Levine, apologhi e humor del poeta operaio

Levine. Detroit, la classe operaia, la guerra civile spagnola: solo dopo la morte arriva in italiano Philip Levine, cresciuto alle catene della Ford e alle «scuole» di Whitman e Berryman

«Certe cose», scrive Phi­lip Levine in The Sim­ple Truth (1994), la lirica che oggi sem­bra imporsi alla memo­ria come la sua più rap­pre­sen­ta­tiva, «le sai da tutta la vita. Sono così sem­plici e vere che devono essere dette senza ele­ganza, metro o rima, / devono esser messe sul tavolo accanto alla saliera, / al bic­chiere dell’acqua, / all’assenza di luce che si addensa / nelle ombre delle cor­nici dei qua­dri, devono essere nude e sole, devono stare per se stesse». Sono versi che dichia­rano un’ars poe­tica di spo­glia laco­ni­cità, di una quasi rinun­cia della parola a tra­durre le realtà più ordi­na­rie, le più sem­plici e ter­ra­gne, e le più ‘moran­diane’, se osser­vate nel mistero del loro legame con l’esistenza: dun­que le più dif­fi­cili da espri­mere. È que­sta one­stà di fondo nella scrit­tura poe­tica e nel com­mento alla vita a soste­nere il ritratto di super­fi­cie di Levine nel pano­rama della poe­sia ame­ri­cana del Nove­cento. Per­ché, infatti, a prima let­tura, egli non appare tes­si­tore di enigmi meta­fi­sici. Nella sua bio­gra­fia di fac­ciata resta, e gli piace esserlo, un poeta-operaio come Whit­man e, un po’ come Carl Sand­burg, uno che dà voce ai dise­re­dati, gli immi­grati, gli oppressi dell’urbanizzazione.

Cre­sciuto dall’età di quat­tor­dici anni alle catene di mon­tag­gio delle Cadil­lac e Che­vro­let, dove faceva risuo­nare la sua alfa­be­tiz­za­zione alla lin­gua inglese reci­tando versi, Levine ha lasciato al magnate Henry Ford, se non altro, il vanto di aver for­mato nel clan­gore della fab­brica l’unico can­tore di Detroit.

Di con­se­guenza, egli è incline a pre­sen­tarsi come figura ‘pro­le­ta­ria’, un poeta di dimessa for­ma­zione acca­de­mica: un B.A. alla Wayne State Uni­ver­sity, let­ture in pro­prio nella biblio­teca di quar­tiere (Dostoe­v­skij, Mel­ville, Bal­zac, Whit­man), e un corso da udi­tore (cui poi seguì un Master’s) presso lo Iowa Wri­ting Work­shop negli anni cin­quanta, quando quel pro­getto era agli inizi del suo successo.

Gra­zie all’esperienza in Iowa, a sua volta, Levine può van­tare di aver avuto per mae­stri Robert Lowell e John Ber­ry­man. Quest’ultimo gli con­se­gnò una lezione pro­fonda, seb­bene impie­gata dall’allievo in altre dire­zioni, per­corsi molto per­so­nali che si pre­ci­sano nell’innesto all’interno del suo discorso di forze e tra­di­zioni di varia pro­ve­nienza. Tant’è che per­sino il suo acco­sta­mento a un gruppo o un altro delle scuole poe­ti­che che si for­mano a ridosso della metà del secolo risulta dif­fi­cile da indi­vi­duare. Lo si asso­cia, gene­ral­mente, a una gene­ra­zione ete­ro­ge­nea che include Gary Sny­der, Gal­way Kin­nell e Wil­liam Dickey.

Autore di oltre venti libri di versi e del sag­gio auto­bio­gra­fico The Bread of Time (1994), agli inizi (esor­di­sce nel ’63 con On the Edge) egli punta subito sul «ritmo» che fa deri­vare, come Whit­man, dalla par­lata comune e poi dalla pre­ghiera (ebraica) e dal ser­mone, da lui tra­sfor­mato in apo­logo ‘socia­li­sta’, spriz­zato di humor e fredda iro­nia. E, nel fondo, que­sta sem­bra restare la sua cifra poe­tica, la voce che lo porta len­ta­mente al Natio­nal Book Award con What Work Is (’91), al Puli­tzer con The Sim­ple Truth (’94) e all’elezione a Poeta Lau­reato nel 2011.

A due mesi dalla morte, all’età di ottan­ta­sette anni, in Ita­lia gli si dà l’onore del bat­te­simo nella col­lana «Lo spec­chio» di Mon­da­dori che pub­blica il suo ultimo libro (2009) Noti­zie del mondo (tra­du­zione di Giu­seppe Straz­zeri, pp. 157, euro 18,00).

Il volume coniuga, in un lungo per­corso cro­no­lo­gico, sto­ria e memo­ria, impe­gno sociale e dis­senso, tran­sito geo­gra­fico e evento: evento inte­riore, fami­gliare, pub­blico. L’effetto epi­fa­nico delle nar­ra­zioni («sto­rie», le chiama Levine) si dà in com­pres­sione, senza spreco di reto­rica. Egli rivanga i lutti delle guerre (Civile spa­gnola, Guerra mon­diale, Corea); le opa­cità di Detroit (Dear­born) e del suo pae­sag­gio indu­striale; il con­trap­punto natu­ra­li­stico dell’entroterra di Fre­sno in Cali­for­nia, presso la cui uni­ver­sità ha inse­gnato a lungo; l’avventura migra­to­ria della fami­glia, rie­vo­cata da una visita al Bal­tico da dove par­ti­rono i nonni; Levine per­corre strade, come Whit­man, e, come lui, ci fa sen­tire nella pasto­sità del nome dei luo­ghi (Pacheco Pass, Toledo, Padu­cah, Car­mel, Cho­w­chilla) tutta la fasci­na­zione ver­bale della terra ame­ri­cana; attra­versa fron­tiere: l’Australia, la Spa­gna, e la Ligu­ria, dove, a Rapallo, si lega in ami­ci­zia col pit­tore Fla­vio Costan­tini, di cui apprezza la sto­ria visiva del movi­mento anar­chico; onora il suo rap­porto sacrale con l’oceano («qual­cosa di immane, irra­zio­nale»), come mistero tra­scen­dente e come seme della sua rina­scita migratoria.

Nono­stante il titolo da noti­zia­rio in tran­sito e in sca­denza, Noti­zie del mondo ha tutta l’aria di una «summa» per­so­nale. Diviso in quat­tro parti, o momenti espres­sivi ed esi­sten­ziali, Levine riper­corre la sua bio­gra­fia intel­let­tuale che si regge solida su poche «nar­ra­zioni» pre­gnanti: i pro­blemi della classe ope­raia, la Bar­cel­lona della guerra civile, e ciò che, tra­mite l’eredità paterna, si regi­stra «nel libro delle ori­gini per diven­tare chi sono». La Suite di Dear­born (con un buon sber­leffo su quel suite) – quat­tro com­po­ni­menti (o stanze di una suite) che mimano irre­go­lar­mente il sonetto – è un obli­quo omag­gio a Detroit, con­den­sato nel ritratto casa­lingo di un dipen­dente della Ford, la cui con­di­zione, a mezzo secolo di distanza, si attua­lizza nella sovrap­po­si­zione intel­let­tua­liz­zante dell’ironia. L’operaio (o lo stesso Henry Ford?) «si alza / dal letto e gira per la sua magione / in vesta­glia e cia­batte, chie­den­dosi / se que­sto è pro­prio tutto ciò / che occorre per diven­tare Henry Ford, / l’uomo che ha creato // il mondo moderno. I cieli / sopra la grande fab­brica sul Rouge / sono neri di fulig­gine, senza stelle, / il mondo intero è senza stelle adesso, tutto / per­ché è stato lui a ren­derlo / a sua imma­gine, gra­ti­fi­ca­zione da non poco». Di con­tro a Ford si orche­stra in rap­porto dia­lo­gico l’«io spa­gnolo» d’adozione di Levine. L’apologo in prosa rit­mica Nella città bianca (Ronda, in Anda­lu­sia) è un omag­gio a Heming­way e ai morti dei repub­bli­cani spa­gnoli attra­verso una para­dos­sale let­tura di Per chi suona la cam­pana, il libro «del comu­ni­sta ame­ri­cano», sì, «l’amico di Fidel Castro». I turi­sti, aggiunge un luo­go­te­nente della Guar­dia Civil che non fa distin­zioni fra fede al Nazio­na­li­smo, di cui è al ser­vi­zio, e la fama che il con­flitto ha rega­lato alla Spa­gna, «ven­gono qui per via del tuo signor Heming­way, ecco per­ché tu sei qui»; e col­lo­quiando con il turi­sta (Levine) mostra di sapere tutto della Guerra civile, tutto quello che c’è nel libro (o meglio nel film): la «sve­dese» (Ingrid Berg­man), lo stu­pro, i capelli rapati, lo spe­rone di roc­cia, il «ponte».

Con l’andare del tempo (siamo nel 1965, pre­cisa Levine, e sta attento a non pro­nun­ciare la parola «fasci­sti»), nella frui­zione senza memo­ria di chi ne veglia l’eredità, e a sca­pito delle distin­zioni ideo­lo­gi­che, la sto­ria si annulla nella fic­tion, nel divi­smo dello schermo, nella glo­ria del Pre­mio Nobel («Mica danno il Nobel ai bugiardi»).

In tutti i suoi risvolti, quella di Levine sem­bra poe­sia «neces­sa­ria» a con­fer­mare l’impegno del poeta nel mondo, un impe­gno di cui, nelle ultime ten­denze dei «Lan­guage Poets» ame­ri­cani, egli vedeva per­duta la trac­cia (inter­vi­sta alla «Paris Review», 1988).

Poe­sia neces­sa­ria a tutte le sta­gioni del silen­zio, per­se­guita anche sull’esempio di grandi poeti della parola civile (Auden, Maja­ko­w­skij, Lorca: nomi evo­cati in que­sto volume), dai quali Levine si distin­gue per la fred­dezza d’acciaio che sanno dare la buona iro­nia e un grano dell’antico sde­gno anar­chico, pro­prio delle sue radici russo-migratorie.

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