Pode­mos, i portavoce di una egemonia

È nell’intervallo tra la pub­bli­ca­zione di due testi di Pablo Igle­sias Tur­rion che può situarsi la genea­lo­gia di Pode­mos, il feno­meno poli­tico inno­va­tivo che sta debor­dando i con­fini dello Stato spa­gnolo

È nell’intervallo tra la pub­bli­ca­zione di due testi di Pablo Igle­sias Tur­rion che può situarsi la genea­lo­gia di Pode­mos, il feno­meno poli­tico inno­va­tivo che debor­dando i con­fini dello Stato spa­gnolo turba, insieme al governo greco gui­dato da Ale­xis Tsi­pras, le veglie e i sonni delle oli­gar­chie di tutta Europa.
Il primo libro è Diso­be­dien­tes. De Chia­pas a Madrid, pub­bli­cato nel 2011 a Madrid da Edi­to­rial Popu­lar, all’indomani del 15M di Puerta del Sol e men­tre le piazze ibe­ri­che ancora ribol­li­vano di mol­ti­tu­dini indi­gnate. Aperto da un pro­logo di Luca Casa­rini, il testo nasce dall’originale tesi di dot­to­rato in cui Igle­sias com­bina rico­stru­zione sto­rica e ana­lisi poli­to­lo­gica della realtà delle Tute bian­che prima e dei Disob­be­dienti poi, all’interno del ciclo di movi­mento di cri­tica della glo­ba­liz­za­zione neo­li­be­ri­sta, con la pro­pria per­so­nale espe­rienza di atti­vi­sta, stu­dente Era­smus a Bolo­gna e Padova in que­gli anni cru­ciali, pre­sente alla con­te­sta­zione del Fmi a Praga nel set­tem­bre 2000 e poi a Genova nelle gior­nate del G.8 2001, impe­gnato infine nel ten­ta­tivo di espor­tare in Spa­gna il modello della «disob­be­dienza all’italiana».

La «crisi di regime»

Per l’autore il ter­reno dell’azione comu­ni­ca­tiva è deci­sivo: «I disob­be­dienti sco­pri­rono un mec­ca­ni­smo poli­tico di pro­du­zione di senso ade­guato a un tempo domi­nato dalle tec­no­lo­gie della comu­ni­ca­zione. Furono capaci di creare sim­boli che, nel bene e nel male, si sono dimo­strati sto­ri­ca­mente impre­scin­di­bili per l’esito dell’azione col­let­tiva». Qui egli indi­vi­dua tra le Tute bian­che uno degli ele­menti di anti­ci­pa­zione del ciclo dei movi­menti «occupy» nelle piazze di dieci anni dopo: «Non solo posero la neces­sità di costruire sce­nari di comu­ni­ca­zione poli­tica a par­tire dal con­flitto, ricon­fi­gu­rando la disob­be­dienza civile e adat­tan­dola a le nuove ten­denze cul­tu­rali e mili­tanti pro­prie dello svi­luppo post­for­di­sta in Europa. Ma segna­la­rono anche una pos­si­bi­lità stra­te­gica per i set­tori della sini­stra radi­cale euro­pea che non vede­vano ancora chia­ra­mente la pos­si­bi­lità di scom­met­tere sulla forma par­tito, né inten­de­vano acco­mo­darsi nella mar­gi­na­lità o nella fuga verso “il sociale” e “il soli­dale”. I disob­be­dienti dimo­stra­rono invece che era pos­si­bile fare poli­tica sullo sce­na­rio glo­bale senza essere un par­tito, e che si può stare al cen­tro del con­fronto senza farsi coop­tare dal sistema rappresentativo».

È in sostanza la for­tu­nata coniu­ga­zione di «con­flitto e con­senso», come si diceva in que­gli anni, che con­sente a Igle­sias di affer­mare come, nella rico­stru­zione di un ideale fil rouge, «il 15M abbia fatto sì che tutti que­sti eventi non appar­ten­gano al pas­sato ma, in ogni caso, a un futuro anteriore».

Il secondo testo di Pablo Igle­sias è molto più recente: Dispu­tar la demo­cra­cia. Poli­tica para tiem­pos de cri­sis è stato pub­bli­cato negli ultimi mesi del 2014 da Edi­cio­nes Akal, a poche set­ti­mane dalla prima sor­pren­dente affer­ma­zione di Pode­mos nelle ele­zioni euro­pee del mag­gio scorso. Qui, a ren­dere evi­dente un legame forte, costi­tuente, l’introduzione è affi­data ad Ale­xis Tsi­pras. E lo sce­na­rio è ben dif­fe­rente: Pablo ammette che, se l’obiettivo ini­ziale (estate 2013) del libro era dar conto delle rifles­sioni di un gio­vane pro­fes­sore uni­ver­si­ta­rio dive­nuto famoso prima in rete, poi nei media main­stream, per i com­menti poli­tici che offriva dal pic­colo schermo, ora si tratta invece di discu­tere del punto di vista del por­ta­voce di una forza poli­tica, che gli ultimi son­daggi accre­di­tano come mag­gio­ranza rela­tiva tra l’elettorato spa­gnolo. Il testo, pen­sato e scritto diver­sa­mente da certi nostri (tri­bali e ger­gali) incu­na­boli per essere letto e com­preso da un pub­blico vastis­simo, è diviso in tre parti. Quella cen­trale offre un’interessante rico­stru­zione dell’ultimo secolo di sto­ria dello Stato spa­gnolo, indi­vi­duando quelle inva­rianti di lunga durata che mar­cano inde­le­bil­mente la cosi­detta «Tran­si­ción», dalla dit­ta­tura fran­chi­sta al nuovo regime demo­cra­tico sotto la tutela della monar­chia. Sono le parole di un altro pro­ta­go­ni­sta di Pode­mos, Juan Car­los Mone­dero, a sugel­lare il giu­di­zio su que­sta fase sto­rica: l’ampio con­senso par­ti­tico «si sarebbe inca­ri­cato di inca­na­lare que­ste istanze (di resi­stenza sociale) in maniera fun­zio­nale a un sistema che aveva come obiet­tivo prin­ci­pale una nuova restau­ra­zione bor­bo­nica, tale da garan­tire l’inserimento della Spa­gna in ambito euro­peo al minor costo pos­si­bile per l’impresa e la finanza». Qui si col­lo­cano del resto, secondo Igle­sias, le respon­sa­bi­lità delle sini­stre sto­ri­che ibe­ri­che, al pari di quelle ita­liane gui­date da «un istinto stra­te­gico per la conservazione».

La demo­cra­zia contesa

Anche per que­ste ragioni, cin­que anni di gestione capi­ta­li­stica della crisi, su scala euro­pea, sono tra i fat­tori che deter­mi­nano nello Stato spa­gnolo una vera e pro­pria «crisi di regime», il pro­gres­sivo col­lasso del regime della Tran­si­zione post-franchista. E l’emergere, nel cuore di que­sta crisi, di una «grande coa­li­zione» di fatto che lega gli inte­ressi domi­nanti, ai ver­tici delle imprese capi­ta­li­ste, nei mag­giori par­titi (Popo­lari e Socia­li­sti), nel sistema dei media, negli appa­rati di sicu­rezza. Una strut­tura di potere, tenuta assieme dalla «cor­ru­zione come forma di governo» e impe­gnata ad assi­cu­rare livelli di dise­gua­glianza mai rag­giunti prima nella ripar­ti­zione della ric­chezza sociale. È que­sta che Pablo chiama la «casta», iden­ti­fi­can­dola con la sezione nazio­nale del «Par­tito di Wall Street», cioè attri­buen­dole una valenza ben diversa da quelle che echeg­giano alle nostre longitudini.

Del resto è a una con­ce­zione della poli­tica, erede della migliore tra­di­zione mate­ria­li­sta del «rea­li­smo», che la prima parte del libro di Igle­sias invita a guar­dare. «Il potere nascerà sem­pre dalla canna del fucile» è con­vinto il por­ta­voce di Pode­mos, ma nel nostro tempo biso­gna essere capaci di vedere la poli­tica come una «par­tita a scac­chi, comin­ciata da lungo tempo nella quale, a par­tire da alcune regole date e nono­stante i pezzi non siano stati disti­buiti sulla scac­chiera in modo equo, è neces­sa­rio dimo­strare abi­lità e astu­zia per gio­care con i mezzi di cui si dispone». Oggi in Europa del Sud sarebbe ben com­pli­cato inten­dere in altro modo la poli­tica, «senza per­dere mai di vista il fatto che i potenti non rinun­ce­ranno a tutti i loro pri­vi­legi quand’anche fos­sero scon­fitti al tavolo degli scac­chi», ma dovranno un giorno «cadere sul ring della boxe». Que­sto è anche il senso dell’approccio alle isti­tu­zioni poli­ti­che real­mente esi­stenti, che non vanno con­ce­pite come orga­ni­smi mono­li­tici, esclu­si­va­mente rap­pre­sen­ta­tive dei poteri costi­tuiti. «Al con­tra­rio – insi­ste Igle­sias – pos­sono risul­tare deci­sive per nuove con­qui­ste demo­cra­ti­che e sociali». Lo si è visto nell’esperienza del Wel­fare state euro­peo, così come oggi in molti paesi dell’America Latina dove «gli spo­sta­menti veri­fi­ca­tisi nei rap­porti di forza all’interno delle isti­tu­zioni sta­tali sono una delle chiavi dell’azione poli­tica trasformatrice».

Curio­sa­mente, in que­sti due volumi, il con­tri­buto del filo­sofo Erne­sto Laclau non viene mai espli­ci­ta­mente citato. Per l’importanza che que­sto pen­sa­tore ha per tutto il gruppo diri­gente di Pode­mos, potremmo par­lare a ragione di una laca­niana «casella vuota». Non manca invece l’insistenza sul con­cetto gram­sciano di «ege­mo­nia»: pro­prio a par­tire dalla pro­pria per­so­nale espe­rienza di per­so­nag­gio tele­vi­sivo di rot­tura, Pablo Igle­sias sot­to­li­nea come ege­mo­nia signi­fi­chi l’esatto con­tra­rio di domi­nio, ma la con­qui­sta di un potere cul­tu­rale capace di sov­ver­tire lo stesso lin­guag­gio per­for­ma­tivo dei domi­nanti, agendo sul «grande dispo­si­tivo media­tico della con­tem­po­ra­neità, il più impor­tante per deter­mi­nare che cosa pensi la gente», che al di là di tanta chiac­chiera sull’uso sociale della rete (deci­siva invece per l’organizzazione di movi­mento e forza poli­tica), è e resterà a lungo la tele­vi­sione. La cop­pia dico­to­mica «pro-sistema / anti­si­stema» si pre­sta bene a que­sto punto ad argo­men­tare que­sto inter­vento contro-egemonico sul lin­guag­gio: seguendo la lezione di Imma­nuel Wal­ler­stein, «le carat­te­ri­sti­che posi­tive una­ni­me­mente attri­buite oggi alla demo­cra­zia sono state il frutto esclu­sivo dell’azione sto­rica dei movi­menti anti­si­ste­mici», così come chi si qua­li­fica «pro-sistema» sono «i difen­sori di un sistema che per­se­gue fon­dan­dosi nella pro­te­zione dei pri­vi­legi di una mino­ranza di fronte ai diritti della maggioranza».

Genea­lo­gie convergenti

Se, come Igle­sias ci ricorda, il cuore di qual­siasi discorso rea­li­sta sulla «lotta demo­cra­tica» non sta nel for­ma­li­smo dello Stato di diritto, ma nella per­ma­nente con­tesa intorno al «pro­cesso di socia­liz­za­zione del potere», cioè alla sua distri­bu­zione sociale, tra il voto della Gre­cia del 25 gen­naio scorso e le pros­sime con­sul­ta­zioni spa­gnole, ci gio­chiamo tutti la pos­si­bi­lità demo­cra­tica in Europa.

Syriza e Pode­mos hanno genea­lo­gie dif­fe­renti, come noto. Nel caso spa­gnolo, l’intuizione sog­get­tiva di un gruppo di atti­vi­sti di impian­tare una pro­po­sta poli­tica ver­ti­cale sull’orizzontalità dei movi­menti, senza minarne l’autonomia. Non «rap­pre­sen­tando» le Pla­zas e le Mareas, ma assu­men­done fino in fondo i con­te­nuti, tra­spo­sti in un maturo pro­gramma poli­tico. Inter­pre­tando con spre­giu­di­ca­tezza la crisi della demo­cra­zia spa­gnola, il rifiuto mas­si­fi­cato della cor­ru­zione, la dif­fusa dele­git­ti­ma­zione della «casta» non come deriva ran­co­rosa, mora­li­sta e giu­sti­zia­li­sta (e per­ciò fun­zione di blocco di ogni pos­si­bile cam­bia­mento), ma come ter­reno di costru­zione di un con­senso mag­gio­ri­ta­rio per la giu­sti­zia sociale. Pie­gando a que­sto obiet­tivo lin­guag­gio e forme del «popu­li­smo»; assu­mendo in tutta la sua pro­ble­ma­ti­cità la parola d’ordine «né di destra, né di sini­stra», come pre­messa neces­sa­ria per riat­tri­buire dignità sostan­ziale a una poli­tica di sini­stra, che si satu­rasse pro­gram­ma­ti­ca­mente dei con­te­nuti delle lotte sociali.

Vi è tut­ta­via più di ele­mento di con­ver­genza, al di là della comune spe­ranza che sono in grado di evo­care: Syriza e Pode­mos sol­le­vano con indi­spen­sa­bile forza la que­stione del «governo», cioè dell’esercizio del potere neces­sa­rio per met­tere in discus­sione le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste e scar­di­nare la domi­nante gab­bia dell’austerity. Con la con­sa­pe­vo­lezza che «vin­cere le ele­zioni – ricorda a se stesso prima che a tutti noi Pablo Igle­sias – non signi­fica affatto con­qui­stare il potere». Che la dimen­sione glo­bale e asso­luta, fluida e onni­per­va­siva del capi­ta­li­smo finan­zia­rio, la com­ples­sità mul­ti­fat­to­riale di ogni pro­cesso di deci­sione poli­tica, tanto più se orien­tato al cam­bia­mento, non con­sen­tono illusioni.

Una pro­dut­tiva dialettica

Le chan­ces di tali pro­spet­tive sono in larga misura affi­date pro­prio al loro grado di aper­tura, cioè se pre­varrà la volontà poli­tica di sfug­gire a quella legge dei «vasi comu­ni­canti» per cui a un pieno dell’azione gover­na­tiva debba per forza cor­ri­spon­dere il vuoto dei con­flitti, il loro addo­me­sti­ca­mento e neu­tra­liz­za­zione, o vice versa. Per la prima volta, nella sta­gione che si sta aprendo in Europa, potrebbe essere gio­cata la scom­messa sulla rela­zione vir­tuosa, di reci­proco volano tra isti­tu­zioni costi­tuite e nuovi isti­tuti del comune: la spe­ri­men­ta­zione di che cosa potrebbe signi­fi­care, sul serio, un movi­mento costituente.

Il punto che pare uni­fi­cante e cru­ciale per que­sti due solidi «spet­tri che si aggi­rano per l’Europa» sta pro­prio nel salto di para­digma che ci pro­pon­gono, abban­do­nando lo stan­tio dibat­tito, datato primi anni Due­mila, sulla rela­zione tra movi­menti sociali e par­titi, sulle «alleanze» e, in ultima ana­lisi, sul rap­porto dei primi con la rap­pre­sen­tanza poli­tica. Al cen­tro della scena si mostra invece distin­ta­mente una ben più aperta e pro­dut­tiva dia­let­tica, intrin­se­ca­mente poli­tica, tra dina­mi­che sociali reali e fun­zioni di governo. Se infatti assu­miamo quest’ultimo para­digma, siamo su un ter­reno del tutto altro rispetto a quello che, per via rap­pre­sen­ta­tiva, ricon­duce for­za­ta­mente al nesso con la sovra­nità e tutti i vizi della moderna forma Stato. Diver­sa­mente da que­sta le fun­zioni di governo espri­mono una per­ma­nente, e irre­so­lu­bile ten­sione tra «gover­nanti» e «gover­nati», il rin­vio a un’originaria plu­ra­lità di sog­getti e d’interessi, irri­du­ci­bili all’Uno del Popolo sovrano. Prima di ripe­tere qual­che for­mu­letta, che si pre­ten­de­rebbe sal­vi­fica per le nostre anime, o cer­care di ripro­durre qual­che model­lino per risol­le­vare i destini della «sini­stra ita­liana», var­rebbe forse la pena inter­ro­garsi a fondo su que­sto nucleo incan­de­scente di verità e novità, che pro­prio i dispo­si­tivi Syriza e Pode­mos met­tono sotto il nostro naso.
Una ver­sione più lunga del testo è pub­bli­cata sul sito www?.euro?no?made?.info

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