Caso Uva, assolti con formula piena i sei carabinieri e i due poliziotti

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Varese. Secondo il senatore Pd Luigi Manconi – presidente della Commissione diritti umani del parlamento – si tratta di «una iniqua conclusione di un processo iniquo. Un processo condizionato da un’indagine condotta in maniera pedestre, fino all’altro ieri, dal pubblico ministero Agostino Abate»

VARESE Tutti assolti. Con formula piena. Il processo per la morte di Giuseppe Uva è finito così, dopo quattro ore di camera di consiglio, con i sei carabinieri e due poliziotti accusati di abuso d’autorità, abbandono d’incapace, arresto illegale e omicidio preterintenzionale ad abbracciarsi, e i parenti di Giuseppe attoniti, increduli, impreparati a una cosa del genere, malgrado le avvisaglie ci fossero tutte da un po’. Un solo grido è risuonato dopo la lettura della sentenza: «Maledetti».

«Si tratta di un’assoluzione annunciata – commentano a caldo quelli di Acad, l’Associazione contro gli abusi in divisa –, noi continueremo comunque a sostenere la lotta di Lucia per la verità e la giustizia».

Il processo è durato quasi due anni, tra interminabili udienze testimoniali, decine di perizie, e un’indagine rimasta aperta sette anni, con tanto di cambio in procura e guerra aperta tra il pm Agostino Abate e gli avvocati di Lucia Uva, la sorella della vittima.

Alla fine, per i giudici del Tribunale di Varese, le prove a carico degli imputati sono state giudicate molto scarse. Una conclusione alla quale erano arrivati prima i procuratori Abate e Felice Isnardi, che avevano chiesto l’assoluzione ma erano stati respinti dal gup che aveva poi ordinato il processo in Corte d’assise. Qui anche la pm Daniela Borgonovo era arrivata alla stessa conclusione: assolvere tutti perché «non ci sono prove di comportamenti illegali». E così è stato.

La storia rimane così senza una conclusione, la sentenza parla da sé, e va bene, ma di spiegazioni sulle cause della morte di Giuseppe Uva non ce n’è manco una.

I fatti: la notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, l’uomo – 43 anni, di professione operaio – venne fermato ubriaco per strada mentre insieme all’amico Alberto Biggiogero stava spostando alcune transenne in mezzo alla strada. Portato in caserma, non si sa bene cosa sia successo fino al suo arrivo in ospedale, dove Giuseppe sarebbe morto nel giro di qualche ora. L’unica spiegazione ufficiale, a questo punto, parla di una crisi di nervi da parte di Uva in caserma, seguito poi da un Tso e dal ricovero in ospedale.
Biggiogero, interpellato più volte come testimone, ha raccontato di aver sentito Giuseppe urlare, ma le sue parole non sono risultate credibili alle orecchie dei giudici. La sua versione dei fatti è stata giudicata contraddittoria, parziale e, soprattutto, non ha giocato a suo favore il fatto di essere stato sotto l’effetto di stupefacenti e alcol, quella notte.

L’avvocato delle divise, Luigi Di Pardo, dal canto suo ha descritto Giuseppe come «un clochard sporco e puzzolente» che «viveva di espedienti» dopo essere stato «abbandonato dai suoi familiari che ora sono in cerca di un risarcimento». Il «clochard sporco e puzzolente», secondo il legale, non poteva essere l’amante della moglie di uno degli agenti che lo arrestarono quella notte. Questo particolare della storia è stato tra i più dibattuti durante il processo: per la famiglia di Giuseppe si trattava del movente delle botte prese in caserma, mentre per la difesa era soltanto una calunnia bella e buona.

Lucia Uva pure è finita spesso e volentieri al centro del mirino dell’avvocato Di Pardo: accusata di aver «manipolato come un burattino» Biggiogero, avrebbe fatto parte addirittura di una «task force di bugiardi per costruire un castello accusatorio che si è rivelato inconsistente».

Secondo il senatore Pd Luigi Manconi – presidente della Commissione diritti umani del parlamento – si tratta di «una iniqua conclusione di un processo iniquo. Un processo condizionato da un’indagine condotta in maniera pedestre, fino all’altro ieri, dal pubblico ministero Agostino Abate».

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