Una vita all’insegna del «noi»

comunismo

Dal Veneto povero e contadino a un marxismo eretico dove la classe operaia è la fonte dello sviluppo capitalistico. «Storia di un comunista» di Toni Negri. Un’autobiografia che lega percorso teorico e scelte politiche

Sarebbe riduttivo considerare Storia di un comunista (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie, pp. 608, euro 18) esclusivamente come l’autobiografia di Toni Negri. Certo, si può leggere come un’autobiografia e apparentemente si presenta proprio così: dall’infanzia nel Veneto al tempo della Seconda Guerra mondiale fino all’arresto del 7 aprile 1979. La storia di quegli anni, inoltre, si dipana – anche se non mancano incursioni del senno di poi, soprattutto di quelle categorie che Negri svilupperà appieno solo dopo gli anni Settanta – in ordine cronologico. Non si tratta soltanto di un’autobiografia perché, sia dal punto di vista del contenuto che da quello stilistico, è anche la storia di un’autobiografia che progressivamente perde ciò che la rende tale: il suo io narrante.

Da Hegel a Weber

Storia di un comunista è infatti un processo di soggettivazione che passa attraverso diverse fasi, lasciando poi – dal ’68 in poi – la narrazione a un «noi». È infatti il «noi» di una «generazione» che, come dichiarato nella premessa del libro, Negri prova a raccontare. Ma prima che l’io narrante possa diventare un noi, prima cioè che la storia vissuta in prima persona possa trasfigurarsi nella storia di una generazione di militanti, per buona parte del libro la narrazione dell’io privato e dell’io che si sofferma a riflettere sulle proprie vicende personali e sugli avvenimenti del mondo e della società che lo circondano si alterna con la narrazione in terza persona: un «Toni» che nel mondo di relazioni, di militanza, di studi che precedeva il decennio del lungo ’68 italiano vive ancora in una condizione di alienazione. Non che la militanza con la Giac (Gioventù italiana di Azione cattolica) o con il Partito socialista non siano fondamentali – come fondamentali sono nella sua formazione filosofica gli studi sull’Historismus tedesco, su Hegel e su Weber. Ma è solo a partire dal ’68 – dalle lotte che il ’68 inaugura – che l’io narrante non ha più bisogno di farsi rappresentare da Toni.

La scena originaria

Per comprendere tuttavia la svolta che il ’68 comporta, bisogna ripercorrere i passaggi che l’hanno preparata. Storia di un comunista, infatti, è sì il racconto di un vissuto personale e generazionale, ma la sua trama non è meno articolata e strutturata di un testo filosofico di Negri. Il pensiero filosofico non è soltanto quello che Toni apprende dalle sue letture e dai suoi maestri (Opocher, Chabod, Garin, Cantimori, Bobbio, tra gli altri) e che poi declinerà via via nei suoi scritti, ma è anche quello che si fa pensiero vivente, che sempre di più con il passare degli anni si incarna nella militanza e nelle lotte. Non è un caso che il primo capitolo s’intitoli Stato di natura: la scena originaria del pensiero politico moderno. Lo stato di natura dell’infanzia di Negri ha infatti i caratteri di quello hobbesiano: guerra, morte, paura della morte.

Fin dalle primissime pagine il libro presenta il filo rosso che lo attraversa e ne scandisce i momenti: «la vita è una lotta, implacabile e feroce, contro la morte». Ebbene, il libro comincia con la vita che, nello stato di natura, soccombe allo strapotere della morte e, pertanto, chiede protezione. È da qui che la narrazione prende avvio ed è lungo questa linea che si sviluppa: da uno stato di minorità, subalternità e dipendenza alla possibilità di una «politica della vita» (sebbene entri nel suo lessico solo in seguito, il termine «biopolitica» ricorre frequentemente).

Filosofia in divenire

Quella che potrà affermarsi, tuttavia, non può essere la vita naturale, inevitabilmente soggetta alla morte e bisognosa di protezione, bensì una vita storica, il risultato cioè di un processo politico di soggettivazione. E nemmeno il «comune» potrà corrispondere alla comunità «naturale» dove Negri nasce – la famiglia innanzitutto, ma anche quel Veneto contadino, povero, cattolico e solidale. Certo, Negri afferma «di essere stato comunista prima che marxista», ma su questo senso comunitario va innestato Marx e un certo marxismo perché il comune da condizione naturale possa essere sviluppato nel senso della produzione. Comunismo dello stato di natura e vita naturale devono farsi storia e politica.

Tale passaggio si sviluppa come un processo di cui ricerca filosofica ed esperienza vissuta compongono i momenti: l’Historismus tedesco insegna a Toni che soggetto e oggetto si compenetrano reciprocamente nel movimento della storia, Weber lo introduce a quella sintesi di sociologia e politica che lo porta – già come militante del cattolicesimo di base – a fare dell’inchiesta un metodo al contempo di conoscenza e di pratica politica, i viaggi estivi in autostop in giro per l’Europa gli aprono le prime vie di fuga dal provincialismo. La prima conversione è quella dal cattolicesimo militante alla laicità socialista (si iscrive al Psi), ma la vera svolta è rappresentata dall’esperienza del marxismo eretico dell’operaismo, quello di Quaderni rossi e Classe operaia.

Il rifiuto dello sfruttamento

La vita s’incarna nel lavoro vivo di cui la classe operaia – l’operaio massa della fabbrica fordista – è la soggettivazione e la storia si configura come lotta di classe: operai e capitale. Ma l’affermazione della vita in quanto punto di vista operaio non è sufficiente a rendere questa vita indipendente dalla morte; quella dialettica che nel conflitto di classe consente alla vita di riconoscersi come soggetto storico ne impedisce altrettanto l’affermazione autonoma: «Nella lotta operaia si sconfiggono la paura e la morte. La rottura fra il desiderio e la sua gabbia – la fabbrica, il comando, il profitto –, il rifiuto dello sfruttamento sono anche mettere la vita fuori da ogni tanatologia: la vita indipendente dalla morte. (…)Non c’era dialettica che potesse articolare queste conclusioni». È a quest’altezza della riflessione teorica e delle lotte inaugurate nel 1962 a Piazza Statuto che si pone la questione politica dell’organizzazione della classe operaia. Ed è qui che il fronte operaista si spacca – Negri vede nel sindacato, nel partito (il Pci), nello Stato un «potere fuori di sé» rispetto alla «potenza» del lavoro vivo.

Nasce allora l’esperienza di Potere operaio e poi di Autonomia operaia: comincia il lungo ’68 italiano.

Da questo momento in poi la narrazione si fa più serrata – la lotta del Petrolchimico di Porto Marghera da giugno ad agosto 1968 assume l’andamento della cronaca – ed è spesso un «noi» a parlare. Come un «noi» è quello delle riviste che si susseguono scandendo il ritmo delle lotte e della riflessione – e il loro compenetrarsi. L’appropriazione della prima persona (plurale) corrisponde alla declinazione del rifiuto del lavoro operaista in autovalorizzazione, che di lì a qualche anno prenderà il nome di «esodo». L’autovalorizzazione del lavoro vivo assume le fattezze dell’operaio sociale e il suo spazio d’azione diventa la metropoli (intanto, lo stesso Negri da Padova si trasferisce a Milano) – il Capitale a sua volta adegua la sua logica di sfruttamento alla «fabbrica sociale». Si imprime un’accelerazione vertiginosa nei processi di soggettivazione che – ecco comparire un’altra categoria che Negri elaborerà solo successivamente – cominciano a delineare una «moltitudine» che già si muove al di là della dialettica con lo Stato-nazione.

Sono gli stessi anni in cui l’esperienza italiana comincia a tradursi in altri contesti (europei ma non solo) e in altre lingue e, al contempo, inizia ad assimilare quanto arriva da fuori (ad esempio, si avvia qui la ricezione del post-strutturalismo francese).

Il lavoro che verrà

E tuttavia, quel decennio è stato rubricato dalla storiografia ufficiale con la formula «anni di piombo»: lo scontro tra lo Stato e quella parte del movimento che si è fatto partito armato. È una logica dialettica che conclude tragicamente il lungo ’68. Beninteso, Negri questa storia la racconta. Ma lungo quelle stesse pagine, quelle sul ’77, Negri registra «la prima, decisiva apparizione di una nuova antropologia del lavoro: l’affermazione di una nuova forza lavoro socializzata e intellettualizzata» – il lavoro immateriale, cognitivo, affettivo, cooperativo, singolarizzato.

Insomma, quella che sarà la forma predominante del lavoro vivo – la sua forma di vita – in epoca postfordista. Ed è questo processo di soggettivazione che si affaccia nelle lotte di quegli anni in Italia – e che oggi ancora cerca l’affermazione di una sua biopolitica – a continuare una storia che non finisce il 7 aprile 1979.

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