Vietato contestare Renzi, è tornato il delitto di lesa maestà

L’arroganza e le coreo­gra­fie nor­d­co­reane in for­mato stra­pae­sano stanno diven­tando tratti con­sueti dello stile di governo. Chi si per­mette di gua­stare que­ste «feste della nazione» paga salato

Quello di lesa mae­stà è stato, fin dalla notte dei tempi, un delitto assai grave. Lo si pagava gene­ral­mente con la vita. Ma par­liamo di epo­che in cui il corpo del sovrano rien­trava nella sfera del sacro.

Sor­prende, dun­que, la sua rie­di­zione, certo assai meno cruenta e non inscritta in alcun codice, in una società lai­ciz­zata e demo­cra­tica come la nostra. Fatto sta che ad ogni pub­blica mani­fe­sta­zione di un espo­nente del governo chiun­que osi con­te­starlo facendo troppo rumore, si espone a rea­zioni spro­po­si­ta­ta­mente vio­lente da parte delle forze dell’ordine e a pesan­tis­simi prov­ve­di­menti giu­di­ziari: fogli di via e arre­sti domiciliari.

È acca­duto due volte a Bolo­gna: l’arresto di sei per­sone in rife­ri­mento alla con­te­sta­zione della mini­stra Madia nel dicem­bre dello scorso anno e le teste spac­cate (a soli due giorni dalla solenne pro­cla­ma­zione di una «nuova etica» di poli­zia) il 3 mag­gio scorso per difen­dere da una minac­cia ine­si­stente Mat­teo Renzi inter­ve­nuto per con­clu­dere la festa dell’Unità.

Stiamo par­lando di slo­gan, di stri­scioni e di qual­che spin­tone. Ben di peg­gio si è visto, con una certa fre­quenza, nelle aule parlamentari.

Forse gli uomini e le donne dell’esecutivo, non­ché buona parte del ceto poli­tico, non arri­vano a con­si­de­rarsi pro­prio ema­na­zioni del sacro, ma cer­ta­mente pre­ten­dono di «incar­nare la nazione» nella quale i gover­nati devono stare al loro posto, dopo aver votato (i pochi che lo fanno ancora) e tal­volta dopo aver rice­vuto in gen­tile con­ces­sione un ascolto inu­tile e formale.

Può darsi anche che si tratti più sem­pli­ce­mente del volto aggres­sivo di un nar­ci­si­smo deci­sio­ni­sta e per­ma­loso. L’arroganza e le coreo­gra­fie nor­d­co­reane in for­mato stra­pae­sano stanno diven­tando tratti con­sueti dello stile di governo. Chi si per­mette di gua­stare que­ste «feste della nazione» paga salato.

Gli ortaggi e i fischi che pio­vono dal log­gione non hanno mai signi­fi­cato la fine del tea­tro, sem­mai testi­mo­niato della sua natura aperta e demo­cra­tica. Ogni attore che si rispetti, abi­tuato a cal­care la scena, è ben con­sa­pe­vole di esporsi a que­ste rea­zioni. Fa parte del suo mestiere.

Diver­sa­mente, i mat­ta­tori della poli­tica, nono­stante anni di chiac­chiere sulla politica-spettacolo sem­brano rite­nere che le con­te­sta­zioni rumo­rose minac­cino, nella loro per­sona, la demo­cra­zia stessa (che per­fino Sal­vini & Casa Pound pre­ten­dono di incarnare).

Così, pur avendo bea­ti­fi­cato l’austero notaio mila­nese che, a pre­si­dio del tri­co­lore espo­sto alla sua fine­stra, si lasciava stoi­ca­mente ber­sa­gliare dalle uova lan­ciate dai mani­fe­stanti, i nostri poli­tici si guar­dano bene dal seguirne l’esempio.

Se vi fosse una magi­stra­tura con un senso non super­fi­ciale della demo­cra­zia si affret­te­rebbe a revo­care dei prov­ve­di­menti fuori misura e fuori luogo, e a ricon­durre l’azione giu­di­zia­ria al livello di una civiltà giu­ri­dica che dovrebbe essersi lasciata alle spalle il delitto di lesa maestà.

Tanto più che que­sti prov­ve­di­menti costi­tui­scono un peri­co­loso pre­ce­dente, suscet­ti­bile di cri­mi­na­liz­zare ogni inter­fe­renza con­flit­tuale con la recita di chi ci governa.

 

 

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