SI SCRIVE e si parla molto della dignità, ma questa parola scompare immediatamente proprio quando i fatti quotidiani imporrebbero di tener conto del principio che essa evoca. Troppi politici si rifugiano in un realismo ipocrita per sostenere che si tratta di un principio che impone oneri troppo gravosi; i giuristi scoprono che siamo di fronte ad un riferimento troppo generico perché si possa invocarlo come base di interventi concreti. E allora serve un altro occhio, capace di guardare a fondo nella società e nelle sue dinamiche, per mostrarci quanto possano essere grandi i guasti prodotti dall’abbandono di quel principio fondativo di libertà e diritti. Lo hanno fatto Jean-Pierre e Luc Dardenne con un film — Due giorni, una notte — sulla condizione umana nel tempo del lavoro difficile o negato.">

QUEL FILM SUL LAVORO E LA DIGNITÀ DA RITROVARE

 


SI SCRIVE e si parla molto della dignità, ma questa parola scompare immediatamente proprio quando i fatti quotidiani imporrebbero di tener conto del principio che essa evoca. Troppi politici si rifugiano in un realismo ipocrita per sostenere che si tratta di un principio che impone oneri troppo gravosi; i giuristi scoprono che siamo di fronte ad un riferimento troppo generico perché si possa invocarlo come base di interventi concreti. E allora serve un altro occhio, capace di guardare a fondo nella società e nelle sue dinamiche, per mostrarci quanto possano essere grandi i guasti prodotti dall’abbandono di quel principio fondativo di libertà e diritti. Lo hanno fatto Jean-Pierre e Luc Dardenne con un film — Due giorni, una notte — sulla condizione umana nel tempo del lavoro difficile o negato.

 

SI SCRIVE e si parla molto della dignità, ma questa parola scompare immediatamente proprio quando i fatti quotidiani imporrebbero di tener conto del principio che essa evoca. Troppi politici si rifugiano in un realismo ipocrita per sostenere che si tratta di un principio che impone oneri troppo gravosi; i giuristi scoprono che siamo di fronte ad un riferimento troppo generico perché si possa invocarlo come base di interventi concreti. E allora serve un altro occhio, capace di guardare a fondo nella società e nelle sue dinamiche, per mostrarci quanto possano essere grandi i guasti prodotti dall’abbandono di quel principio fondativo di libertà e diritti. Lo hanno fatto Jean-Pierre e Luc Dardenne con un film — Due giorni, una notte — sulla condizione umana nel tempo del lavoro difficile o negato. La storia è nota, ci racconta della perdita e della riconquista della dignità ed appartiene alle “scelte tragiche” di cui ha parlato un giurista come Guido Calabresi e che si stanno moltiplicando nella vita d’ogni giorno. Un’operaia viene chiusa in un meccanismo infernale. I lavoratori della sua fabbrica vengono messi di fronte ad un dilemma: riceveranno un premio di mille euro solo se voteranno a favore del suo licenziamento. Per guadagnare i voti necessari a salvare il posto di lavoro, la protagonista comincia una laica via crucis, le cui stazioni sono le case dei compagni di lavoro. Lì, nella durezza e meschinità di esistenze insidiate dalla povertà, incontra rifiuti imbarazzati o violenti e consensi faticosi e generosi. È un calvario, al quale cerca di sottrarsi dicendo di non voler comportarsi come una “mendicante”.
Cogliamo qui la perdita della dignità, l’obbligo di comportarsi perdendo il rispetto di se stessi. Tutto è ridotto al calcolo economico, al non potersi permettere la perdita di mille euro o, all’opposto, alla consapevolezza del sacrificio fatto col proprio voto favorevole all’operaia. Solo una volta, nelle parole del più debole tra gli interlocutori, un operaio con contratto a tempo determinato che sa di rischiare il licenziamento, compare una consapevolezza diversa. Quel giovane nero dice di sapere che Dio gli chiede di guardare all’altro e ai suoi bisogni. Un principio, e non una convenienza, ispirano la sua scelta.
Il voto finale sarà negativo, ma il dirigente della fabbrica convoca l’operaia e le dice che potrà tornare a lavorare, quando vi sarà il posto lasciato libero da una persona alla quale non sarà rinnovato il contratto. La protagonista capisce e rifiuta. Esce dalla fabbrica, telefona al marito dicendo «ci siamo battuti bene, adesso ricomincio» e, dopo due giorni di disperazione, sul suo volto torna il sorriso — il segno della ritrovata dignità. È una storia semplice, che descrive un mondo nel quale la retribuzione non risponde più alla garanzia di una “esistenza libera e dignitosa”, secondo le belle parole dell’articolo 36 della nostra Costituzione, nelle quali si coglie l’eco della “vita degna dell’uomo” di cui parlava la Costituzione di Weimar e l’anticipazione del riferimento all’esistenza dignitosa che ritroviamo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il nesso tra retribuzione, libertà e dignità è spezzato, la garanzia offerta dal lavoro declina verso il grado zero dell’esistenza. E questa deriva travolge un altro principio — quello di solidarietà.
Passo dopo passo, infatti, il film dei Dardenne descrive la distruzione dei legami sociali, l’impossibile produzione di solidarietà. Praticare la solidarietà diventa un lusso che non tutti possono permettersi. E questa vicenda non può essere descritta come “guerra tra poveri”, perché vi è molto di più: la fine della coesione sociale, di una condizione essenziale perché la contrapposizione molecolare tra le persone non divenga l’unica via praticabile, con effetti che mettono a rischio la stessa democrazia. Non è proprio questo il rischio che stiamo correndo?
Ma la coesione sociale non è un prodotto spontaneo, esige la costruzione di un ambiente propizio da parte delle istituzioni. E questa deve muovere da quello che Lorenza Carlassare ha chiamato “il valore dignitario del lavoro”. Ma questo valore appare ignorato quando, per esempio, si attribuisce al datore di lavoro il potere di controllare l’apparato tecnologico a disposizione del dipendente, cancellando le garanzie per i controlli a distanza previste dallo Statuto dei lavoratori. Il lavoratore diviene così disponibile per il datore del lavoro, perché è segno di inadeguatezza culturale l’ignorare che la tecnologia trasforma le modalità stesse in cui si stabiliscono i rapporti tra persona e “macchina”, tanto che la Corte costituzionale tedesca ha riconosciuto un “diritto fondamentale alla riservatezza e alla integrità dei sistemi informativi tecnologici”. Siamo di fronte ad una indebita espansione del potere imprenditoriale che confligge con il riconoscimento della libertà e dignità d’ogni persona. Siamo di fronte a mutamenti strutturali, che vanno nella direzione opposta al riconoscimento della dignità che l’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue definisce “inviolabile”, aggiungendo che va “rispettata e tutelata”. Non si può invocare un’Europa rinnovata rifiutando solo le politiche di austerità, se poi si trascura la dimensione dei principi e dei diritti che costituisce lo strumento più forte per determinare un mutamento di passo e un recupero della legittimazione dell’Unione che può venire solo dal riconoscimento dei suoi cittadini.
La protagonista del film dei Dardenne vive in Belgio, ma Bruxelles, capitale dell’Unione, incarna oggi un’assenza che sta distruggendo i fondamenti stessi della cultura di un’Europa che ha bisogno di tornare ad essere terra di diritti, luogo di dignità e di legami solidali.

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