Cigni meccanici e baracconate caucasiche regia di Brecht

Riflessioni sul “Cerchio di Gesso” e “Tamburi e Trombe” mentre Berlino diventava Atene sulla Sprea

Madre Coraggio, si sa, è analoga a Filumena Marturano: motto di tutt’e due è che «i figli so’ figli». Ma la differenza tra Eduardo e Brecht è la medesima che passa tra la Volkswagen e la Weltanschauung. La prima, per l’autore delle Note a Mahagonny, «continua a mantenere con stolta ostinazione l’atteggiamento di chi interpreta la vita di massa. Ma non essendo più capace d’altro, questa viene smerciata quale mezzo di godimento »… Mentre in Madre Coraggio quel caratteraccio sgangherato in scena dal principio alla fine è sì uno dei Luoghi ideali della poesia del nostro secolo, ma dopo un po’ non se ne può più di vederlo, rigidamente fermo o asceticamente in moto, nel Cerchio di Gesso del Caucaso e in Tamburi e Trombe lo spettacolo è molto più vario. Sono due splendide produzioni, ricche di ritmo e di fantasia e di panache, di ammirevoli trovate registiche, articolate in una rapida successione di scene quasi cinematografica. Molto tedesche- pesanti, ma di un gusto quasi incantevole: varie come la vita, piene di personaggi (mai meno di trenta), e nessuno prevale. Quello che in certe scene poteva sembrare un protagonista, poi sparisce per delle mezz’ore intere; la storia va avanti senza di lui. Anzi, le storie: ogni personaggio ha la propria; e in quattro ore di rappresentazione s’intrecciano e s’allontanano, shakespearianamente.

Questo Cerchio di Gesso è rifatto su una leggenda cinese: una rivolta abbatte un governatore di strani luoghi orientali, e la testa mozza viene portata su e giù, davanti a un portale massiccio. Sua moglie è la Weigel, con un trucco impressionante: maschera d’oro, vesti di raso giallo, unghie finte lunghe una spanna, ghigno sinistro congelato sul lineamento. Scappa carica di strascichi, e dimentica indietro il bambino. Una servante au grand coeur, Gruscha (la Hurwicz), ne ha compassione e lo prende con sé; gli fa dei musini buffi. Il bambino presumibilmente è contento, quantunque raggiunga il massimo dell’Alienazione: infatti è un bambolotto di pezza.

Gruscha torna a casa sua, sulle montagne; e questo lungo viaggio è pieno d’incontri, avventure, tempeste di neve che per poco non la disintegrano in una proiezione di puntolini luminosi, come una passante della Grande Jatte. Il bambino suscita malumori e complicazioni nella famiglia, che decide di maritare Gruscha a un moribondo.

Ecco la scena più spiritosa: un numero enorme d’invitati si affolla in due stanzette piccolissime e prive di prospettiva, come omini di Bruegel in un’alcova di Giotto, divorando immense focacce gialle, mentre un monaco ubriaco confonde matrimonio e funerale e celebra tutt’e due insieme. Alla fine l’agonizzante salta su dal letto e fa il bagno in scena dentro una botte: fingeva di morire per evitare il servizio militare, ma ora la guerra finisce e il vero fidanzato di Gruscha torna a casa. Anche la mamma del bambino si rifà viva, e lo rivuole.

A questo punto comincia tutt’un’altra storia, quella del giudice che deve decidere a chi spetta il bambino: è una vicenda di guerre, traditori, mendicanti, travestimenti, tesori scomparsi, ragazze che la danno via, intorno allo straordinario Ernst Busch, un Bertoldo che «ne ha fatte più di Carlo in Francia». Cioè questo giudice Adzàk in una girandola di proverbi- grullerie da Piovano Arlotto. Dopo una serie di giudizi salomonici, assegna il bambino a Gruscha e confisca il patrimonio della governatrice: pare un rovescio di A passage to India. E prima di tutto c’era stato un prologo, dove i rappresentanti di due villaggi caucasici si disputano nel 1945 sull’uso di una certa valle. Per mettere d’accordo i contendenti un vecchio saggio racconta appunto la favola del Cerchio di Gesso, e per tutta la durata un complesso vocale la commenta stando in barcaccia.

È chiaro che di tutta la storia al pubblico interessa ben poco: ma si seguono i singoli episodi con vivo piacere per la bellezza e la ricchezza delle invenzioni visive. Apprezzando questi particolari, curati sempre con una fantasiosità freschissima, paradossalmente viene persa di vista la grossa costruzione. Le regie sono di Brecht o di altri collaboratori (Benno Besson, Erich Engel), le scenografie di Theo Otto e Karl von Appen, ma la “mano” è sempre la medesima. Dentro una cortina semicircolare (e semi-Fortuny: bianca per Madre Coraggio, nera per il Cerchio di Gesso), il carro, o una capanna, o una porta di città, un albero, una tenda, un sedile, sono messi lì di volta in volta; e stanno massicci in mezzo alla scena. Si allontanano talvolta sulla piattaforma girevole.

Si staccano per un’ironica trasposizione in corsivo o in negativo fotografico le Variazioni su Temi di Hogarth che sono i fondali per Tamburi e Trombe, simili a tratti di seppia litografica. La commedia è rifatta su un testo famoso della Restaurazione inglese, The Recruiting Officer di George Farquhar, che è del 1711: ma avanzata nel tempo, dalla Guerra di Successione Spagnola fin verso la Rivoluzione Americana, come causa prossima dei trambusti dell’arruolamento, e delle complicatissime trame amorose che coinvolgono gli ufficiali avventurieri della Regina Anna (o di Giorgio III) con le damine piccanti e risentite d’una piccola città della Shropshire.

Anche qui i particolari sono spesso una delizia: una libreria è palesemente, sfacciatamente dipinta sul fondale di carta; ma si avvicina un pedante, e ne estrae un libro vero. L’attore Wolf Kaiser, nelle vesti di un Captain Brazen eccezionalmente vitale, entra ogni volta urlando con un nuovo cappello che lancia impetuosamente al soffitto (e non torna mai giù). Grosse invenzioni: la vestizione delle reclute diventa una baracconata fragorosa e grottesca di camicie di forza variopinte. E trovatine squisite: i corteggiamenti sulle rive del fiume Severn vengono disturbati da anatre e cigni meccanici in moto fra le gambe delle coppie; e ricompaiono alla fine tra i piedi degli attori ringrazianti, civettando col collo e con le ali.

Si tornava ancora sovente a Berlino, perché le occasioni epocali erano frequenti. I grandi concerti alla Philarmonie. I grandi spettacoli alla Schaubühne, nei tre teatri d’opera, e i monumentali eventi nei parchi. Le grandi mostre di rielaborazione: le tendenze degli anni Venti, gli esuli degli anni Trenta, i bilanci del mezzo secolo, le tappe della Modernità, un secolo di omosessualità, un rendiconto della Prussia. L’Atene sulla Sprea fra Illuminismo e Romanticismo; e in varie sterminate sezioni, una ricapitolazione totale dell’intero Novecento tedesco. Ci fu una nuova fase orgiastica molto ben riuscita, durante l’epoca Fassbinder, che sorvegliava gli andazzi nei locali di cuoio come un autorevole tricheco nero. E all’Est lentamente procedevano i restauri dei meravigliosi musei di Schinkel, e di Potsdam.

Il grigio e il bruno e la tela di sacco, moralistici e austeri a Berlino Est, appena a Londra o a Roma virano immediatamente nell’estetismo chi-chi dell’arredamento giapponese e del divano svedese, passano subito dalla zona del Rimprovero in Tela di Sacco all’area del Carino da Rinascente: la stuoia, la rafia, il teak, la lampada di Noguchi e l’insalatiera da yacht disegnata dagli architetti. Insomma, il Regno del Beige. E questo era già evidente nel Galileo; dove più si stilizzavano i fondali più coincidevano col paravento alla Fornasetti; più si introduceva il Solido Mobile Usato e più se ne compiaceva la signora che ha scoperto la Cucina della Nonna, felice di riconoscere in scena la sua madia di Cortona, il suo cassone di Città di Castello.

 

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