Caso Cucchi, il pestaggio della verità

Il rito giudiziario — come quello degli alti magistrati, icasticamente ritratti su queste colonne quarantatre anni fa da Luigi Pintor — vive sempre di una sua fredda astrazione, proiettato in una sorta di etereo iperuranio. Così, in queste ore, la Corte di Cassazione è chiamata a celebrare il terzo grado del processo per la morte di Stefano Cucchi.

Solo che quel processo, rivelatosi del tutto falsato a causa di indagini condotte in maniera a dir poco insipiente, risulta ora completamente svuotato dai risultati già acquisiti dalla seconda inchiesta, promossa dal nuovo procuratore Capo Giuseppe Pignatone (al quale tutti dobbiamo essere grati). E, tuttavia, la sentenza della Cassazione non potrà non tener conto delle novità intervenute. Il che spiega perché il Procuratore generale Nello Rossi abbia chiesto l’annullamento con rinvio dell’assoluzione di cinque medici prosciolti in appello.

E lo stesso procuratore generale ha aggiunto che i referti medici su Stefano Cucchi all’atto dell’ingresso nell’ospedale Pertini «devono essere considerati come un capitolo clamoroso della sciatteria e trascuratezza della assistenza riservata al paziente». Si apre, così, un nuovo capitolo, che finalmente porrebbe in una luce diversa la decisiva questione del nesso di causalità fra violenze inflitte e successivo decesso.

Tanto dolore, tante falsità
Al momento in cui scrivo, non si conosce ancora la sentenza della Cassazione, ma il cuore dell’intera vicenda — «la passione e la morte» di un giovane uomo attraverso dodici luoghi e apparati e istituzioni dello Stato — sembra incontrare ora la sua verità essenziale. E pure resta un gusto amaro in bocca.

Venerdì scorso mentre parlavo con Ilaria, Giovanni e Rita Cucchi delle sconvolgenti notizie relative alla morte di Stefano, non avvertivo in ciò che dicevamo alcun senso di sollievo. E non solo perché sullo sfondo resta sempre, incancellabile, quel corpo tumefatto e sfigurato sul tavolo di un obitorio. Ma anche perché le modalità di quelle rivelazioni e il loro contenuto rendono ancora più atroci i contorni di questa storia atroce. Intanto, l’umiliante sofferenza patita da Cucchi, emerge in forma ancora più netta, così come la sua condizione di solitudine e di abbandono.

E poi, nei suoi torturatori, quelle manifestazioni così minacciose di senso di impunità e di volontà di mortificazione della vittima, che sembrano esprimere una sorta di «stile d’azione» — brutale e professionale allo stesso tempo — confermato mille volte e in mille circostanze.
E, infine, il nostro scoramento — se posso permettermi di interpretare anche il sentimento della famiglia Cucchi — nasce da questa agra soddisfazione e da questa malinconica consapevolezza: sì, adesso sappiamo come sono andate davvero le cose in quella maledetta notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009.

Ma perché c’è voluto tanto per accertare la verità? Tanto dolore e tanta fatica? Tanto scialo di sofferenza e tanto tempo dilapidato a causa di menzogne e depistaggi, diffamazione istituzionale e odio politico? Tanto Carlo Giovanardi ( Cucchi? «anoressico tossicodipendente epilettico larva zombie») e tanto Pubblico ministero Francesca Loy (Cucchi? «tossicodipendente da circa venti anni»). A tre giorni dalla morte di Stefano, la sorella Ilaria e noi con lei, indicavamo nella caserma Appia e in quelle prime ore della notte, il luogo e il momento di ciò che il Procuratore Pignatone avrebbe definito, anni dopo, «un violentissimo pestaggio».

La sudditanza verso l’Arma
Esattamente da quelle ore e per mesi fu messa in atto una insidiosa e pesante operazione di manipolazione nei confronti dei familiari, del loro legale Fabio Anselmo e di chi scrive, al fine di dirottare l’attenzione da quella caserma e da quelle prime ore della via Crucis di Stefano Cucchi, e per indirizzarla verso la polizia penitenziaria.

Per ben sei anni, quella operazione ha retto, grazie — evidentemente — a una rete di complicità sottili e assai robuste, a silenzi tenaci e a una omertà corporativa tra i carabinieri. E grazie a qualcosa di assai simile a una forma di sudditanza psicologica nei confronti dell’Arma, così frequente in alcuni settori della Magistratura. Se ora tutto sembra cambiare, si deve alle nuove indagini della procura di Roma e — soprattutto — alla determinazione, instancabile e intelligente, dei familiari della vittima.

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