Prima di cancellare leggi quello che c’è scritto

Cancellare alcune scritte è come cercare di chiudere un urlo nelle bocche. Carlo vive è il grido di chi chiede giustizia per le violenze di Genova, è un monito per quanto non deve accadere più,

LA FOTO È UN MOMENTO, NON ABBIAMO UN SONORO CHE CI DICA TUTTO QUELLO CHE VORREMMO SAPERE PER NON DIRE COSE A CASO. MA LA FOTO VIENE DA NOI E CI RESTITUISCE SOLO QUEL MOMENTO

E lì ci vedi una famiglia intenta a pulire un muro della città. E bambini che con le loro mani cercano di cancellare Carlo Vive, la scritta lasciata da una mano anonima il primo di maggio.

La foto mi fa paura, prima, poi rabbia, quindi mi amareggia. E non per l’altalena emozionale, poco emozionante a volte, dei commenti sui cattivi e sui buoni – si potrebbe scrivere un piccolo pamplhet sulla raffigurazione iconica e nella scelta dei toni e colori della nostra bella lingua per descrivere fuoco e fiamme, inferi che si richiamano nelle nostre coscienze, e la riparazione come momento di purificazione salvifica che dà un’immagine lucente alla Nuova Città, bene comune dei suoi civis.

Cerco di concentrarmi sulla foto, perché il senso profondo di una relazione di potere e di forza che si agita nella mia testa è in quel gesto che io vedo animarsi, anche se è immoto.

Mani che cancellano una scritta, parole, come se fossero solo sporco, solo sfregio, solo una tag di vernice. Fra le scritte anti-sistema, i Fuck Expo, gli Acab, Destroika e le parole scritte sui vetri, quelli rimasti intatti, delle banche. Ma questo muro ha una scritta diversa, che per me, per molti, significa.

È una scritta di memoria. E il vederla scomparire con impegno innocente a me fa male, un male profondo.

Mi astraggo mentre cammino e penso a cosa significhi cancellare le parole.  Una sensazione che non mi piace, anche se non condivido la striscia che ha scurito lampelle dei palazzi delle vie attaccate, ma non riesco a comprenderel’afflato nel lavare via veloce con una furia nel cancellare che non fa distinzioni.
La maggior parte di volenterosi cittadini che sorridono nelle foto hanno la migliore intenzione, che comprendo: marcare un senso di riappropiazione di quello che è stato danneggiato, ma l’effetto per me e per molti che guardiamo quella foto è quello: si cancellano due parole che sono una vita.

Uno slogan che evoca uno scandalo ancora oggi, a quattordici anni di distanza, un processo negato, un processo doppiamente negato, una miriade di commenti che tornano a infierire sul corpo di un ragazzo che non conoscevo, che non è per me un simbolo di resistenza alle divise, ma un simbolo di giustizia negata, un nome che evoca la sconfitta dello stato di diritto, quello che non dovrebbe aver paura di affrontare sé stesso in nome della credibilità delle proprie istituzioni.

Quelle giovani mani non sanno che Carlo Vive è una scritta che popola muri di tante città del mondo, che molti fotografano e mettono insieme perché l’ingiustizia non deve essere dimenticata, ma serve come pro-memoria nel dirci che ci sono ancora tanti passi da fare nei meccanismi della giustizia, per chi crede che il diritto abbia bisogno di coerenza.

Immagino la critica: quella scritta è la firma del passaggio di chi è l’incarnazione, da qualche giorno, del male assoluto, colpevole di distruggere e di sfregiare, quelli che anche molti dei miei miti conoscenti sarebbero pronti a vedere all’ergastolo se non peggio.

Non si scrive sui muri, mi hanno insegnato. Poi ho imparato a leggere scritte belle e murales importanti, cancellati perché fastidiosi nel messaggio dai muri della città. E ho letto i messaggi di lotta sui muri di altre latitudini. E quando sono tornato dopo anni con leggi che comminavano anni di carcere per una scritta ho pensato che la democrazia e lo stato di diritto avevano perso.
Le scritte che dicono, quelle che parlano, non sono sporcizia, così come un muro non deve esser per forza una pagina intonsa. E se non mi piacciono le strade della mia città imbrattate e affumicate, non penso nemmeno che la Milano che ‘si rimbocca le maniche, che lavora silenziosa, e che è capitale del fare’ sia l’unico volto di questa complessa città. Penso che un’azione forte ed emotiva, comprensibile e con così grande spontaneità e  – finalmente – partecipazione, abbia dato modo di esprimersi a quanti hanno deciso di essere presenti, di mostrare con i loro corpi – numerosissimi – il rifiuto della violenza e un segno contrario.

È molto e basta, però.

La retorica dei mass e dei social media ha funzionato da grande megafono e amplificatore prima delle fiamme e dei fumi, poi delle spugne in un gioco speculare diretto alla pancia prendendo nel mezzo una città intera. Milano brucia, Milano riparte, un senso epico dei titoli che trae in inganno e regala il peggio del giornalismo nostrano. Non c’è un’anima migliore, non si riparte perché non ci si è mai fermati, non si risorge, perché non siamo mai morti, non ci sono cittadini migliori, perché una città la fanno tutti quellio che la abitano, anche quelli che dovranno rispondere dei propri atti (con proporzionalità si auspica).

Cancellare alcune scritte è come cercare di chiudere un urlo nelle bocche. Carlo vive è il grido di chi chiede giustizia per le violenze di Genova, è un monito per quanto non deve accadere più, è una richiesta di un nuovo rapporto di forza fra chi esercita il dissenso e chi detiene il potere.

Quelle lettere che scompaiono dal muro si accenderanno su un altro, perché la città vive, i suoi muri vivono non solo di freschi e riposanti, perfetti e lindi intonaci, non solo di ordine e buoni sentimenti, perché la complessità è difficile da adattare a due colori, con la pretesa molto contemporanea di poter dire sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato senza diritto di capire, che non significa condividere, perché nasce o perché cresce un fatto così distante dalle proprie radici comuni, sicuramente maggioritarie.

Sono i giorni delle etichette e delle divisioni. Ma il rapporto di forza che si gioca e che spacca intere comunità da alcuni giorni deve essere fertile se vogliamo che abbia un significato per tutti.

Non è questione di stare a criticare i detergenti delle istituzioni, quanto capire che uno slogan non è solo un insieme di segni da cancellare da un muro pensando di aver insegnato il senso civico ai propri figlioli. A volte è anche di più.

Prima di cancellarle, le scritte, impariamo e insegniamo a leggerle.

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