­cano si è defi­nito men­tre si occu­pa­vano manu mili­tari quelle terre che si cre­deva non aves­sero Sto­ria, né abi­tanti: una sorta di tabula rasa su cui avremmo edi­fi­cato qua­lun­que cosa volessimo.

Se l’acciaio che diventa rug­gine è quello della Penn­syl­va­nia, per­ché in quest’ultimo caso la scelta è caduta pro­prio sul Texas, piut­to­sto che, ad esem­pio, sulla Cali­for­nia che tanta parte ha avuto nel mito del West?

Se si pensa ad Hol­ly­wood dal punto di vista della cul­tura popo­lare, è chiaro che la Cali­for­nia possa appa­rire più signi­fi­ca­tiva. Ma se si guarda all’economia e alla poli­tica ame­ri­cane, emerge chia­ra­mente come il pas­sato e il pre­sente degli Stati Uniti pas­sino soprat­tutto per lo Stato della stella soli­ta­ria. È il Texas che ha por­tato gli Stati Uniti nell’epoca in cui viviamo. È acca­duto quando è stato sco­perto il petro­lio nel 1901, e ci si è resi conto che poteva essere usato anche come car­bu­rante: è lì che è ini­ziata la sto­ria che viviamo ancora oggi. Si può dire che in Texas si è defi­nita la stra­te­gia della poli­tica ame­ri­cana a livello inter­na­zio­nale: dal colpo di Stato in Iran nel 1953, pas­sando per il Medio­riente, fino agli accordi con l’Arabia sau­dita e la guerra in Iraq degli ultimi anni. Anche la Seconda guerra mon­diale è stata vinta gra­zie al petro­lio texano con cui gli Stati Uniti hanno rifor­nito i loro alleati per bat­tere i nazi­sti. Ma non è tutto. In Texas le cosid­dette «guerre indiane» sono durate più che in qua­lun­que altro Stato dell’Unione: si è con­ti­nuato a mas­sa­crare gli indiani per circa mezzo secolo, quasi fino al debutto del Nove­cento. E poi, nell’immaginario col­let­tivo, il Texas incarna un volto dell’America deciso, di fronte al quale non c’è spa­zio per il dub­bio. Se pensi a George W. Bush, a lungo gover­na­tore dello Stato, la scelta è netta: o lo ami o lo odi.

Il suo primo romanzo è stato para­go­nato allo John Stein­beck di Furore. «Il figlio» è stato invece para­go­nato al Cor­mac McCar­thy di «Meri­diano di san­gue». Si rico­no­sce in que­sti paralleli?

Sono molto lusin­ghieri e devo dire che la stampa ame­ri­cana ha tirato in ballo anche Faul­k­ner, Heming­way, Salin­ger o lo scrit­tore di noir Den­nis Lehane. Sono tutti scrit­tori che amo molto, insieme a James Joyce, Vir­gi­nia Woolf e allo scoz­zese James Kel­man, anche se non saprei dire esat­ta­mente in che modo ho fatto tesoro della loro lezione. Per esem­pio, Stein­beck è sem­pre stato molto impor­tante per me, ma credo più sul piano dei con­te­nuti che non su quello dello stile. Penso di con­di­vi­dere con lui un certo inte­resse per la natura pro­fonda degli Stati Uniti: chi siamo, cosa siamo stati e come siamo cam­biati? Que­sto, anche se non decla­me­rei espli­ci­ta­mente le mie idee poli­ti­che ai let­tori come accade in alcune pagine, a mio avviso le meno bril­lanti, di Furore. In ogni caso, scri­vendo, è chiaro che peschiamo molto anche nel nostro reper­to­rio di let­tori. Così, ad esem­pio, per descri­vere la pri­gio­nia presso gli indiani e il senso oppri­mente delle fron­tiere che divi­de­vano una tribù dall’altra, credo di essermi ispi­rato ad aclune pagine di Primo Levi che mi ave­vano par­ti­co­lar­mente col­pito quando ho letto i suoi romanzi.

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