Ber­tolt Bre­cht: contro l’approvazione del mondo, poesie da leggere ad Atene

Una nuova antologia delle liriche, a cura di Alberto Asor Rosa, da Einaudi. Di nuovo, oggi, «quelli che stanno in alto si sono riuniti in una stanza»: questa semplice realtà restituisce Bertolt Brecht al tempo presente

Del povero Ber­tolt Bre­cht ormai da tempo si sente poco par­lare. Quasi fosse rima­sto sepolto sotto ai cal­ci­nacci del muro di Ber­lino, edi­fi­cato quat­tro anni dopo la sua morte, e alle mace­rie della tra­gica sto­ria di cui quella cor­tina era stata tra i più lugu­bri risul­tati. Pro­prio lui che, nel 1953, allor­ché Wal­ter Ulbri­cht decise di festeg­giare il suo com­pleanno abbas­sando i salari ope­rai e spin­gendo così i lavo­ra­tori ber­li­nesi alla rivolta, aveva iro­ni­ca­mente pro­no­sti­cato che se il governo non avesse sciolto il popolo per eleg­gerne un altro (La solu­zione, pub­bli­cata postuma nel ’64), lo «stato degli ope­rai e dei con­ta­dini» sarebbe pre­sto finito in malora. A pochi anni dalla cata­strofe del nazi­smo e del con­flitto mon­diale, in un paese ancora deva­stato e in bilico sulla fron­tiera della guerra fredda, non era facile indi­care un «nemico di classe» che sven­to­lasse falci, mar­telli e ban­diere rosse. Quando tra il ’36 e il ’37 il poeta di Augu­sta aveva scritto: «Quelli che stanno in alto / si sono riu­niti in una stanza./ Uomo della strada / lascia ogni spe­ranza», un rivo­lu­zio­na­rio tede­sco alle prese con gli sgherri di Hitler avrebbe fati­cato a imma­gi­nare che quella stanza avrebbe anche potuto essere quella del comi­tato cen­trale del Par­tito. Fatto sta che nel terzo mil­len­nio die Obe­ren, quelli che stanno in alto, tor­nano a riu­nirsi nelle loro stanze, que­sta volta quelle della Bce, dell’Fmi e della Com­mis­sione euro­pea, per togliere spe­ranza e futuro a milioni di per­sone. Cosic­ché non ci sarebbe da stu­pirsi se Bre­cht dovesse ritro­vare nell’Atene affa­mata dall’austerità nuovi appas­sio­nati let­tori. Pochi ricor­dano che il ter­mine Tro­jka, con cui oggi si desi­gna la gover­nance finan­zia­ria, la sua arro­ganza e il suo piglio auto­ri­ta­rio, fu coniato per indi­care il ter­zetto (Brez­nev, Kos­si­gin, Pod­gornj) che prese le redini dell’impero sovie­tico dopo la caduta di Kru­scev. Tal­volta la sto­ria delle parole rivela paren­tele dav­vero poco pre­sen­ta­bili quanto al comune odio per la demo­cra­zia.
Dun­que il basso e l’alto, la distanza side­rale tra gover­nanti e gover­nati, tra ric­chi e poveri, tra fame e abbon­danza, tra sfrut­tati e sfrut­ta­tori, tra pri­vi­le­gio e depri­va­zione, tra egoi­smo e soli­da­rietà, que­ste le oppo­si­zioni che attra­ver­sano tutta l’opera poe­tica e tea­trale di Bre­cht, il suo «punto di vista», la sua presa di posi­zione par­ti­giana, come sot­to­li­nea Alberto Asor Rosa nella intro­du­zione a una nuova anto­lo­gia della poe­sia bre­ch­tiana (Poe­sie poli­ti­che, pp. 294, 12 euro) che torna in libre­ria per i tipi di Einaudi dopo un lungo e imme­ri­tato periodo di latenza. Un punto di vista che resti­tui­sce senso alle parole e agli acca­di­menti. Quel «senso» che, scrive Asor Rosa, tra attori sociali e con­te­sti com­ple­ta­mente mutati, resti­tui­sce Bre­cht alla «con­tem­po­ra­neità». La scelta di campo tra quelle oppo­si­zioni per lungo tempo è stata asso­ciata con quanto, su per giù, più o meno e pres­sa­poco abbiamo chia­mato comu­ni­smo. E cosa que­sta parola avesse rap­pre­sen­tato dal 1848 fino a buona parte del Nove­cento per milioni di uomini e di donne, i versi di Bre­cht, pro­prio quelli più dida­sca­lici e mili­tanti, ce lo spie­gano nel modo più vivido e imme­diato. Nes­suna sapiente rico­stru­zione sto­rio­gra­fica ci riu­sci­rebbe altret­tanto bene. Di suo, poi, alla «lode del comu­ni­smo», Bre­cht aveva aggiunto quell’«elogio del dub­bio», quell’invito a pen­sare con la pro­pria testa che i regimi socia­li­sti avreb­bero prov­ve­duto a tra­sfor­mare in un cri­mine.
Nel gergo della con­tem­po­ra­neità, dal movi­mento alter­mon­dia­li­sta agli indi­gna­dos e occupy, da Syriza a Pode­mos, la sequenza di que­ste oppo­si­zioni con­ti­nua a segnare l’esperienza dei più, ad ali­men­tarne la rab­bia e la per­ce­zione dell’ingiustizia subita. Ma le parole della rivo­lu­zione comu­ni­sta non sono più in grado di con­te­nerla. Nem­meno la più gene­rica e stra­paz­zata «sini­stra» lo è. Pablo Igle­sias sostiene che sotto quelle ban­diere non riu­sci­rebbe a inter­lo­quire con qual­cuno che ha avuto il nonno fuci­lato dai «rossi» durante la guerra civile e, dun­que, se lo si vuole con­qui­stare alla causa della giu­sti­zia sociale, biso­gnerà ser­virsi di altre parole. E la ten­denza sem­bra dar­gli ragione. Bre­cht, tut­ta­via, avrebbe pen­sato che se lo era meri­tato, il nonno. Del resto l’uomo buono e leale (ma verso chi?), sug­ge­riva di fuci­larlo con un buon fucile davanti a un buon muro. La parte sba­gliata era irri­me­dia­bil­mente sba­gliata. Lo è ancora, qua­lun­que sia il nome che gli si voglia dare e comun­que si intenda tutto anne­gare nelle ipo­crite reto­ri­che dell’unità nazio­nale.
Eppure li aveva descritti con più iro­nica com­mi­se­ra­zione che con odio quelli caduti nell’inganno. Che, per fame, per fru­stra­zione, per paura, per con­ve­nienza, dalla parte sba­gliata si erano schie­rati: i vitelli in gio­iosa mar­cia verso il mat­ta­toio. Pochi hanno saputo descri­vere l’ascesa del fasci­smo, il suo seguito popo­lare, l’opportunismo tacito che lo ha tol­le­rato o blan­dito, come ha saputo fare Bre­cht: «Non sono ingiu­sto, ma nem­meno prode,/ quest’oggi il loro mondo mi han mostrato, / e quando ho visto il san­gue sopra il dito, / ho detto, sì, lo trovo di mio gusto». È la prima strofa della Bal­lata sull’approvazione del mondo, nella quale pos­siamo leg­gere uno straor­di­na­rio cata­logo dei motivi di com­pli­cità con il fasci­smo, di meschina, incon­sa­pe­vole cat­ti­ve­ria, di ser­vile accon­di­scen­denza verso il potere di turno. Cata­logo al quale con­ver­rebbe pre­stare orec­chio in un tempo in cui xeno­fo­bia e nazio­na­li­smo, poli­ti­che iden­ti­ta­rie e nuove pul­sioni auto­ri­ta­rie tor­nano a mar­ciare in tutta Europa, anche se non indos­sano più la cami­cia bruna, ma quella verde o il dop­pio­petto.
In una delle poe­sie più belle e famose di Bre­cht, Del povero B.B., vi è un verso di scon­fi­nata ama­rezza: «Sap­piamo di essere effi­meri / e dopo di noi verrà: nulla degno di nota». Potrebbe sem­brare il testa­mento di un nichi­li­sta asso­luto, la dichia­ra­zione peren­to­ria che ogni sforzo è vano, ogni pro­spet­tiva illu­so­ria e, cer­ta­mente, que­sto rispec­chiava l’umore alquanto tetro del gio­vane poeta. Ma, se pen­siamo all’intera uma­nità, quel cupo epi­taf­fio potrebbe anche essere letto come una messa in guar­dia dall’autodistruzione, come con­sa­pe­vo­lezza del limite. Tanto più che in un’altra sta­gione, esule in Dani­marca men­tre Hitler pre­pa­rava la guerra, Bre­cht si sarebbe rivolto, invece, diret­ta­mente alla poste­rità, chie­dendo indul­genza per i «tempi dav­vero oscuri» in cui aveva vis­suto, quando «discor­rere d’alberi è quasi un delitto, / per­ché su troppe stragi com­porta il silen­zio!» È que­sto il com­po­ni­mento, rivolto al futuro, che chiude l’antologia, descri­vendo quel mondo feroce nel quale per ricon­qui­stare uma­nità anche i migliori con poca uma­nità erano stati costretti ad agire, quando «anche l’ira per l’ingiustizia / fa roca la voce».
Ma se deci­sa­mente «oscuri» furono quei tempi, dei nostri non può dirsi che siano poi tanto lumi­nosi. A meno di voler mar­ciare chias­so­sa­mente nel terzo mil­len­nio con l’illusione che il Male sia rima­sto per sem­pre rac­chiuso nel «secolo breve» e il migliore dei mondi pos­si­bili si riveli senza alter­na­tive al nostro sguardo. «La men­zo­gna – scrive Asor Rosa – ha sosti­tuito dalle nostre parti la vio­lenza (dalle nostre parti, s’intende, per­ché altrove…) ed è diven­tata la nostra, usuale, quo­ti­diana, forma di vio­lenza». E allora il povero B.B. e i suoi com­pa­gni meri­te­reb­bero qual­cosa di più che la sem­plice indul­genza. Meri­tano attento ascolto. Del Pen­siero nelle opere dei clas­sici, scri­veva il poeta mili­tante: «Se si fa avanti impe­rioso così, / pure dimo­stra che senza chi ascolti esso è nulla / né sarebbe venuto né saprebbe / dove andare o restare / se non l’accogliessero». In que­sti pre­cisi ter­mini, sot­traen­dolo a quella vene­ra­zione disin­car­nata che abor­ri­sce qua­lun­que presa di posi­zione, pos­siamo senz’altro anno­ve­rare Ber­tholt Bre­cht tra i grandi classici.

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