Dopo Genova 2001, la tortura dell’emendamento

Legge contro la tortura. A Genova un confronto a più voci su una legge debole e inutile per le mediazioni tra politici e rappresentanti delle forze di polizia. Una discussione parlamentare surreale senza mai nominare Diaz e Bolzaneto

Caro Manifesto,

venerdì scorso a Genova abbiamo discusso attorno a un tema cruciale, per quanto snobbato dai più e rimasto invisibile sui media. Il convegno si intitolava «Perché non puniamo la tortura?» e attraverso i vari e qualificati interventi (Antonio Bevere, Stefano Anastasia, Enrico Zucca, Marina Lalatta Costerbosa, Mimmo Franzinelli, Emanuele Tambuscio, Sandro Gamberini, Sergio Lo Giudice, Gennaro Migliore, Elena Santiemma, Michele Passione, Adriano Zamperini, Maria Luisa Menegatto, chiamati dalla rivista Critica del diritto in collaborazione con Antigone e Altreconomia) si è capito quanto siamo distanti, nel nostro paese, da una sincera comprensione di che cos’è la tortura e di quali sono gli strumenti adatti a prevenirla e quindi limitarla.

Penso che in Parlamento sia in corso un «non-dibattito» su una «non-legge», visto che il tema vero della discussione è il seguente: come facciamo a introdurre una legge sulla tortura, come la Corte europea per i diritti umani ci chiede e in qualche modo ci impone, senza scontentare troppo i corpi di polizia, che sono pregiudizialmente contrari? Ecco il succo del non-dibattito e la spiegazione del perché le Camere si rimpallano la patata bollente e concentrano la discussione su articoli di legge, locuzioni verbali, eccezioni e distinguo che vanno tutti nella stessa direzione: correggere la normativa standard internazionale in modo da ridurne l’incidenza pratica e simbolica. Di emendamento in emendamento si è arrivati a formulazioni così confuse e maliziose da far dubitare che il futuro crimine di tortura si applicherebbe a un nuovo caso Diaz o – peggio ancora – alle torture che effettivamente si praticano nel mondo contemporaneo, quasi sempre senza contatto fisico, spesso addirittura per omissione.

Ascoltando Enrico Zucca, pm a nel processo Diaz, o Marina Lalatta Costerbosa, autrice di recente di un libro importante come “Il silenzio della tortura”, sono convinto alla radice di simile disastro vi sia il rifiuto di accettare che la tortura è fra noi e ci riguarda tutti, perché guasta profondamente la relazione fra cittadini e istituzioni.

Siamo di fronte a una rimozione che comincia con l’esclusione dall’ordine del discorso delle figure più preziose, ossia le vittime-testimoni degli abusi. Queste persone sono state ascoltate in tribunale nei processi Diaz e Bolzaneto ma la loro voce non è andata oltre. Non le conosciamo, non hanno fatto opinione, non sono state né consultate né coinvolte in una discussione franca (il Parlamento ha cancellato immediatamente la previsione di un fondo per le vittime, indicato come una necessità dalla Convenzione internazionale contro la tortura, sostenendo che un’ipotesi di spesa avrebbe complicato l’iter del progetto). La storia della tortura dimostra che chi subisce gli abusi perde fiducia nell’altro e nella società: la tortura è praticata proprio col fine dell’esclusione sociale e dell’annientamento, colpisce alcuni per impaurire tutti gli altri.

Lottare contro la tortura ha dunque come necessaria premessa la cura e il riscatto di chi la subisce, sapendo che la prima reazione del torturato è il silenzio, perché chi è vittima di un abuso ne prova vergogna, si sente umiliato e non compreso, spesso è anche impaurito. Ma la tortura non è un fatto privato: chi vi è sottoposto è suo malgrado simbolo e portavoce di tutti i cittadini. Se manca questo riconoscimento pubblico la tortura non può essere percepita e giudicata socialmente per quel che è. Lo vediamo bene nel nostro paese. In Parlamento si discute di tortura senza menzionare né Diaz né Bolzaneto e il non-dibattito in corso ha per protagonisti dirigenti e sindacalisti delle forze di polizia (18 di loro sono stati «auditi» alla Camera, su un totale di 24), per quanto il principale loro argomento sia del tutto risibile: una legge sulla tortura – dicono – esporrebbe gli agenti al pericolo di denunce e quindi li indurrebbe a non svolgere bene le loro normali funzioni, come arrestare o gestire l’ordine pubblico. Come se nei paesi che hanno una buona legge sulla tortura – in Europa quasi tutti – non si arrestasse o non si operasse in piazza durante cortei e altre manifestazioni.

Nell’incontro di Genova il senatore Lo Giudice ha riconosciuto le lacune del testo oggi in discussione precisando però che la legge dev’essere comunque approvata perché i rapporti di forza parlamentari non consentono niente di meglio. Gennaro Migliore, sottosegretario, si è spinto più in là, affermando che il varo della legge porterà una rivoluzione e difendendo – a mio avviso in modo non convincente – i punti più critici dell’attuale testo, ossia l’uso del plurale («violenze o minacce») rimasto dopo la cancellazione del vocabolo «reiterate» e la necessità che il trauma psichico inflitto sia «verificabile», con tutto ciò che simile dizione – una specialità italiana – comporta in termini di accertamenti psichiatrici e di evidenti rischi di fallacia della norma (possiamo immaginare che a parità di trattamenti inflitti a due persone, se vi fosse per qualsiasi ragione un solo trauma psichico verificato, avremmo un aguzzino processato per tortura e l’altro no…).

Riconosco che il lavoro parlamentare è ben altra cosa rispetto all’attivismo sociale e reputo le persone menzionate del tutto stimabili, e tuttavia devo dire – da cittadino e testimone di tortura – che siamo troppo distanti da un accettabile quadro di discussione e di intervento. Sappiamo tutti che una legge sulla tortura, anche la migliore, non garantirebbe l’estinzione degli abusi: la legge, per essere efficace e cambiare davvero lo stato delle cose, dovrebbe essere accompagnata da interventi legati a tutti gli snodi più delicati: l’incapacità delle forze dell’ordine di riconoscere i propri errori e di porvi rimedio; l’opacità delle condotte e l’avversione per la trasparenza; il mancato rispetto, da parte del nostro governo, degli adempimenti indicati nella sentenza di condanna della Corte di Strasburgo sul caso Diaz, come la rimozione dei condannati e l’obbligo di codici di riconoscimento sulle divise; l’urgenza di rivedere radicalmente i criteri di formazione e reclutamento (oggi si entra in polizia solo dopo il servizio volontario nelle forze armate). Tutti argomenti tabù.

Se c’è una cosa che credo di aver capito in questi quindici anni che ci separano dal G8 di Genova, è che una riforma democratica delle forze di polizia è una necessità per i cittadini. Per tutti i cittadini, inclusi i cittadini in divisa, oggi in balìa di una dirigenza e di una cultura professionale che non sembrano in linea – per usare un eufemismo – con i migliori standard democratici. Per queste ragioni dobbiamo tenere aperta la discussione, coinvolgere i cittadini comuni, cercare alleanze fra quelli in divisa, mostrare a tutti che quando parliamo di tortura e di polizia in realtà parliamo dei fondamenti della democrazia e della convivenza civile, non di questioni tecniche o di norme di settore.

Molti dicono che approvare una legge sulla tortura, per quanto imperfetta e quindi simile al testo oggi in discussione, sarebbe comunque un passo avanti, io mi sono invece persuaso che stiamo ormai parlando di una legge-feticcio, cercata e agognata magari per buone ragioni ma ormai inservibile, per quanto è farraginosa e minata da cattive intenzioni, allo scopo d’essere un presidio di democrazia e di protezione dei diritti fondamentali dei cittadini. A Genova si è visto che siamo in molti a pensarla così.

Se il Parlamento alla fine approverà quella legge si dirà che la riforma è fatta, che la pagina è voltata e che le forze di polizia italiane stanno cambiando, ma sarà un’illusione e dovremo invece lottare ancora per una vera riforma, per una vera prevenzione degli abusi di potere; a quel punto sarà ancora più difficile farlo. In verità non ci sono scorciatoie: il cambiamento al quale aspiriamo non può essere calato dall’alto, esito di un confronto dai toni surreali fra parlamentari da un lato e dirigenti e sindacalisti di polizia dall’altro; il cambiamento arriverà se i cittadini lo vorranno, se sapremo avviare la discussione che finora non c’è stata.

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