Svegliare la società e rimuovere le macerie del ventennio

La scissione di Rifondazione apre la diga della Seconda repubblica, l’Italia si normalizza, la società aderisce a un senso comune subalterno. Ma è da qui che occorre ripartire

C’è vita a sini­stra? Forse la que­stione andrebbe posta in que­sta forma, come una domanda non reto­rica. La rispo­sta, se non si è in cerca di con­forto, non è scon­tata. Dipende da che cosa si intende per sini­stra e da dove si volge lo sguardo.

Per­lo­più ci si guarda intorno per regi­strare le (micro)realtà in cui è attual­mente fran­tu­mato il ter­ri­to­rio della sini­stra poli­tica e della cosid­detta sini­stra sociale, che è poli­tica anch’essa per­ché movi­menti e asso­cia­zioni sono sog­get­ti­vità cri­ti­che dotate di cul­tura poli­tica e orien­tate verso fina­lità poli­ti­che. In que­sta pro­spet­tiva è facile rispon­dere affermativamente.

L’arcipelago esi­ste. Si riduce, ma nono­stante tutto per­si­ste. In quest’ottica il pro­blema sta nel riscat­tarlo dall’attuale disper­sione bat­tendo le resi­stenze (le insi­pienze) di sedi­centi gruppi diri­genti gra­vati dai peg­giori difetti del ceto poli­tico: l’autoreferenzialità, il feti­ci­smo delle iden­tità (per sovrap­più cri­stal­liz­zate nella sot­to­cul­tura delle for­mule ideo­lo­gi­che), il set­ta­ri­smo alle­vato da una con­ce­zione fami­li­stica dell’appartenenza.

Ma que­sta impo­sta­zione poteva essere ade­guata in pas­sato, fino alla metà degli anni Novanta, quando si poteva ancora spe­rare in un’evoluzione posi­tiva del pro­cesso di scom­po­si­zione e regres­sione inne­scato dalla Bolo­gnina. Poi la sto­ria è cam­biata. Il 1998, quando Rifon­da­zione comu­ni­sta cessa di essere una realtà dotata di senso, è una data cru­ciale in que­sta vicenda. Fino alla grande scis­sione che ne segna irre­ver­si­bil­mente la para­bola, Rifon­da­zione rap­pre­senta un’opportunità per tutta la sini­stra ita­liana. È un bene comune. Mal­grado l’immaturità della diri­genza, emersa dram­ma­ti­ca­mente già nel con­gresso fon­da­tivo dell’Eur (1991), costi­tui­sce ancora, poten­zial­mente, il luogo di con­ver­genza, accu­mu­la­zione e rior­ga­niz­za­zione delle forze cri­ti­che capaci di resi­stere alle sirene dell’omologazione subal­terna, di sot­trarsi all’attrazione tra­sfor­mi­stica del social-liberismo che informa di sé la cosid­detta «sini­stra di governo».

Col 1998 que­sta sto­ria si chiude. La grande scis­sione non segna sol­tanto l’avvio della lenta ago­nia di Rifon­da­zione comu­ni­sta. San­ci­sce anche, sino a prova con­tra­ria, l’incapacità di rico­struire qui e ora – in Ita­lia, nel nuovo secolo – un par­tito comu­ni­sta o socia­li­sta di massa, in grado di impe­dire lo spo­sta­mento del blocco sto­rico del vec­chio Pci nel qua­dro delle forze mode­rate, vocate all’amministrazione sin­to­nica dell’esistente, e di con­tra­stare la rivo­lu­zione pas­siva neo­li­be­rale. Da quel momento la sto­ria ita­liana entra in una fase nuova, di cui Renzi – come già il suo mae­stro Ber­lu­sconi – è sol­tanto un para­digma di pecu­liare vol­ga­rità. Da allora, per la prima volta nella sto­ria repub­bli­cana, lo sce­na­rio poli­tico ita­liano si carat­te­rizza per la sostan­ziale assenza di un’opposizione.
La prima Repub­blica ha vis­suto della dia­let­tica fon­da­men­tale tra la sini­stra a domi­nante comu­ni­sta e il varie­gato mondo ege­mo­niz­zato dalla Dc. Non si trat­tava sol­tanto di poli­tica in senso stretto (par­titi e isti­tu­zioni), ma di un dato sociale, antro­po­lo­gico e cul­tu­rale. Ciò spiega per­ché, con tutti i suoi limiti, il Pci abbia con­tri­buito sta­bil­mente (anche suo mal­grado) alla fio­ri­tura di cul­ture e sog­get­ti­vità cri­ti­che che hanno pro­mosso lo svi­luppo sociale e civile del paese, prima e dopo il ’69 ope­raio. È pro­prio que­sta stra­ti­fi­cata pola­rità che la Bolo­gnina ha can­cel­lato, spia­nando la strada alla van­dea berlusconiana.

In pochi anni l’Italia è stata nor­ma­liz­zata. Ancora una volta, non sol­tanto sul piano stret­ta­mente poli­tico (l’intero spet­tro delle forze par­la­men­tari fa ormai rife­ri­mento acri­ti­ca­mente all’esistente, e sono via via venute meno anche le dif­fe­renze di accento tra la destra e il cen­tro «demo­cra­tico»), ma anche, in primo luogo, sul ter­reno sociale. Il paese è stato sca­ra­ven­tato in una palude fatta di indif­fe­ren­ti­smo e di cini­smo, di irre­spon­sa­bi­lità e di con­for­mi­smo. Non dovrebbe sor­pren­dere che la sfi­du­cia nei con­fronti della classe diri­gente sia stata lar­ga­mente capi­ta­liz­zata da una figura come Grillo, por­ta­ban­diera del risen­ti­mento qua­lun­qui­stico. Né che, in assenza di alter­na­tive cre­di­bili, il disa­gio mol­ti­pli­chi i ran­ghi dell’astensionismo.

In que­sta situa­zione si può essere certi che ci sia «vita a sini­stra»? Che in Ita­lia esi­sta una sini­stra come fatto poli­tico, in grado di inci­dere sulla realtà? Forse la domanda che ci si dovrebbe porre è piut­to­sto come la sini­stra potrebbe rina­scere. Biso­gne­rebbe allora rio­rien­tare lo sguardo, non guar­dare a noi stessi (a quanti si inte­res­sano di poli­tica per voca­zione o per abi­tu­dine) ma, senza intenti con­so­la­tori, al paese. Per cer­care di capire com’è cam­biato nel corpo e nell’anima in vent’anni di ber­lu­sco­ni­smo, di neo­li­be­ri­smo e di deser­ti­fi­ca­zione «intel­let­tuale e morale» della sinistra.

Dif­fi­cil­mente una rico­gni­zione del genere – tutt’altro che age­vole, tale da imporre la revi­sione della tra­di­zio­nale stru­men­ta­zione ana­li­tica e pra­tica – darebbe risul­tati con­for­tanti. Il males­sere dif­fuso non si tra­duce spon­ta­nea­mente in atteg­gia­menti cri­tici per­ché la mac­china media­tica fun­ziona a pieno regime nel con­so­li­da­mento del senso comune subal­terno men­tre l’assenza di una sini­stra capace di dire­zione poli­tica di massa sor­ti­sce nel lungo periodo effetti rovi­nosi. Ma è da qui che occorre par­tire, tenendo a mente che la rico­sti­tu­zione di una sini­stra capace non sol­tanto di deci­frare la realtà ma anche di inci­dere su di essa è un pro­cesso sociale di lunga lena.

Non si tratta di invo­care eventi sal­vi­fici né di imboc­care scor­cia­toie orga­niz­za­tive, come si è pun­tual­mente fatto negli ultimi quin­dici o vent’anni. Si impone, al con­tra­rio, un lavoro mole­co­lare, oscuro e di straor­di­na­ria dif­fi­coltà pro­prio per­ché occorre rico­struire ex novo un sistema di rela­zioni ege­mo­ni­che, il che implica nien­te­meno che l’elaborazione e il radi­ca­mento di un senso comune cri­tico andato disperso. È un’impresa che parte per defi­ni­zione in con­di­zioni avverse e nella quale l’unica cer­tezza è che non esi­stono for­mule predefinite.

You may also like

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password