Per la pace marciare non basta

Perugia-Assisi. Le scadenze rituali sono tutt’altro che superflue. Ma l’impegno pacifista non è una scelta morale. Si costruisce attraverso scelte politiche

Quando viene convocata una marcia Perugia-Assisi raramente resisto al richiamo della foresta. Quest’anno, con la guerra dappertutto, più che mai. E perciò, nonostante la stampella, ci sono andata: per il convegno promosso dai sindacati, dall’Arci e qualche altra associazione il sabato, e, almeno per la partenza, al solito magnifico Frontone, del corteo coordinato da Flavio Lotti, la domenica mattina.

Io credo che le scadenze in qualche modo rituali non siano superflue, aiutano la memoria e questa serve. (Le donne, per esempio, hanno imparato a fare buon uso del vecchio 8 marzo).

Ho detto richiamo della foresta perché, come i più vecchiotti fra i lettori de il manifesto si ricorderanno, fummo in passato parte decisiva di quel movimento pacifista.

Un movimento che si sviluppò in Europa negli anni ’80 per protestare contro le nuove installazioni nucleari sui nostri territori e per reclamare «un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali».

Fu allora che riscoprimmo questa marcia ideata molto tempo prima da Capitini e la reinverammo assieme ai tantissimi del nord e del sud del nostro continente con i quali avevamo via via stretto legami profondi. E che assunsero le due città umbre come luogo simbolico e unificante di pellegrinaggio. Poi venne l’Iraq, e fummo 250.000.

Cosa è cambiato da allora?

Anche domenica i partecipanti sono stati tanti. A sfilare le scolaresche di più di 100 scuole che hanno risposto all’appello della Tavola della pace, molti gli immigrati recenti che hanno voluto unirsi al corteo. Numerosi anche i gonfaloni dei comuni. Presenti le associazioni promotrici, ovviamente.

Ma è un fatto, evidente nella marcia e ormai chiaro da anni nella dimensione quotidiana: il corpo militante delle organizzazioni sociali, dei partiti e dei movimenti che pure esistono sembrano non mobilitarsi più di tanto per la pace. È da tempo, oramai, che la lotta per la pace non morde come dovrebbe. La debolezza non è solo organizzativa, ma anche politica.

Anche qui a Perugia nelle parole d’ordine, negli striscioni, nei discorsi importanti che sono stati tenuti alla partenza, soprattutto dai prelati (per la prima volta ha preso la parola anche un cardinale), è prevalso, mi pare, soprattutto un discorso morale. Necessario e anzi prezioso. E però è risultata incerta l’indicazione di una proposta politica, del come rimuovere le cause delle emergenze con cui ci dobbiamo confrontare, così come una denuncia precisa delle responsabilità, antiche e recenti, di quello che accade.

Sottolineo questa debolezza non per sminuire il significato di questa Marcia, ma solo per ricordare che il nuovo pacifismo nato negli anni ’80 aveva invocato anch’esso il ripudio della guerra, ma aveva anche avuto l’ambizione di suggerire un’altra idea dell’Europa (fuori dai blocchi, dicevamo), un’altra politica estera, un modo diverso di affrontare i problemi internazionali, non più ricorrendo al medioevale metodo delle armi, ma alla comprensione delle ragioni dell’altro. I patti – dicevamo – si debbono fare con il nemico, non con l’amico. Per questo non possono essere patti militari. Purtroppo in questi anni è accaduto il contrario: la Nato si è ingigantita e ha preteso di rappresentare l’Europa.
A Perugia è stato detto forte l’essenziale: la condanna della tuttora massiccia esportazione da parte dell’Italia e dell’Europa di armi verso i paesi dove si aprono conflitti che grazie ad esse crescono paurosamente di livello; il No all’invio di eserciti e di bombardieri, ancorché chiamati «umanitari». Se l’Isis si è scatenato è dovuto anche a questo massiccio invio.

So bene che oggi è sempre più difficile individuare amici e nemici nel groviglio che si è determinato – basti pensare alla Siria (paese che non a caso non è stato mai evocato se non per parlare dei migranti che da lì provengono).

E però proprio in questo momento, in cui si riaffaccia il rischio di una spedizione militare in Libia, è urgente ripetere a voce alta che sebbene Gheddafi fosse un dittatore l’intervento militare occidentale in quel paese ha prodotto il peggio e guai a ripeterlo, quale che sia la scusa. E che sarebbe doverosa da parte di chi ha portato ai disastri dell’Afghanistan e dell’Iraq una autocritica pubblica, anche in parlamento.

La debolezza del nostro discorso (e dunque la scarsa mobilitazione che ne consegue) sta comunque nel fatto che è difficile oggi una risposta politica all’interrogativo: come aiutare i popoli vittime di guerre, di dittature, di fame?

È proprio questa che è emersa sopratutto nell’assai interessante convegno del sabato, durante il quale – oltreché per descrivere la loro condizione – hanno preso la parola anche per chiederci di aiutarli i rappresentanti dei sindacati indipendenti dell’Algeria, della Tunisia (il premio Nobel per la pace del 2015, Hassine Abassi), dell’Egitto e della Libia (quella di Bengasi), prima donna capo di un sindacato, una bella grinta e si capisce, visto il pezzo di paese da cui proviene e le condizioni incredibili in cui lì deve operare un/a sindacalista.

Chiara la risposta di quanto occorre fare sul piano economico: cambiare drasticamente le politiche economiche del nord che hanno distrutto le economie del sud.

E allora occorre però contestare il liberismo stesso, che ha ispirato tutti i Trattati Mediterranei (dall’Accordo di Barcellona in poi), fondati sulla liberalizzazione degli scambi che, quando i partner sono enormemente disuguali, accresce la disuguaglianza anziché ridurla.

L’Europa avrebbe dovuto invece avere il coraggio, e la lungimiranza, di proporre un compromesso fra nord e sud, analogo a quello che nel dopoguerra si stabilì fra movimento operaio e capitalismo e che, pur con tante ombre, ha però garantito diritti per gli uni e stabilità per l’altro. Fu, questa, la proposta avanzata almeno trent’anni fa da Samir Amin e da Giorgio Ruffolo; e cadde nel vuoto.

Meno evidente è cosa si possa fare su altri piani : aiuto alla società civile, per contribuire alla crescita di partecipazione politica, anche per rendere chiaro che un parlamento di per sé non garantisce democrazia? Sì, certo. Ma proprio per questo non bastano assistenza e carità, serve politica. Proprio quella che oggi sembra latitante.

Cosicché le generose iniziative che, a partire dai Forum sociali del Maghreb, si sono continuate ad assumere non sono riuscite a suscitare la collaborazione che avrebbero dovuto ottenere. Insomma: la pace è un bene primario, ma se oggi l’indifferenza cresce, è perché, anche su questo, c’è un vuoto di iniziativa politica. E perciò di impegno.

È, anche questo, un aspetto della crisi della democrazia che stiamo vivendo. Anche a casa nostra.

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