Il «blue collar» della Storia

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Cronache americane. La morte di James R. Green. Docente a Boston, diede vita a gruppi di ricerca multidisciplinari. È stato autore di libri noti al grande pubblico, da quello sugli anarchici uccisi a Haymarket ai saggi sui minatori o sugli scioperi operai durante l’«edonismo reaganiano»

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La scomparsa di James R. Green sottrae alla comunità storiografica e politica statunitense e internazionale una delle sue voci più importanti, un grande storico del lavoro. E un compagno. Nato in Illinois nel 1944, Green era figlio di un insegnante e nipote di un operaio: i ferri del mestiere del nonno campeggiavano nel salotto di casa, sopra il camino. Si era addottorato a Yale sotto la guida del leggendario storico bianco sudista e sostenitore del movimento dei diritti civili Comer Vann Woodward.

Diritti civili e lotte nere, battaglia anti-Vietnam, tentativo costante di dialogo studenti-lavoratori erano i segnavia dell’impegno politico che ne ha accompagnato la maturazione di storico. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta lo troviamo a Yale a organizzare una manifestazione di 15mila persone contro l’arresto del Panther Bobby Seale, poi a Boston, dove si trasferisce definitivamente, nella redazione di Radical America.
Nel frattempo si fa un anno nella fucina leftist britannica aperta a Warwick da E.P. Thompson, pubblica un pionieristico saggio sui legnaioli degli «Industrial Workers of the World» in Louisiana sulla prestigiosa rivista inglese Past & Present, discute con sicurezza da veterano un fondamentale contributo del grande David Montgomery sul Journal of Social History.

Un marchio di fabbrica

Dallo stesso Montgomery Green riceve consigli cruciali quando qualche anno dopo Radical America lo incarica di scrivere un articolo sui minatori del West Virginia che hanno sfidato un’ingiunzione antisciopero del presidente Jimmy Carter. Inizia così una lunga storia di rapporti di Green con la mitica area appalachiana tanto cara al nostro Sandro Portelli che è durata, come vedremo, sino a tempi molto recenti.

Ma prima occorre ricordare il libro d’esordio, una ricerca innovativa sui socialisti in Oklahoma e nel Sudovest basata sulla tesi di dottorato discussa a Yale (Grass-Roots Socialism: Radical Movements in the Southwest, 1895-1943, Baton Rouge, 1978). A questo segue due anni dopo un libro di sintesi sul mondo del lavoro statunitense nel Novecento destinato a rimanere un classico del genere sino ai nostri giorni. S’intitola The World of the Worker. Labor in Twentieth Century America (Hill & Wang, 1980), raccoglie la sfida di riassumere quanto la «nuova storia del lavoro» è venuta accumulando, sotto la spinta delle lotte sociali e politiche di neri, donne e lavoratori, nel decennio precedente. Conferma e rafforza l’impressione di una splendida (e rara) accoppiata di occhio analitico e capacità narrativa che resta un marchio di fabbrica di Green.

Nel frattempo, grazie a un profondo radicamento nel mondo del lavoro bostoniano, Jim ha creato con i colleghi Susan Reverby e Martin Blatt il Massachusetts History Workshop. È un gruppo volto, sul modello del British Workers Workshop, a unire accademici e lavoratori in uno sforzo di ricerca e formazione che restituisca il passato dimenticato del mondo del lavoro e identifichi interessi e temi comuni da condividere in maniera critica col grande pubblico. A questo si affiancano presto i corsi per militanti e quadri sindacali che Green inaugura nella sua sede accademica, la University of Massachusetts di Boston, e poi quelli che tiene per l’Harvard Trade Union Program presso la Harvard Law School. Tutte iniziative cruciali per tenere desta la voce del lavoro e degli strati popolari nel deserto politico e civile degli anni Ottanta e dell’«edonismo reaganiano».

Oltre l’Accademia

Queste iniziative acuiscono la sua sensibilità per una declinazione militante della public history rivolta al grande pubblico. Se ne trova prova nella bellissima raccolta di saggi Taking History to Heart (Amherst, 2002). Lo toccano con mano gli studenti dell’Università di Genova che hanno il privilegio di averlo come professore Fulbright nel 1998 e i compagni portuali genovesi dai quali lo porto a tenere una conferenza nello stesso anno. Jim è tanto bravo quanto simpatico e modesto, si capisce che si dà del tu col meglio della storiografia mondiale, del quale è parte integrante, ma senza la spocchia dell’accademico, con una non comune curiosità instancabile per i propri interlocutori.

Tornerà in Liguria, a Bogliasco, ospite della prestigiosa Bogliasco Foundation, per lavorare al libro che gli dischiude il favore del grande pubblico. È il bellissimo e molto apprezzato Death in the Haymarket (Pantheon Books, 2006), che restituisce con un piccolo miracolo di equilibrio analitico e narrativo la vicenda dei cinque anarchici di Chicago del 1886 dalla quale è nato il 1 maggio. Si legge come un romanzo, senza che la scorrevolezza nulla tolga alla densità tematica di una pagina tanto importante della storia del lavoro mondiale.

I diavoli delle colline

Lo stesso vale per l’ultima fatica, che vede Green rimettersi in viaggio per il West Virginia e uscirne, dopo un percorso durato decenni, col libro della vita. Si intitola The Devil Is Here in These Hills. West Virginia’s Coal Miners and Their Battle for Freedom (New York, 2015).
È la storia della battaglia dei minatori per una libertà intesa come pratica relazionale e collettiva che parte dalla comune esperienza sul luogo di lavoro. È da oggi il testamento storiografico e politico di Jim. Non sarà facile esserne all’altezza. Speriamo, è più che mai il caso di dirlo, che non abbiano buttato via lo stampo.

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