Tortura di Stato

tortura

TORTURA DI STATO. Ieri, oggi e domani…?

Circolo La Poderosa, Torino

Venerdì 27 maggio 2016

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Brani letti da Marina Loropiana durante la serata

Un “Comitato contro la tortura” promosso dal Partito Radicale, in un dossier del 1982 aveva documentato una sessantina di episodi di torture e pestaggi avvenuti contro militanti della lotta armata. Dopo il sequestro del generale Dozier e la sua liberazione, l’indicazione arrivata dai vertici della polizia e del ministero era di non andare per il sottile, perché era giunta l’ora di farla finita. Lo aveva rivelato Franco Fedeli, direttore della rivista “Nuova polizia”[1].

In attesa della nuova polizia, però, quella vecchia e i carabinieri usavano sovente incappucciare i militanti catturati, talvolta trasferirli in case anonime e torturarli per giorni, sia con i metodi classici sia con quelli artigianali ed estemporanei. A due dei nostri, Adriano e Fernando, nell’agosto 1979, dopo le varie razioni di botte, il sale e l’aceto sparsi sulle ferite in una caserma nei pressi di Teramo, i carabinieri si erano inventati di costringerli a stare sulla punta dei piedi, legargli i testicoli con uno spago teso e assicurato a una finestra: se i talloni fossero stati appoggiati a terra, i testicoli si sarebbero strappati.

Ancora peggio era andata a Franchino e Guglielmo, presi nel gennaio 1982 a Tuscania, dopo un conflitto a fuoco in cui erano morti due carabinieri e Lucio, il giovane compagno “Olmo” che veniva dalle Squadre di Orbassano e con il quale, venti giorni prima, avevo assaltato il carcere di Rovigo. Il destino gli aveva presentato rapidamente il conto. Per avere tempo e tranquillità di somministrare il “trattamento” agli arrestati, a beneficio dei telegiornali, i carabinieri avevano fatto addirittura finta di sottrarli al linciaggio della folla e di trasferirli. Un reality, si direbbe ora. Ma, in quel caso, gli incappucciati erano carabinieri. I veri “terroristi”, Franchino e Guglielmo, erano già rinchiusi in un luogo discreto e appartato sotto le grinfie dei torturatori; vi sarebbero rimasti tre giorni, sempre incappucciati, tra botte e finte esecuzioni, con spilli sotto le unghie dei piedi e testicoli schiacciati con le pinze e bruciati con le sigarette. Storie come tante, di fronte alle quali la magistratura ha fatto come le tre scimmiette e il ministro dell’Interno Rognoni ha sempre negato[2].

Il segretario di uno dei partiti di governo, il socialdemocratico Pietro Longo, iscritto alla P2, aveva dichiarato anzi che qualche cazzotto ai terroristi arrestati lo avrebbe volentieri dato pure lui. E, in effetti, l’unico torturatore processato, un dirigente della DIGOS di Genova, lo fece eleggere deputato nelle sue file. Del resto, sconvolto per il sequestro di Aldo Moro, anche uno dei padri della Repubblica, Ugo La Malfa, aveva invocato la pena di morte.

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Ci portarono ammanettati, quasi di peso, dentro l’edificio diroccato e cominciarono a pestarci con metodo. Il capo dei picchiatori era un brigadiere che conoscevo bene, Ennio Gregolin, un energumeno che aveva fama di massacrare tutti i piccoli malavitosi e chiunque gli capitasse per le mani. Mani incredibilmente grandi, da contadino, ebbi modo di rendermi conto; mi percuoteva sulle orecchie, con l’evidente scopo – del tutto riuscito – di sfondarmi i timpani, mentre gli altri mi colpivano in varie parti del corpo. In Sudamerica la chiamano tortura “del telefono”. E viene fatto di pensare che la tortura, prima ancora dell’economia, sia stato il primo terreno di applicazione della globalizzazione, capace di omogeneizzare tecniche e tradizioni. Tra un colpo e l’altro, Gregolin mi sibilava: «Cosa avete combinato alla Magneti Marelli? Vi facciamo passare noi la voglia di sparare».

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Nel dicembre 1981, nel carcere di Cuneo i brigatisti avevano ucciso Giorgio Soldati, un giovane compagno uscito da Prima Linea che stava cercando di entrare nelle BR. Fermato, assieme a un altro militante, durante un controllo alla stazione centrale di Milano, aveva ingaggiato un conflitto a fuoco. Un poliziotto era rimasto ucciso. Catturati e portati in questura erano stati sottoposti a violenze. Sotto le botte, Giorgio aveva ceduto e dato qualche informazione di secondaria importanza. Terminati i pestaggi, aveva ritrattato tutto e chiesto di essere mandato in carcere con gli altri compagni. I magistrati l’avevano irresponsabilmente accontentato e spedito a Cuneo, un carcere speciale. Lì aveva domandato di stare nella sezione dei brigatisti e non in quella dei piellini. Una decisione tragica ma coerente con la sua scelta di campo, in un momento in cui la contrapposizione tra le organizzazioni combattenti in carcere era diventata fortissima. Così i piellini avevano rinunciato a difenderlo. Stante il clima, facilmente prevedibile l’esito: il processo e la sentenza, eseguita da alcuni brigatisti. Lui si era limitato a dire: fate presto, porgendo il collo ai suoi aguzzini. Al processo che si tenne cinque anni dopo Mario, il padre di Giorgio, si costituì parte civile – come scrisse in una lettera – «non contro gli esecutori, come molte persone si sarebbero aspettate, compreso il PM Giraudo, ma contro lo Stato […]. Mio figlio è stato costretto dallo Stato a collaborare con la cosiddetta giustizia con dei mezzi coercitivi, illegali, poi dato che di quello che ha detto niente è stato messo a verbale, l’hanno mandato nel carcere di Cuneo senza l’adeguata protezione […]. Indubbiamente, la sopravvivenza dei genitori ai propri figli è la cosa più brutta che possa capitare, ma sono sicuro di interpretare anche il pensiero di mia moglie, preferiamo piangerlo morto ma coerente con i suoi principi e la sua moralità, piuttosto che vivo ma traditore o delatore dei suoi compagni, un pentito pagato dallo Stato per tradire i propri compagni con i denari di Giuda».

 

Simile fu la vicenda di Ennio Di Rocco, ucciso nel luglio 1982 nel supercarcere di Trani. Era un ragazzo romano di borgata, militante delle Brigate Rosse -Partito Guerriglia. Sotto tortura aveva rivelato i preparativi in corso per sequestrare l’amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti.

L’11 gennaio, davanti al magistrato di Roma, Domenico Sica, dopo che gli avvocati Eduardo Di Giovanni e Giovanna Lombardi avevano fatto riscontrare al magistrato cicatrici ed ecchimosi sul suo corpo, Di Rocco aveva dichiarato: «La sera del mio arresto venni condotto al 1° distretto di polizia ove ricevetti, nella cella, calci e schiaffi. Poi sono stato spostato alla caserma di Castro Pretorio. Dopo circa un’ora sono arrivati tre incappucciati che hanno incappucciato anche me, mi hanno caricato su un furgone e mi hanno condotto in un luogo che non so riconoscere, perché incappucciato, ma che ritengo essere una casa. In questo luogo per la notte e il giorno successivo (per quel che ho potuto capire) sono stato – a rotazione da squadrette di tre o quattro persone – picchiato con calci, pugni e bastonate e in pratica in ogni modo, con le manette strette ai polsi dietro che venivano torte. Mi è stata poi praticata una puntura al braccio destro […]

Per un certo periodo di tempo che non so dire, dopo che avevo subito la puntura, si sono alternate domande suadenti e botte. Non credo di aver detto nulla sotto questo trattamento. Il giorno dopo c’è stata una nuova rotazione di percosse, sino a che non è arrivata una squadretta che ha continuato a battermi con i bastoni sulla pianta e sul dorso dei piedi e sulle caviglie; preciso che in tutto questo tempo ero legato con mani e piedi a un letto. Sono stato picchiato anche sulle ginocchia, sul petto e in testa».

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Questo il racconto di un’infermiera di Roma, accusata di avere curato un brigatista ferito: «Un paio di giorni dopo il mio arresto, la notte tra il 3 e il 4 febbraio, incappucciata dietro la schiena, vengo caricata su un pulmino. Mi urlano che nessuno sa del mio arresto e che mi devo considerare sequestrata. Mi mettono a torso nudo, mi picchiano e mi stringono i capezzoli. Arriviamo non so dove, in una stanza. Vengo denudata completamente. Mi insultano dicendo che sono una merda, una puttana, una lesbica. Continuano a stringermi i capezzoli. È un dolore fortissimo. Mi passano delle cose calde sotto. In vagina e nell’ano. Mi danno calci in vagina. Mi fanno fumare una sigaretta che subito mi annebbia il cervello. Mi ritrovo in un pozzo di urina. Da quel momento ho iniziato a dire tutto quello che volevano sapere da me» [3].

A distanza di oltre trent’anni, la verità soffocata e negata delle torture è tornata a galla nell’inedita confessione di uno dei torturatori dell’epoca, l’ex commissario Salvatore Genova, tra i protagonisti degli arresti dei brigatisti responsabili del rapimento del generale Dozier. Questo il suo racconto: «Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in questura vado all’ultimo piano. Qui, separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie»[4].

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Dopo la confessione pubblica dell’ex commissario Salvatore Genova nessuno può più fingere di non sapere che, in quegli anni, lo Stato italiano aveva delegato la difesa della democrazia a un dirigente della questura messo a capo di una squadra di torturatori e soprannominato manzonianamente dai suoi superiori “professor De Tormentis”, al secolo Nicola Ciocia, e ai suoi tanti e improvvisati emuli. Un signore che oggi si gode impunito e decorato la pensione, che si fa intervistare con un busto di Mussolini sulla libreria e che dichiara orgogliosamente a un quotidiano «Io sono fascista mussoliniano» [5]

Sarebbe interessante sapere cosa ne pensano quei magistrati che hanno riempito pagine di libri e di giornali con le loro bugie sul rigoroso rispetto delle regole democratiche nella lotta contro il terrorismo.

Sarebbe doveroso che qualcuno, giudice o giornalista, andasse oggi dall’ex ministro dell’Interno Virginio Rognoni a chiedere conto delle sue affermazioni, in sede di risposta alle interrogazioni parlamentari sui casi di tortura. Nella seduta del 18 febbraio 1982, infatti, il ministro dichiarava in Aula: «… appare imprescindibile un dovere: il dovere, e insieme il diritto, di riaffermare una verità, che il governo ha condotto, conduce e condurrà sempre la lotta al terrorismo nell’ambito della legalità repubblicana e con tutte le garanzie democratiche».

Analoghe le esternazioni di molti politici e magistrati di quel tempo, a partire dal Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini che definì gli episodi di tortura come «palesemente inverosimili», arrivando a ipotizzare che la denuncia delle sevizie fosse una strategia messa in campo dalle organizzazioni armate come «ultima carta per accreditare l’immagine di uno Stato torturatore e seviziatore, tendenzialmente autoritario».

Simile la posizione assunta da Domenico Sica, procuratore della Repubblica a Roma, secondo il quale le torture erano da considerarsi «una campagna orchestrata dai terroristi per screditare la polizia». Del resto, proprio quel magistrato all’epoca dei fatti si trovava a interrogare gli arrestati pochi giorni dopo le sevizie, senza naturalmente accorgersi e chiedere conto di lividi e ferite.

Per un sottosegretario all’Interno dell’epoca, il democristiano Marino Corder, si trattava di «Schiocchezze enormi. Falsità. Prodotto di fantasia pura».

Ancora più ciniche le dichiarazioni di un altro sottosegretario all’Interno, il socialista Francesco Spinelli, che affermava: «Non mi risulta che sia mai morto nessuno, né che qualcuno abbia riportato lesioni gravi. Non penso si possa dire che in Italia ci sono torture di tipo sudamericano. Diciamo che nei confronti degli arrestati ci sono stati trattamenti piuttosto duri, ma sono cose che capitano nelle polizie di tutto il mondo».

Perfino l’ex partigiano Sandro Pertini avallò queste ricostruzioni bugiarde.

Insomma, si trattava di torture democratiche.

Le tecniche, spesso, erano invece esattamente quelle in voga nelle dittature sudamericane, come nel caso dell’arresto di due militanti di Prima Linea. Una tecnica raccontata dal quotidiano “Lotta Continua” del 9 febbraio 1982: «Nell’operazione che portò all’arresto dei rapinatori a Tuscania i due catturati che furono oggetto di un tentato linciaggio ripreso da tutti i giornali e trasmesso dalle televisioni non erano i due terroristi ma due carabinieri, all’uopo travestiti per giocare la parte, per confondere quelli ancora in libertà e per poter interrogare immediatamente, in luogo discreto i due catturati».

Come si svolse quell’interrogatorio lo raccontò poi uno dei due torturati e temporaneamente desaparecidi, in una lettera pubblicata dalla rivista “Controinformazione” dell’aprile 1982 e in un esposto presentato alla Procura della Repubblica l’8 febbraio dello stesso anno; esposto ignorato dalle autorità, come tutte le altre denunce analoghe.

Queste erano le “garanzie democratiche” offerte ai sospettati di banda armata in quegli anni: Garanzie da “Garage Olimpo”.

Questo tipo di violenze, va detto, nella storia delle carceri e delle caserme italiane prima e dopo le vicende della lotta armata, sono spesso successe. Ma la peculiarità, in questo caso, è quella sottolineata nel 1982 dall’onorevole Marco Boato: «è la prima volta che la tortura viene denunciata come pratica sistematica, senza suscitare, salvo rarissime eccezioni, né proteste, né condanne, né inchieste amministrative».

L’uso non episodico della tortura in Italia negli anni Settanta e Ottanta è dunque una non notizia, che è stata gelosamente custodita nelle stanze del potere e nei cassetti delle redazioni da oltre 30 anni. E che continua a esserlo.

 

Brani tratti da:

“Una vita in Prima Linea”, di Sergio Segio, Rizzoli editore, 2006;

“La tortura democratica”, di Sergio Segio, in “Alfabeta 2”, marzo 2013.

[1] Cfr. “L’espresso”, 21 marzo 1982.

[2] Cfr. Progetto Memoria, Le torture affiorate, Sensibili alle foglie editore, 1998.

[3] il suo racconto è riportato dai quotidiani “Lotta Continua” del 21 febbraio 1982 e “il manifesto” del 12 marzo 1982

[4] intervista a cura di Pier Vittorio Buffa, “L’Espresso”, 9 aprile 2012.

[5] “Corriere della Sera”, 10 febbraio 2012.

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