Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 17 Mar 2024 09:32:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Desaparecidos. Argentina e Cile, i figli dei crimini dimenticati delle dittature https://www.micciacorta.it/2024/03/desaparecidos-argentina-e-cile-i-figli-dei-crimini-dimenticati-delle-dittature/ https://www.micciacorta.it/2024/03/desaparecidos-argentina-e-cile-i-figli-dei-crimini-dimenticati-delle-dittature/#respond Sun, 17 Mar 2024 09:28:36 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26735 Nel Cile di Pinochet 25mila neonati vennero sottratti a famiglie povere e venduti in Europa tramite adozioni illegali. Oggi con l’intelligenza artificiale i familiari hanno dei volti da cercare

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Nel Cile di Pinochet 25mila neonati vennero sottratti a famiglie povere e venduti in Europa tramite adozioni illegali. Oggi con l’intelligenza artificiale i familiari hanno dei volti da cercare   Santiago del Cile. Quando scompare una persona, ai familiari resta solo un dolore indescrivibile. Si rimane paralizzati, in una dimensione di spazio e di tempo in cui tutto perde senso, in cui non si sa cosa sia successo a chi è scomparso, e si resta soli a chiedersi, ogni giorno, se sia ancora vivo o morto.
Se non si sa nulla per anni, i familiari si tormentano immaginando sempre come potrebbe essere cambiato, come potrebbe essere il suo viso oggi. Ma se della persona scomparsa i familiari non conoscessero nemmeno il volto o il nome? NEGLI ANNI ’70, durante la dittatura argentina e quella cilena, migliaia di persone sono state fatte scomparire: i desaparecidos. Chiunque si opponesse alla dittatura di Jorge Rafael Videla e a quella di Augusto Pinochet veniva sequestrato, ucciso, e fatto sparire per sempre. Ma non solo oppositori politici, in quegli anni in ci sono stati anche altri desaparecidos. Decine di migliaia di bambini, a volte figli di militanti, fatti scomparire sia in Cile che in Argentina. I militari di Videla in Argentina dal 1976 al 1983 hanno rapito 500 figli di desaparecidos e li hanno cresciuti in famiglie di soldati per estirpare da loro «i geni rivoluzionari», mentre in Cile dal 1950 – ma con un picco durante la dittatura di Pinochet – almeno 25mila bambini sono stati strappati a famiglie povere per essere dati in adozione (senza il consenso dei genitori) dall’altra parte del mondo. Le famiglie, che nella maggior parte dei casi non avevano mai visto il bambino, per più di quarant’anni si sono immaginate il volto del loro figlio scomparso. Oggi però, per la prima volta, migliaia di queste famiglie hanno trovato un nuovo alleato nella loro ricerca e, grazie all’intelligenza artificiale, hanno finalmente potuto dare un volto al loro familiare scomparso. SANTIAGO BARROS HA 47 ANNI, lavora come direttore artistico e lo scorso luglio ha deciso di fare un esperimento: ha provato a generare con l’intelligenza artificiale i volti dei nipoti ricercati dalle Abuelas de Plaza de Mayo. Per creare un viso gli bastano 5 minuti e, dopo diverse prove, inizia a condividerli su Instagram. L’account da lui creato, “IA Abuelas“, diventa in pochi giorni virale e la notizia viene ripresa dalle testate di tutto il mondo. «Non è uno strumento scientifico, ma può essere d’aiuto, un ottimo mezzo per la ricerca delle Nonne», spiega Barros che ha portato avanti il progetto in forma indipendente, senza una connessione diretta con le Abuelas, la storica associazione di nonne argentine che da oltre 40 anni ricerca i 500 bambini rapiti durante la dittatura. NEL CASO ARGENTINO i soldati avevano ideato un piano sistematico per rapire quei bambini, rubando loro l’identità e crescendoli poi in famiglie di militari o vicine alla dittatura. Lo scopo era farli diventare cittadini modello per la società che stavano creando, lontano da famiglie che li avrebbero cresciuti con «ideali rivoluzionari». Le nonne di quei bambini, che spesso sono stati fatti nascere dentro campi di sterminio, però non si sono mai arrese e finora ne hanno trovati ben 133. «Da quando ho lanciato il progetto – afferma Barros – mi hanno scritto moltissime persone. Molte ragazze mi hanno raccontato che la loro mamma o il loro papà hanno sempre avuto dubbi sulla propria identità e che, dopo aver visto i volti ricreati con l’intelligenza artificiale, hanno deciso di scoprire se sono figli di desaparecidos. Poi mi hanno contattato tanti familiari, emozionati di poter vedere per la prima volta quello che potrebbe essere il volto di chi stanno cercando». IN CILE INVECE IL CASO sulle adozioni illegali è scoppiato da pochi anni e continua a essere un tabù nella società del Paese sudamericano. I numeri sono impressionanti, almeno 25mila bambini, e le testimonianze delle madri sono drammatiche. La grandissima maggioranza erano donne povere, spesso analfabete, indigene e non sposate. Molte volte veniva detto loro che il bambino era nato morto e poi venivano cacciate dall’ospedale in modo molto violento e senza che venisse mostrato loro il corpo del neonato. In altri casi le madri, che non riuscivano a sfamare il proprio bambino, lo lasciavano in orfanotrofio o in case di cura concordando con i gestori che sarebbe stato solo per alcuni mesi, ma – da un giorno all’altro – il bimbo veniva fatto sparire. Altre volte invece erano i militari o i carabineros a intervenire sequestrando bambini da famiglie il cui unico delitto era quello di essere povere.
Così decine di migliaia di bimbi, dal 1950 in poi, sono stati dati in adozione dall’altra parte del mondo (soprattutto in Francia, Italia, Svezia e Danimarca), mentre in Cile la famiglia biologica li cercava disperatamente. Una tratta milionaria, in cui agenti dello Stato, gruppi di suore e preti e agenzie di adozioni private hanno guadagnato milioni di dollari sulla pelle di bambini e madri distrutte. DA ALCUNI ANNI LE MADRI CILENE si sono riunite nell’associazione Hijos y madres del silencio per ricercare i propri figli e in Cile è stata aperta un’inchiesta giudiziaria. Ancora oggi però del caso si sa ben poco. Per esempio non si è ancora riusciti a stabilire se il picco di bambini rapiti negli anni della dittatura di Pinochet sia dovuto a una chiara politica governativa voluta dal dittatore, magari per far uscire dal Paese migliaia di bambini poveri e indigeni che avrebbero pesato sulle casse dello Stato, o se sia dovuto al fatto che durante il regime fosse più facile corrompere militari e diplomatici per portare via bambini innocenti. Le madri però sono decise a ottenere giustizia e a ritrovare i loro figli scomparsi. E, da pochi giorni, hanno lanciato la loro prima campagna internazionale ideata con l’uso dell’intelligenza artificiale. «Con l’aiuto di un’agenzia pubblicitaria – spiega Sol Rodriguez, fondatrice di Hijos y madres del silencio – abbiamo ideato uno spot in cui, grazie all’intelligenza artificiale, abbiamo immaginato il volto di uno dei bambini che stiamo cercando». La campagna, uno spot per ritrovarli NEL VIDEO è proprio l’ex bambino scomparso a rivolgersi allo spettatore, prima con un volto da uomo e poi da donna (dato che la madre non ha potuto sapere il sesso del figlio al momento della nascita), e racconta che in Cile ci sono migliaia di donne che stanno cercando i loro bambini scomparsi che oggi potrebbero vivere in Europa e che potrebbero avere il suo aspetto. «È il primo lavoro che realizziamo grazie all’intelligenza artificiale – afferma Rodriguez – ma non credo che sarà l’ultimo. Abbiamo girato il video in varie lingue e speriamo che possa essere visto da centinaia e centinaia di persone in Europa e che ci aiuti a ritrovare le migliaia di figli scomparsi che ancora non hanno potuto riabbracciare le loro madri». * Fonte/autore: Elena Basso, il manifesto

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Classe Operaia. Il sapere delle lotte https://www.micciacorta.it/2024/02/classe-operaia-il-sapere-delle-lotte/ https://www.micciacorta.it/2024/02/classe-operaia-il-sapere-delle-lotte/#respond Thu, 29 Feb 2024 09:15:46 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26732 60 anni fa il primo numero di «Classe Operaia», uno dei laboratori dell’operaismo che anticipò molte delle attuali riflessioni sui lavoratori della conoscenza e l’annuncio dell’intelligenza artificiale

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60 anni fa il primo numero di «Classe Operaia», uno dei laboratori dell’operaismo che anticipò molte delle attuali riflessioni sui lavoratori della conoscenza e l’annuncio dell’intelligenza artificiale   Sono passati 60 anni. Porta la data «febbraio 1964» il primo numero di Classe Operaia, la rivista che ha dato la struttura definitiva a quel sistema di pensiero che avremmo chiamato «operaismo». Le basi però erano già state poste nei primi numeri dei Quaderni Rossi. Sebbene la figura di Raniero Panzieri sia stata centrale per la concezione e la raccolta di energie che hanno dato vita ai Quaderni Rossi, Mario Tronti, avendovi già esposto il nocciolo del suo pensiero, assumeva naturalmente il ruolo di maître à penser. Ma sia l’uno che l’altro traevano alimento da un consistente lavoro d’inchiesta a stretto contatto con le lotte operaie di tipo nuovo, che avevano preso piede dal 1960 in poi. Militanti di solida preparazione metodologica nella ricerca come Giovanni Mottura, Vittorio Rieser, Emilio Soave, Romano Alquati e via via tanti altri, univano una conoscenza dell’organizzazione del lavoro industriale a quella che divenne la specifica caratteristica dell’operaismo: la capacità d’individuare le dinamiche soggettive del conflitto. A «mettere la classe operaia al centro» – come si diceva allora – erano bravi in tanti, ma forse solo il punto di vista operaista ha saputo inserire in un sistema teorico la capacità di autodeterminazione delle donne e degli uomini soggetti al sistema socio-tecnico fordista, sottraendo la soggettività/spontaneità a una lettura puramente psico-sociale. NEL SETTEMBRE 1963 avviene la separazione dai Quaderni Rossi e nasce Classe Operaia: Toni Negri (t.n.), Mario Tronti (m.t.), Alberto Asor Rosa (a.a.r.), Romano Alquati (r.a.), il nostro gruppetto milanese/comasco, i fiorentini, i padovani, gli emiliani-romagnoli di Guido Bianchini, i genovesi. Dal numero 2 cominciano a essere riportati i nomi di coloro che di volta in volta hanno collaborato, ma solo dal n. 1 del secondo anno, 1965, appare una lista di nomi come componenti di una «redazione» permanente (Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Rita di Leo, Claudio Greppi, Gaspare De Caro, Toni Negri) sotto la direzione di Mario Tronti. Editore, la Marsilio di Padova, direttore responsabile Francesco Tolin. La testa a Roma (Tronti), le gambe a Padova (Toni Negri). In realtà Classe Operaia è stata molto di più e basta scorrere i numeri, con quella scrittura fitta, densa, con quei caratteri impossibili. E scopriamo allora che la parte largamente più cospicua è occupata dall’analisi delle lotte operaie. È lì che si manifesta – a mio avviso più ancora che negli scritti teorici – il segreto dell’operaismo, perché l’analisi delle lotte, quella che nei Quaderni Rossi era ancora classificata come «cronaca», diventa marxismo vivente e soprattutto punto di sutura tra lavoro di conoscenza e lavoro vivo, tra militanza e classe. COGLIENDO IL METODO di quelle analisi, salta subito agli occhi la banale superficialità del giudizio sprezzante con cui alcuni hanno voluto liquidare l’operaismo come «estetizzazione del conflitto sociale». Se c’è qualcosa di datato semmai nei discorsi di quella rivista è la pervasività di una cultura industriale, di una cultura manifatturiera, troppo ristretta alla produzione di merci e poco indagatrice dei processi di valorizzazione, tanto da far pensare che alla sua uscita, nel 1966, l’opera di Tronti Operai e capitale volesse già andare oltre, avesse la forza di guardare più in là. Con un ritorno ai testi di Marx, dopo che la rivista, dal famoso editoriale di Tronti «Lenin in Inghilerra» del n. 1 del 1964 a «Lenin e i soviet nella rivoluzione» di Negri sul n. 2 del 1965, si era concentrata soprattutto sul problema dell’organizzazione e del partito. Un ritorno a Marx che sarebbe stato ancora più illuminante l’anno successivo, quando esce la traduzione dei Grundrisse ad opera di Enzo Grillo. È l’anno, il 1967, in cui coloro che non hanno seguito Mario Tronti, Asor Rosa e Rita di Leo nel loro rientro nel Pci, coloro che hanno visto con amarezza la chiusura di Classe Operaia, mettono in circolazione il termine «operaio massa», cogliendo il senso di un processo che aveva modificato, lungo il decennio, la composizione di classe e riproponeva in termini nuovi il rapporto tra spontaneità e organizzazione, tra ceto intellettuale e lavoro vivo. Classe Operaia resterà come qualcosa di più che la testimonianza di una generazione che si è schierata senza mezzi termini da una parte sola. Avrà sempre qualcosa da dire (o da insegnare) a chi sa (o vuole) riconquistare la libertà dalla costrizione del lavoro. Si pensi, per fare un esempio, al «discorso sui tecnici», nato dall’interno delle prime realizzazioni dell’informatica in Italia, un discorso che ha anticipato di qualche decennio quello, che ancora ci sfida, sui «lavoratori della conoscenza» e sull’intelligenza artificiale. Si pensi alla dimensione internazionale, presente già nel numero 2. Si pensi a tutte le tematiche che riguardano una forza-lavoro ibrida, industriale ma con ancora un piede nel mondo contadino, le tematiche dell’agro-industria, dove maestro ci è stato Guido Bianchini, un nome che non compare mai sulla rivista, ma che è ricordato ancora oggi quale figura di primo piano in quel «Potere operaio veneto-emiliano» che era il gruppo con la più solida struttura nel progetto di Classe Operaia, mentre altrove erano singole personalità che facevano da tramite con situazioni operaie di enorme rilevanza. Come Genova, dove la presenza di Gianfranco Faina ha lasciato un segno che difficilmente si cancella. LA BASE LOGISTICA della rivista era Firenze, per la sua collocazione baricentrica rispetto a diverse realtà locali e questo spiega la presenza costante di Claudio Greppi sia nella realizzazione dei singoli numeri, sia nella «redazione» permanente, affiancato da personaggi indimenticabili come Luciano Arrighetti, operaio della Galileo, da Giovanni Francovich, prematuramente scomparso, da Lapo Berti, che sarà uno degli animatori di “Primo maggio” negli anni Settanta, da Mario Mariotti, l’autore delle geniali vignette, ed altri. Dopo la chiusura della rivista, nel 1968-69, gli operaisti dovettero subire l’urto del farsi realtà delle loro teorie, in misura superiore a ogni immaginazione: maggio francese, lotte alla Pirelli, lotte alla Fiat… fu un salto da una dimensione minoritaria a un movimento di massa, da conflitti latenti a guerre aperte. Un salto dal quale non è sempre facile uscirne bene. Ma questa è un’altra storia. * Fonte/autore: Sergio Fontegher Bologna, il manifesto  

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Germania. Dopo 35 anni catturata «Frau Claudia», già militante della RAF https://www.micciacorta.it/2024/02/germania-dopo-35-anni-catturata-frau-claudia-gia-militante-della-raf/ https://www.micciacorta.it/2024/02/germania-dopo-35-anni-catturata-frau-claudia-gia-militante-della-raf/#respond Wed, 28 Feb 2024 07:54:22 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26730 Arrestata Daniela Luise Klette, 65 anni, ex militante della Terza Generazione della Rote Armee Fraktion, ricercata per il passato nella lotta armata quanto per il presente da rapinatrice di portavalori per finanziarsi la fuga perenne, dopo più di 30 anni di latitanza

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Arrestata Daniela Luise Klette, 65 anni, ex militante della Terza Generazione della Rote Armee Fraktion, ricercata per il passato nella lotta armata quanto per il presente da rapinatrice di portavalori per finanziarsi la fuga perenne, dopo più di 30 anni di latitanza   BERLINO. Gli inquilini del condominio al civico 73 di Sebastianstrasse assediati dai cronisti, possono solo testimoniare che «Frau Claudia» portava a spasso il cane e parcheggiava la bicicletta nell’androne delle scale, come tutti.
Un’ex terrorista della Raf? «Così dice il telegiornale; prima notizia» taglia corto la dirimpettaia irritata dal supplemento di disturbo della quiete già profondamente minata dal via-vai di agenti della polizia scientifica.  I nastri bianchi e rossi usati per delimitare la zona del crimine si estendono lungo l’intero palazzo. D’ora in poi Sebastianstrasse non sarà più conosciuta soltanto per ospitare il famoso tunnel sotto al Muro scavato da chi scappava dalla Ddr.

Nell’angolo più popolare di Kreuzberg, il quartiere alternativo di Berlino, si chiudono oltre trent’anni anni di latitanza al limite dell’impossibile di Daniela Luise Klette, 65 anni, ex militante della Terza Generazione della Rote Armee Fraktion, ricercata per il passato nella lotta armata quanto per il presente da rapinatrice di portavalori per finanziarsi la fuga perenne.

La Kriminalpolizei di Berlino l’ha bloccata lunedì sera in pieno assetto da guerra: a bordo di un mezzo blindato insieme a un plotone di colleghi della Bassa Sassonia forti dei sei mandati di arresto firmati dalla procura di Hannover.

«La cattura di Klette è stata possibile grazie a 250 informazioni importanti, di cui cinque fondamentali e quella essenziale per l’arresto raccolta lo scorso novembre e poi messa a confronto con alcune impronte digitali» è la versione ufficiale degli investigatori.

Poche ore dopo l’arresto di Klette la polizia ha fatto sapere di avere fermato anche un uomo le cui sembianze «potrebbero» coincidere con l’identikit di uno degli altri due “pensionati della Raf” ricercati per le stesse rapine condotte prevalentemente a cavallo fra il 2016 e il 2016: Ernst-Volker Staub, 69 anni, e Burkhard Garweg, 55. «Assai presumibilmente il documento dell’arrestato è falso come quello intestato a Daniela Klette. Ci vorrà un po’ di tempo per verificare la sua reale identità» sottolinea la polizia a giustificazione dell’assenza di ogni certezza a riguardo.

A quanto pare Daniela si faceva chiamare Claudia e viveva più o meno stabilmente a Kreuzberg da almeno vent’anni. Quando è stata fermata dalla polizia aveva in tasca un passaporto italiano con non meglio precisate generalità. Non ha opposto alcuna resistenza.

Formalmente «Frau Claudia» si guadagnava da vivere come insegnante privata di matematica, come racconta il vicino con cui Klette manteneva i rapporti strettamente essenziali «anche se lo scorso dicembre ha bussato alla mia porta per regalarmi una scatola di biscotti natalizi».

Gli agenti mostrano invece i diversi proiettili sequestrati nell’appartamento di Klette come parte della caccia all’arsenale del gruppo che spazia dalle pistole ai fucili d’assalto fino all’arma anticarro usata per convincere l’autista di un portavalori a non confidare troppo nella corazza del suo mezzo.

A brandeggiare il bazooka, ricordano i testimoni del più spettacolare degli assalti dei “pensionati della Raf”, era proprio Daniela Klette la cui esperienza sul campo è incontestabile. Il suo Dna è stato trovato nell’auto utilizzata nel 1991 nella fuga dopo l’attacco all’ambasciata Usa di Bonn ma anche nella lettera confiscata alla militante Raf, Birgit Hogefeld, dopo l’operazione delle teste di cuoio tedesche a Bad Kleinen.

Figura di spicco della Terza Generazione della Raf, entrata in clandestinità nel 1989, Klette è stata politicamente attiva dal 1975 fino agli anni Novanta, anche se non c’è prova che rivestisse ruoli di comando nell’organizzazione dissolta ufficialmente con lo storico comunicato di rinuncia alla lotta armata del 20 aprile del 1998.

La sfilza di accuse contro Klette parte dal 1990 con la complicità nell’attentato con l’autobomba al centro tecnico di Deutsche Bank, continua nel 1993 con l’assalto alla prigione di Weiterstadt e prosegue con la sequenza rapine di autofinanziamento iniziate negli anni Novanta con lo svaligiamento di un milione di marchi da un portavalori a Dusiburg e portate avanti nel decennio successivo con bottini sempre più rilevanti: dai 100 mila euro rubati in un supermercato di Bochum fino all’incredibile attacco con il bazooka a un portavalori a Cremlingen fruttato ben 600 mila euro.

Finora l’unica foto pubblica di Daniela Klette risaliva agli anni Ottanta, nonostante l’aggiornamento artificiale della foto segnaletica nel 2016, mentre fino a ieri la taglia messa dalla polizia criminale era 150 mila euro per ogni utile informazione a rintracciarla, viva o morta.

* Fonte/autore: Sebastiano Canetta, il manifesto

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Mirafiori. Ricomincia il cammino dalla porta numero 2 https://www.micciacorta.it/2024/02/mirafiori-ricomincia-il-cammino-dalla-porta-numero-2/ https://www.micciacorta.it/2024/02/mirafiori-ricomincia-il-cammino-dalla-porta-numero-2/#respond Sun, 25 Feb 2024 08:12:39 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26728 Torino, Porta numero 2 di Mirafiori, carrozzerie. Nel piazzale è approdata una marcia con tante bandiere rosse che ha fatto il giro del pezzo più importante dell’ex Fiat

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Torino, Porta numero 2 di Mirafiori, carrozzerie. Nel piazzale è approdata una marcia con tante bandiere rosse che ha fatto il giro del pezzo più importante dell’ex Fiat TORINO. Torino, Porta numero 2 di Mirafiori, carrozzerie. Ho appena lasciato quel piazzale, dove è approdata una marcia con tante bandiere rosse che ha fatto il giro (5 km) del pezzo più importante dell’ex Fiat. L’ha promossa – la prima dopo 43 anni che qui non si erano più fatte manifestazioni – Sinistra italiana e infatti ci sono anche Fratoianni, Bonelli, Grimaldi, ma anche tanti vecchi operai, molti giovani e i delegati di tutti i settori, che a ogni tappa, a turno, hanno informato su cosa sia avvenuto della produzione di quella che un tempo era una delle fabbriche più grandi del mondo, molta già trasferita (la topolino in Marocco, la 600 in Polonia, un’altra parte già destinata alla Serbia) o in attesa di sapere dove.
Carlos Tavares, l’ad di Stellantis, è stato forse convocato in Italia per dare qualche notizia? No, naturalmente. Quanto a comunicarlo agli operai ancora occupati nemmeno a pensarci: sono merce, come sappiamo, non umani, e non è necessario che conoscano cosa succede. Non siamo forse una democrazia? Sì, per grazia di dio, ma le sue regole non operano entro i recinti della proprietà privata. Il corteo, accompagnato da una musica che alterna «Morti di Reggio Emilia» alle ultime di Sanremo – «Un ragazzo incontra una ragazza» molto ripetuta (e infatti non è niente male) – raggiunge l’ultima tappa dove l’ultimo discorso debbo farlo io, che qui, davanti a questa porta, ho passato tanti giorni della mia vita di 50 anni fa. Quando questo piazzale era una grande agorà permanente, il luogo di un confronto di massa, soprattutto i tanti studenti sessantottini, per i quali Torino era diventata la Mecca, la città simbolo di un’inedita grande offensiva che aveva come obiettivo non solo l’appoggio a una lotta, ma il cambiamento del mondo. Venivano, venivamo anche noi non più studenti ma alle prese con l’avvio dell’avventura del manifesto, che in questo luogo simbolico del nuovo scontro di classe aveva deciso di mettere le proprie radici. Venivamo per aiutare gli operai a prendere parola, per costruire un’alleanza contro chi pensava che la modernità fosse tutto e non capiva che, nell’orizzonte del capitalismo, sarebbe diventata solo il peggio. Tutti in realtà venivamo innanzitutto per imparare. Sono emozionata. Vorrei trasmettere quello che sento a chi oggi mi sta difronte. Il mio non è amarcord, come è stato tutte le volte che in questi anni sono venuta qui in solitudine, l’ultima, ricordo, con Daniele Segre, l’amico regista appena scomparso che su quel che qui succedeva ha fatto i più bei film: lo spiazzo sempre deserto, solo qualche ex operaio desolato che porta qui il cane a passeggio. Oggi è diverso: ci sono le bandiere rosse, i ragazzi, i nuovi delegati. Mi viene voglia di raccontare come accadde che gli operai della Fiat si inventarono e riuscirono a fare i Consigli di fabbrica, coinvolgendo un sindacato all’inizio diffidente. Ricordo bene il primo: fu sulla scala davanti a una nota ballera non lontana dalla porta n. 2, in poco tempo furono tanti e con loro l’esercizio e l’orientamento dell’azione direttamente nelle loro mani, il sindacato aiuto prezioso ma non più solo arbitro del che fare. Un fare che diventa via via gestione diretta, non solo delega a trattare: il salto della scocca, per rallentare i tempi della catena di montaggio; gli aumenti uguali per tutti, non fantasia egualitaria ma mezzo per togliere il potere di ricatto ai capireparto. E poi la scoperta del fuori delle mura dove si consuma la vita degli operai e perciò i consigli di zona, Medicina Democratica, le 150 ore. Furono anticipazioni di quanto oggi sarebbe urgente ritentare. Proprio le 150 ore, lo studio, almeno un pezzetto, alternato al lavoro: se oggi non riprendiamo quel percorso cosa accadrà delle competenze acquisite a tutti i livelli, anche quello delle lauree, destinate a diventare obsolete in pochi anni per via del ritmo del progresso tecnologico, che oggi impone di ripensare subito alla necessità di un’istruzione che continui anche quando già si lavora, lungo l’arco di tutta la vita, se non si vuole che in futuro tutto il potere sia a disposizione di una minoranza di superspecializzati e una massa destinata a diventare i loro servitori. «4 ore di studio, 4 ore di lavoro» fu la proposta del manifesto all’epoca. Perché abbiamo lasciato perdere? E i consigli di zona, perché non andare a rivedere quell’esperienza per tanti versi simile al «sindacato di Strada» oggi lanciato da Landini e che però stenta a realizzarsi? Non è per tornare al passato, lo dico perché ho l’impressione che quella esperienza sia stata rimossa non perché invecchiata ma perché guardava troppo lontano. Se oggi vogliamo che la transizione verso un modello sostenibile non sia solo bugia occorre tornare a guardare lontano, perché solo pensando a un cambiamento radicale potremmo usare le nuove tecnologie e le indicazioni che ci vengono dalla minaccia ecologica in occasioni che ci impongono una grande trasformazione che è però anche quella ormai indispensabile per farci vivere più felici e meno oppressi. Anziché com’è ora, angosciati per i guai che, lasciate a sé stesse, le innovazioni possono produrre. Dalla mia visita a porta 2 di Mirafiori, grazie alla marcia Clima-Lavoro, sono tornata ottimista. Ce la possiamo fare. La nostra controparte non è vero che sta vincendo, diventa più cattiva perché il suo modello di sistema non funziona più. Diventa più violenta perché non trova più i margini per una qualche mediazione. Oggi mi sembra che si sia inferta qualche ferita al vero nemico del nostro tempo attuale, la famosa Tina («there is no alternative») cioè «Non c’è alternativa». Nemico più pericoloso della povera Meloni, fiera di appartenere alla schiera cui piace esser definiti «conservatori». Ma cosa diavolo vuole conservare? Carlos Tavares? * Fonte/autore: Luciana Castellina, il manifesto

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Mondo alla rovescia. Europa, Antifa trattati da terroristi e perseguitati https://www.micciacorta.it/2024/02/mondo-alla-rovescia-europa-antifa-trattati-da-terroristi-e-perseguitati/ https://www.micciacorta.it/2024/02/mondo-alla-rovescia-europa-antifa-trattati-da-terroristi-e-perseguitati/#respond Sun, 11 Feb 2024 08:35:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26724 L’Europol ridimensiona il fenomeno, ma le destre vogliono più repressione. Condanne in Germania, polemiche in Francia. Al parlamento Ue tante proposte contro i movimenti

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L’Europol ridimensiona il fenomeno, ma le destre vogliono più repressione. Condanne in Germania, polemiche in Francia. Al parlamento Ue tante proposte contro i movimenti   Il primo a dirlo fu Donald Trump: «Antifa è un movimento terrorista». Era il giugno del 2020 e negli Stati Uniti la tensione era alle stelle per l’uccisione di George Floyd da parte della polizia, a Minneapolis. Ma chi erano questi Antifa? I collettivi antifascisti, per farla breve, i singoli e i gruppi, spesso destrutturati ai limiti della disorganizzazione, che partecipavano alle manifestazioni di Black Lives Matter. In Europa i collettivi cosiddetti Antifa esistono da oltre un secolo, ma solo negli ultimi anni hanno cominciato a guadagnare considerazione nel dibattito pubblico, soprattutto in virtù della campagna portata avanti da tanti partiti di destra del continente, pronti a recepire e rilanciare l’idea che Trump aveva lanciato su Twitter: inserire i movimenti antifascisti nell’elenco delle organizzazioni terroriste al pari dell’Ira, dell’Eta, delle Nuove Br e di decine di altre sigle. Ci sono varie proposte di questo tipo che giacciono al parlamento europeo. L’ultima è del marzo 2023 e ha come primo firmatario Bernhard Zimniok di Alternative für Deutschland. «Antifa continua a commettere violenze in Europa e negli Stati Uniti – si legge nella proposta di risoluzione -, sopprimendo la libertà di pensiero e di espressione in Europa». Poi un’accusa: «Alcuni Antifa sarebbero stati addestrati da altri gruppi terroristici in Siria». E infine un passaggio sulle «ultime aggressioni con intenti omicidi» avvenute a Budapest nel febbraio precedente. Si tratta delle azioni per cui Ilaria Salis è ancora adesso sotto processo in Ungheria. A scorrere l’ultimo rapporto dell’Europol sul terrorismo nell’Unione Europea, però, al capitolo dedicato alle formazioni più o meno a torto definite «di sinistra», la parola «Antifa» compare una volta sola e si segnala un «campo di addestramento» fatto in Austria (non in Siria) nel 2022. Gli investigatori europei, inoltre, non arrivano mai a parlare di terrorismo, ma al massimo di «movimenti estremisti». IN GERMANIA, però, negli ultimi anni la lotta contro i movimenti di sinistra si è fatta dura. Non sono pochi i procuratori che proclamano la «tolleranza zero» per l’antifascismo militante, definito come un «attacco al sistema democratico». Un vero e proprio teorema: gli investigatori sono convinti dell’esistenza di autentiche «organizzazioni criminali» che attaccano gli oppositori politici di estrema destra. Questo nonostante i dati del ministero dell’Interno di Berlino: i reati attribuiti agli attivisti di sinistra sono calati del 31% tra il 2022 e il 2023, mentre, al contrario, quelli dei neonazisti sono cresciuti del 16%. Lo scorso giugno, a Dresda, è finito il processo contro Lina Engel, ritenuta capa degli Antifa tedeschi responsabili di almeno cinque attacchi contro estremisti di destra avvenuti tra il 2018 e il 2020 in Sassonia e Turingia. È qui che i giornali hanno coniato il nome con cui adesso l’organizzazione viene identificata: Hammerbande, banda del martello. Arrestata il 5 novembre del 2020, alla fine Engel è stata condannata a 5 anni e 3 mesi, ed è uscita subito dal carcere in attesa del giudizio d’appello. Il giudice Hans Schlüter-Staats, nel leggere la sentenza, ha tra le altre cose sottolineato che le indagini contro i neonazisti sono troppo spesso segnate da «deplorevoli carenze». Altri Antifa, attualmente, sono ricercati dalla polizia tedesca. E non solo: sulle loro tracce ci sono anche gli estremisti di destra di tutta l’Europa, che nelle chat si scambiano foto segnaletiche, indirizzi e numeri di telefono dei loro nemici. IN FRANCIA, nell’ultimo anno, si è spesso discusso (sempre su proposta delle destre) di sciogliere Jeune Garde, collettivo nato a Lione nel 2018 e fino a qualche tempo fa guidato da Raphaël Arnault, peraltro candidato con la Nupes di Jean-Luc Mélenchon alle legislative del 2022 (senza essere eletto). L’accusa, per quelli di Jeune Garde è di non limitarsi a organizzare conferenze e tavole rotonde sull’estrema destra francese, ma anche di schedarne i militanti, inseguirli per le strade, aggredirli e creare in questo modo «un clima di paura» (parole di Eric Ciotti, presidente dei Repubblicani). Per ora, ad ogni modo, la giustizia francese non ha mai preso iniziative contro il movimento, limitandosi a perseguire i singoli militanti. Proposte di inserire gli Antifa negli elenchi delle organizzazioni terroristiche sono anche in discussione al parlamento austriaco e al consiglio federale svizzero, sempre ad opera dei partiti di estrema destra, talvolta anche con l’appoggio delle formazioni più moderate. IN ITALIA si segnala un processo ai limiti del paradossale subito da alcuni militanti antifascisti di Pavia per una manifestazione non autorizzata del 2016, quando l’estrema destra sfilò per le strade nell’anniversario del missino Emanuele Zilli morto negli Anni 70 e decine di persone scesero in strada per impedire che il corteo arrivasse in centro. Caricati dalla polizia, manganellati e infine denunciati, in 23 hanno affrontato un processo durato 7 anni e finito soltanto nel dicembre del 2023 con tutte assoluzioni, alcune nel merito e altre per avvenuta prescrizione * Fonte/autore: Mario Di Vito, il manifesto ph by Albertomos, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Le foibe e il vittimismo che cancella le responsabilità del fascismo https://www.micciacorta.it/2024/02/le-foibe-e-il-vittimismo-che-cancella-le-responsabilita-del-fascismo/ https://www.micciacorta.it/2024/02/le-foibe-e-il-vittimismo-che-cancella-le-responsabilita-del-fascismo/#respond Sat, 10 Feb 2024 08:31:33 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26722 Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia

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Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia   Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia. Il 24 gennaio 1944, in piena occupazione nazista, due antifascisti condannati a morte evasero dal carcere di Regina Coeli grazie ad una straordinaria operazione della Resistenza socialista. Erano Alessandro Pertini e Giuseppe Saragat e sarebbero divenuti entrambi presidenti della Repubblica, incarnando la catarsi antifascista dell’Italia dopo gli anni del regime. Dal Quirinale, nel nome della comune esperienza partigiana, i due costruirono un rapporto di amicizia e rispetto con Josip Broz Tito, a sua volta comandante della Resistenza jugoslava, l’unica in Europa a liberare da sola il proprio Paese dall’occupazione nazifascista. In ragione della necessità di instaurare buoni rapporti tra i due Stati (dopo l’aggressione fascista ed i crimini di guerra perpetrati dal regio esercito italiano nei Balcani) e della strategica collocazione geopolitica tra i «non allineati» di Belgrado nel quadro della Guerra Fredda, Tito venne insignito da Saragat della Gran Croce al Merito della Repubblica italiana il 2 ottobre 1969. L’avversione dell’estrema destra fu assai vivace e culminò con i due attentati dinamitardi contro la scuola slovena di Trieste e al cippo confinario a Gorizia in occasione del viaggio di Stato di Saragat a Belgrado del 2-6 ottobre 1969. A compierli fu la cellula veneta del gruppo Ordine Nuovo, la stessa che il 12 dicembre successivo realizzò la strage di Piazza Fontana. Nei luoghi dove vennero rinvenute le bombe i neofascisti lasciarono dei volantini firmati da un sedicente Fronte anti-slavo che recitavano «no al viaggio di Saragat in Jugoslavia» e «no alle foibe». Oggi è il partito Fratelli d’Italia a rivendicare l’intenzione di revocare il riconoscimento a Tito disconoscendo l’operato del primo Presidente partigiano. La politica di amicizia italo-jugoslava proseguì e, ancora dal Quirinale, fu Alessandro Pertini ad incontrare Tito nell’ottobre 1979 e poi a recarsi in visita ufficiale per i suoi funerali l’anno seguente. Una presenza che scatenò, di nuovo, la reazione scomposta dell’estrema destra la cui eco è risuonata qualche tempo fa attraverso un falso propalato da stampa e social-media che rappresentarono la foto del Pertini affranto ai funerali di Enrico Berlinguer, piegato sulla bara del segretario del Pci, spacciandola per un omaggio al capo di Stato jugoslavo nel giorno delle sue esequie. Già rivelato dalla scelta del 10 febbraio come data celebrativa (anniversario del Trattato di Pace di Parigi del 1947), in Italia l’uso strumentale della storia praticato dalla destra nel giorno del ricordo (che dovrebbe rievocare le violenze delle foibe insieme alla «più complessa vicenda del confine orientale») finisce per richiamare non solo il passato remoto del fascismo storico, con il suo corollario di crimini di guerra in Jugoslavia rimasti impuniti in ragione della realpolitik della Guerra Fredda anticomunista, ma anche il passato prossimo dell’Italia repubblicana che mantenne nel suo seno un’estrema destra sempre ostile alla Costituzione ed alla sua radice fondativa: la Resistenza. Dopo aver attraversato la catarsi antifascista negli anni di Saragat e Pertini oggi assistiamo, per mano degli eredi del Msi, ad una rivalsa che disconosce ciò che dal vertice della Repubblica i due presidenti partigiani avevano costruito. Così l’annunciato museo delle foibe assume le sembianze dell’ennesimo tentativo di riscrittura del passato finalizzata al governo del presente, che trasforma il tempo in cui l’Italia è stata aggressore in un ricordo vittimistico che cancella responsabilità ed eredità del regime fascista. Un passo che allinea sempre più la nostra contemporaneità al disarmo culturale volto a spogliare la Repubblica del suo vestito antifascista e a relegare la discussione pubblica sulla riemersione odierna delle peggiori istanze regressive (largamente presenti nel corpo della società) a un vacuo dibattito sull’applicazione della misura giudiziario/penale della sanzione al neofascismo. Un approccio che, in tempi di crisi della democrazia, disperde e cancella dalla sfera pubblica quel patrimonio di analisi politico-culturale che permise di individuare le ragioni storiche alla base (in Italia prima di ogni altro luogo) della nascita, dello sviluppo e dell’ascesa di un regime reazionario di massa. Una lettura dei caratteri di fondo di quel fenomeno che fu il lascito di figure come Piero Gobetti («il fascismo come autobiografia della nazione»), Antonio Gramsci («il sovversivismo delle classi dirigenti») e Aldo Moro («la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia»). Eredità storiche, queste sì, da ricordare * Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

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Scritture operaie ritrovate e mai pacificate. Un’antologia https://www.micciacorta.it/2024/02/scritture-operaie-ritrovate-e-mai-pacificate-unantologia/ https://www.micciacorta.it/2024/02/scritture-operaie-ritrovate-e-mai-pacificate-unantologia/#respond Wed, 07 Feb 2024 12:02:21 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26718 «L’esperienza genovese 1970-2020» in un volume per Archimovi, l'archivio dei movimenti di Genova

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«L’esperienza genovese 1970-2020» in un volume per Archimovi, l'archivio dei movimenti di Genova   Scriveva qualche tempo fa Judith Schalanski che la storia dovrebbe essere raccontata partendo dai margini, dalle interruzioni nella tradizione, lo spazio bianco nei libri di storia. Perché «nella realtà dei fatti, ciò che è al margine è il centro del mondo». LA GRANDE RIVOLTA SOCIALE e politica per la dignità di chi lavorava nelle fabbriche e per un altro mondo tutt’altro che impossibile, come faceva credere chi manovrava le leve del potere è, oggi, un paradigma pressoché perfetto di quanto segnalato della grande scrittrice. Un’altra storia è possibile, lo spazio bianco si infittisce di segni d’inchiostro, il margine ridiventa centro coerente e comprensibile se a impugnare la penna sono i protagonisti stessi di quella rivolta degli anni ’60 e ’70 del Novecento che inventò le «parole per dirlo». La scrittura operaia. Non di chi scriveva «sugli» operai, magari con volponiana pertinenza di tratto e disamina asciutta. Scrittura operaia binariamente declinata su due assunti che oggi ci rivendono, nella deriva reazionaria che ci asfissia, come pericolosi slogan estremisti: liberare il lavoro, in un caso, liberarsi dal lavoro, nel secondo. A volte con una mediazione cercata e trovata tra le due condizioni. L’archivio dei movimenti di Genova, Archimovi, da diversi anni tiene accesa la luce dell’interesse per quel margine del mondo che voleva farsi mondo intero, l’onda di rivolta e di lotte di vent’anni cruciali del secondo dopoguerra. Dopo diverse pubblicazioni dedicate, tra l’altro, agli aspetti iconografici dei movimenti, alla fotografia militante, al G8, mostre, incontri, filmati, seminari, Archimovi adesso pubblica Scritture operaie / L’esperienza genovese 1970-2020 (pp. 308, euro 30). Focus sugli scrittori operai nella Genova delle grandi fabbriche che furono: Pippo Carrubba, Francesco Currà, Vincenzo Guerrazzi, Giuliano Naria. Esperienze che travalicano anche la pura scrittura, perché (ed è ben documentato nella sezione fotografica) gli operai scrittori spesso sapevano anche impugnare i pennelli, e la musica filtrava in testa anche nelle officine assediate dal rumore. LA SCRITTURA OPERAIA, però, che condusse perfino alla fondazione di una casa editrice di scritture operaie, la Ciminiera di Guerrazzi, è nucleo forte e a tutt’oggi proficuamente disturbante: eccessiva, franta espressionisticamente di necessità come il caotico rumore delle macchine in fabbrica, desiderante, sapientemente volgare e contropelo rispetto alle «buone maniere» letterarie e ai codici garbati, perfino quelli delle avanguardie. È una scrittura «intona-rumori» nei fatti, e fanno rumore anche le coscienze offese, altro che l’estetizzazione futuristica di un macchinismo tutto mentale, mai sperimentato sulla carne alla catena di montaggio. Tant’è che uno di questi scrittori operai, Francesco Currà, osò addirittura incidere un disco, Rapsodia Meccanica, usando come base strumentale la disarmonica, aggressiva sinfonia dei rumori delle macchine di fabbrica. Circa metà libro è un’antologia di testi operai degli autori citati difficili da reperire, la parte storica, con efficace contestualizzazione del «caso genovese» nelle scritture operaie di tutto il Vecchio continente, è curata collettaneamente da Giuliano Galletta, Marco Codebò, Giorgio Moroni, Marino Fermo, Ignazio Pizzo, Rosella Simone, Antonio Gibelli, Claudio Gambaro, Stefano Bigazzi, Giovanna Lo Monaco, Sandro Ricaldone, Augusta Molinari, Liliana Lanzardo. SFORZO COLLETTIVO che potrà riaccendere uno sguardo sul presente, riascoltando chi riuscì a trovare le parole per dirlo in un’altra epoca: il mondo non è cambiato in meglio, per gli operai. * Fonte/autore: Guido Festinese, il manifesto

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Franca Caffa e il senso della lotta https://www.micciacorta.it/2024/01/franca-caffa-e-il-senso-della-lotta/ https://www.micciacorta.it/2024/01/franca-caffa-e-il-senso-della-lotta/#respond Wed, 31 Jan 2024 09:37:49 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26715 «Mattarella non mi rappresenta», le ha detto il carabiniere a Milano. Franca, una vita da militante fin dal 1949: «La cosa positiva è che così almeno parliamo dei diritti dei palestinesi»

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«Mattarella non mi rappresenta», le ha detto il carabiniere a Milano. Franca, una vita da militante fin dal 1949: «La cosa positiva è che così almeno parliamo dei diritti dei palestinesi»   «In questi giorni mi state cercando tutti voi giornalisti, poi quando finirà questa buriana non mi chiamerete più. E invece io ho tante altre battaglie da portare avanti». Un esordio in pieno stile Franca Caffa, almeno per chi la conosce da anni e sa la tenacia della persona. È stanca del can-can mediatico che l’ha coinvolta, ma allo stesso tempo vuole dire la sua. A partire proprio dall’episodio di sabato scorso alla manifestazione pro Palestina a Milano, e del suo dialogo col carabiniere immortalato poi dai video che lo hanno reso virale. Partiamo da lì. Cosa è successo? Sono andata proprio perché è stato chiesto di rinviarla, come se la coincidenza della manifestazione per i palestinesi e per la pace non potesse coincidere con il giorno della memoria. Se vogliamo ricordare è proprio il caso di prendere quanto più possiamo posizione per i diritti dei palestinesi contro le sciagurate e maledette politiche di Netanyahu. Questo è un modo per celebrare la giornata della memoria. Allora io ho deciso di andare, a passetti col mio bastone, e ho raggiunto la linea dello schieramento dei carabinieri in tenuta antisommossa con gli elmi e con i manganelli pronti. Mi sono detta, io voglio esprimere la richiesta di pace di tanti. Ho fatto una carezza sul volto di un carabiniere, che ha sorriso vedendo i miei capelli bianchi, e poi ho iniziato a parlare con loro, per aprire un dialogo, ragionare con loro. A quel punto ho richiamato le parole del presidente della repubblica quando ha detto che dopo aver tanto sofferto persecuzioni gli israeliani non possono rifiutare di riconoscere ai palestinesi il loro diritto ad avere uno stato. A quel punto uno di loro mi ha detto: «Io non l’ho votato, io non lo riconosco». Come hai reagito? Sono rimasta stupita, poi ho saputo che è stato anche trasferito per le sue parole perché costituirebbero offesa nei confronti di Mattarella. Penso che quel carabiniere fosse convinto che fosse un dialogo tra me e lui. Spero che ciò che ha voluto esprimere fosse una critica al presidente della repubblica senza mancare di rispetto. Spero che non si tratti invece di una concezione reazionaria e fascista che voleva esprimere. Se è la prima ipotesi quella corretta, mi auguro che il presidente Mattarella voglia fare un gesto di benevolenza nei suoi confronti e che venga reintegrato nel suo incarico. Alla fine da questa vicenda una cosa positiva c’è: in tanti stanno parlando delle nostre ragioni, quelle del rispetto dei diritti del popolo palestinese. Da decenni lotti per i diritti. Che siano dei palestinesi così come dei lavoratori sfruttati. Com’è nata la tua passione? Avevo 20 anni a Genova, era il 1949, mi sono iscritta alla Cgil quando ho iniziato a lavorare, dopo il liceo. Avrei voluto continuare a studiare, volevo fare medicina, ma la mia famiglia non aveva soldi. Nella primavera del 1951 mi sono iscritta al Partito comunista. Allora il Pci aveva due milioni di iscritti, dagli stabilimenti del Ponente uscivano gli operai come fiumi. Era una classe operaia cosciente e organizzata. Poi c’erano i contadini dell’entroterra che protestavano e il Pci li aveva affiancati perché si organizzassero in cooperativa. Quando vinsero le loro battaglie, dopo una manifestazione, vennero a Genova con delle vacche e si fermarono davanti alla Camera del lavoro. E sai chi parlò da un palco, che poi era semplicemente una scaletta di pochi gradini? Io. E sai perché? Perché ero l’unica che sapeva parlare in genovese! Comunque in quel tempo il Partito comunista istruiva i sui iscritti, li faceva crescere culturalmente, li rendeva coscienti dei loro diritti. Aveva cura che il rapporto tra noi comunisti e questa base popolare fosse costante. Ci organizzavamo in gruppi per andare ad ascoltare i lavoratori e per farci ascoltare. Cosa che adesso la sinistra non fa più? Questo è il problema della sinistra. Che non parla più con chi dovrebbe rappresentare. Quando sei arrivata a Milano? A Milano ci sono arrivata dopo un soggiorno in Francia dove ero andata perché licenziata per rappresaglia politica. Io e migliaia di compagni siamo stati licenziati ai tempi della legge truffa. Ero stata licenziata e mi chiedevo: adesso chi mi assume? Per un periodo non ho saputo come avrei passato la mia vecchiaia. Io sono stata licenziata per assenza arbitraria. Alle 10 del mattino mi è stata consegnata una lettera di ammonizione, a mezzogiorno la lettera di licenziamento. Le mie assenze arbitrarie erano partecipazione a scioperi generali indetti dalla Camera del lavoro di Genova. Dopo la parentesi francese, a Milano sono arrivata ai tempi della guerra in Vietnam. Ho ripreso la lotta, spesso ci fermavano e ci portavano in questura, dove ci interrogavano. Non firmavo mai il verbale ma poi ci lasciavano liberi. Tranne una volta quando invece hanno deciso di trasformare il fermo di polizia in arresto e così ho fatto l’esperienza di straordinario interesse di 13 giorni in carcere a San Vittore. Grazie a un’amnistia sono uscita. Tu hai legato la tua vita a Milano alla lotta per il diritto alla casa. Ce lo spieghi? Ancora una volta è stato a seguito di un’esperienza personale. Sono stata sfrattata e mi è stato dato in assegnazione un alloggio, totalmente inadeguato alla mia famiglia, nelle case popolari del quartiere Calvairate. Un appartamento in condizioni disperanti di degrado e abbandono. E allora ho dato la risposta a queste politiche ingiuste e indegne: ho costituito il comitato inquilini delle 3 mila case Molise-Calvairate-Ponti. Sottolineo che il nome era al maschile, ma eravamo più che altro donne. È importante che in casi come questo la direzione fosse in mano alle donne, con inquiline che conoscevano le condizioni in cui erano costrette a vivere insieme ai loro figli. Oggi a Milano il tema della casa è centrale. Cosa ne pensi? Penso che noi della sinistra siamo in una fase di sconfitta generale, che viene da lontano. Viene da un processo che da oltre 50 anni ci impoverisce di fronte a diritti che avevamo conquistato. Altro che conquistarne altri! Dobbiamo tornare alle radici. Non possiamo dimenticarci che i diritti di tutti e tutte sono a rischio. Altrimenti non cambieremo mai la situazione, che ha trasformato la mentalità delle masse popolari in quella dei sudditi. E non dobbiamo piegarci a una pseudo sinistra che invece porta avanti interessi altri. Un’ultima domanda. Provocatoria. Chi te lo fa fare alla tua età (a settembre compirà 95 anni) di continuare a lottare? Ma questa è una domanda priva di senso! Sto bene anche se con energie diminuite. La tendenza mia sarebbe stare in casa, uscire richiede sforzo e impegno. Per certi aspetti però posso dire che sto meglio, perché la tendenza a riflettere e a pensare, a cercare chiarezza nei pensieri e nel cuore, mano a mano che vai avanti si affina. Sono mortificata per il fatto che lasciamo ai giovani una situazione tanto difficile. Il fatto che non abbiamo saputo resistere all’ondata che come proletari ci ha ricacciato indietro. E quindi trovo un senso al mio vivere nel cercare di conoscere, di capire, e di lottare. Dovremo svegliarci! * Fonte/autore: Alessandro Braga, il manifesto

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La discussione su Toni Negri, il manifesto, gli anni Settanta https://www.micciacorta.it/2024/01/la-discussione-su-toni-negri-il-manifesto-gli-anni-settanta/ https://www.micciacorta.it/2024/01/la-discussione-su-toni-negri-il-manifesto-gli-anni-settanta/#respond Sun, 14 Jan 2024 08:47:42 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26711 Dopo le critiche sul modo in cui abbiamo trattato la figura del filosofo-militante in occasione della sua scomparsa, in un'assemblea si sono ritrovate le voci e le generazioni di questo giornale

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Pannella

Dopo le critiche sul modo in cui abbiamo trattato la figura del filosofo-militante in occasione della sua scomparsa, in un'assemblea si sono ritrovate le voci e le generazioni di questo giornale   Viviamo in tempi di flame rabbiosi e istantanei sui social e bolle che balcanizzano le discussioni e rendono molto difficile il dialogo. E allora, quando sono emerse alcune divergenze con alcuni compagni e compagne storiche del manifesto a proposito del giornale dello scorso 17 dicembre dedicato alla scomparsa di Toni Negri, abbiamo scelto una strada in ostinata controtendenza: convocare un’assemblea. Per discutere, scambiarsi informazioni e punti di vista, mettere in comune esperienze. Quest’incontro è avvenuto lo scorso 11 gennaio, nella nostra redazione di via Bargoni. Nella stanza dei caporedattori si sono strette una accanto all’altra le diverse generazioni del manifesto. «Questa direzione ha il compito di non sfuggire alle polemiche. Dunque, anche le critiche dure sono un indice di vitalità», è la premessa di Andrea Fabozzi. Assieme a lui, ha dato il benvenuto anche Massimo Franchi, a nome del Cda. E c’era anche Tommaso Di Francesco, che era assieme a Luciana Castellina quando, nel 1969, il gruppo del manifesto venne radiato dal Pci. APRE IL DIALOGO a più voci quest’ultima, una delle promotrici della lettera che ha dato il via alla discussione.
LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Il manifesto e Potere operaio: un confronto che faremo Precisa subito che il dissenso su come abbiamo scelto di raccontare la figura di Negri «non è generazionale». «La commemorazione di Toni Negri è apparsa così forte da apparire come identità del giornale – è la preoccupazione di Luciana – Per questo sentiamo il bisogno di momenti di collegamento che ci riportino a posizioni più comuni». Tocca a Famiano Crucianelli esplicitare ulteriormente. Con un avvertimento: nessuno ha l’intenzione di ristabilire qualche ortodossia o omogeneizzare la «ricchezza della pluralità», la biodiversità propria delle culture politiche che attraversano il giornale. «Già il gruppo originario del manifesto aveva una sua pluralità interna – precisa Famiano – Non era un gruppo bolscevico, c’era una dialettica fortissima. Non a caso ci sono state discussioni e rotture negli anni: ma ciò non ha mai rappresentato la desertificazione di una storia comune». Poi ricorda le posizioni dei deputati del Pdup in occasione degli arresti del 7 aprile: «Votammo contro leggi emergenza e contro l’arresto di Negri. Girammo le carceri speciali per avere un dialogo con quei compagni. Demmo una mano a tirar fuori dal carcere anche Oreste Scalzone, afflitto da problemi di salute». Ma l’impressione di Famiano è che «per il ricordo di Negri si sia avvertita una semplificazione che rappresenta un torto a lui stesso: è apparso come un intellettuale e un filosofo sofisticato, ma è stato e si è sempre definito un militante politico». Da qui discende che avremmo mancato di evidenziare «la concretezza politica di quella storia: ciò che è avvenuto dalla metà degli anni Settanta in poi. L’errore del compromesso storico da una parte e la germanizzazione del paese per cui il movimento si infilò in un angolo». Il nodo è tutto politico e per certi versi ancora attuale, dal momento che «le condizioni soggettive perché possa maturare l’alternativa non sorgono spontaneamente». LA PAROLA va a Massimo Anselmo, compagno del manifesto napoletano. «Negli anni Settanta stava avvenendo una mutazione dei rapporti di forza tra le classi e internazionali che ad esempio Lotta continua, dalla quale provenivo, non riusciva a leggere – racconta – Cosa che invece faceva il manifesto. Oggi bisogna capire come è cambiata la pelle del produttore. Dobbiamo essere elemento collettivo di inchiesta sociale». È vicino a questo giornale fin da allora anche Maurizio Iacono. Il quale ricorda di aver chiesto lui stesso a Negri, nel 1983, di scrivere dalla galera un articolo per il manifesto sul centenario della morte di Marx. Oggi accoglie la sfida dell’innovazione delle categorie di lettura, ma avverte il pericolo che anche la teorica critica sia digerita dal sistema. «C’è un grande revival internazionale di Marx – afferma – Ma bisogna stare attenti a non avere nessuna nostalgia. Non bisogna tornare indietro. Siamo in un’epoca in cui sembra si sia persa la profondità, tutto sembra giustapposto in superficie: persino le forme eversive sono compatibili. Abbiamo bisogno di trovare un Uno nuovo di fronte a un Molteplice sparso che il neoliberalismo ha dimostrato di riuscire a riassorbire». NEL GIRO di pochi interventi siamo arrivati alle sfide contemporanee. Marco Bascetta sottolinea che questo sguardo ha animato il giornale in occasione della scomparsa di Negri. «Gran parte degli autori hanno lavorato con Toni nella fase del cosiddetto postoperaismo – argomenta – A partire dagli anni Novanta, Toni diventa militante in un altro modo». È il Toni Negri dell’inchiesta metropolitana, del postfordismo e delle nuove forme di produzione. «Toni nella sua vita è stato molte cose – prosegue Marco – è stato cattolico, poi socialista, ha vissuto in un kibbutz, poi operaista- Noi abbiamo pensato fosse utile raccontare la fase in cui interloquì con i nuovi movimenti. Possiamo dire che da cattivo maestro era divenuto buono scolaro dei movimenti». Questa fase, durata fino a oggi, quasi trent’anni, è anche quella che accompagna l’emersione di Negri sulla scena globale. «Il lavoro teorico del Negri della quadrilogia con Michael Hardt da Impero in poi, anticipata da Il lavoro di Dioniso edito da manifestolibri, ha avuto una risonanza in tutto il mondo che per un intellettuale comunista italiano è un caso più unico che raro – constata Marco – Per trovare un fenomeno analogo dal punto di vista della diffusione planetaria forse bisogna tornare a Gramsci. Dunque, non è si trattato solo di raccontare un personaggio, ma di dar conto di un fenomeno teorico politico vasto». Più vasto è divenuto anche l’orizzonte di questo giornale, nel corso di questi decenni. «In una storia lunga – sostiene Marco – Entrano più persone e anche altre correnti. Il solco tracciato da Romolo ha importanza fondativa, ma Roma è negli anni è andata oltre quel solco, è cresciuta». A PROPOSITO di decenni, Giansandro Merli propone uno sguardo dal punto di vista della sua generazione, cioè di quelli che sono nati negli anni Ottanta. «Siamo stati giovani in periodi diversi e abbiamo conosciuto Toni in momenti diversi – premette – Io l’ho conosciuto nel 2009, in un’assemblea cui partecipavano la Fiom, l’Flc, sindacati di base, studenti, centri sociali». Per Giansandro, il manifesto dello scorso 17 dicembre ha marcato la differenza con tutti quelli che non accettano che «uno degli intellettuali italiani più noti al mondo sia un comunista e lo sia stato fino alla fine». «Quel giornale con Negri in copertina ha venduto molto – sostiene – Se dovessi trovarci un limite direi che forse non abbiamo spiegato abbastanza quanto la sua opera sia discussa dappertutto nel pianeta».Per i compagni che sono venuti a trovarci in redazione, il giornale ha commesso soprattutto l’errore di «semplificare» la complessità delle vicende degli anni Settanta. Ciò emerge, sostiene Vincenzo Vita, dal commento in prima pagina affidato a Paolo Virno (uno che su molte cose con Negri non era d’accordo, a cominciare dall’inesauribile ottimismo antropologico del Professore). Il suo testo contiene un inciso molto duro contro «una canaglia dell’antico Pci», a proposito della persecuzione giudiziaria contro i movimenti. «Il Pci ha avuto luci e ombre: il 7 aprile è un’ombra, e lo abbiamo segnalato – replica Andrea Colombo – Certo, si poteva fare una discussione storica, ma forse non era il momento. Si può sempre fare, senza andare a cercare le ragioni o i torti di quella che fu non soltanto la sconfitta di una battaglia ma la guerra perduta». Andrea inquadra i fatti della seconda metà degli anni Settanta nel contesto della grande sconfitta: «Sarebbe sproporzionato parlare solo degli errori di Negri, che pure ci furono. Allora lo avvertivamo tutti, anche il Pci cercava vie di uscita. Eravamo fortissimi ma capivamo che stavamo per perdere. Il Toni dirigente politico fu uno dei pezzi di questa sconfitta, non il responsabile». PER ROBERTO Ciccarelli la scelta del manifesto, su spinta soprattutto di Rossana Rossanda, di intraprendere in solitaria una campagna garantista in occasione dei processi del 7 aprile rappresenta un punto di svolta politico-culturale che ha proiettato il giornale nel futuro, oltre quegli anni Settanta. «Questo giornale nel 1979 creò un caso politico-giornalistico – ricorda Roberto – Lo fece contestando l’impianto di quel processo e la cultura giuridica che lo aveva ispirato. Lo fece trasformandosi e diventando il giornale che aspira a parlare alla sinistra intera e quindi all’intera società. Fu un momento fondativo». Poi Roberto racconta un retroscena dell’intervista che fece a Toni Negri lo scorso luglio, in occasione dei suoi novant’anni. «Quella discussione poteva avere tagli diversi- -ricorda Roberto – Ma fu lui a propormi di farla sul suo rapporto con il manifesto. Il che fa capire l’affetto che nutriva verso questo giornale e per Rossanda, con la quale ebbe un rapporto che diventò critico e anche molto duro, come accade tra comunisti». Racconta anche del 1997, di quando aveva scelto di tornare in Italia, in prigione, perché era convinto che da quella posizione avrebbe strappato l’amnistia per gli anni Settanta: «Fu in quell’occasione, prima di tornare, che Rossanda gli disse: ‘Non partire, è una trappola’. Proprio lei, che quindici anni prima gli aveva contestato la scelta di riparare in Francia».In mezzo a questo rovesciamento, e a questo rapporto tra due grandi intellettuali e militanti politici, c’è il manifesto. «Toni da comunista ha letto in chiave politica il suo rapporto con questo giornale – conclude Roberto – Il che ci offre l’occasione di discutere del manifesto del presente e del futuro». «NOI FACCIAMO un quotidiano – dice Andrea Fabozzi ponendo la critica e la discussione come attitudini permanenti – E facendolo ci sottoponiamo ogni giorno al giudizio di tutti: degli amici e dei compagni, ma innanzitutto di un pubblico vasto. Non abbiamo nessun interesse a chiuderci alla critica e certamente abbiamo ogni giorno tante cose di valore ma anche tante lacune. Viviamo del resto tempi difficili da leggere e raccontare, con di fronte a noi la peggiore destra e proprio il fatto che sia arrivata al governo è un’altra prova dei nostri limiti. Per questo che le vostre critiche, che non abbiamo condiviso, siano arrivate sulla memoria di Negri ha favorito l’impressione che si trattasse solo di discussione interna. Non può essere così e vi invito a starci addosso anche su altre questioni». Luciana Castellina rievoca i momenti delle divisioni con Negri. Come sui consigli di fabbrica: il manifesto gli attribuiva una funzione positiva, di pungolo al sindacato, per Potere operaio erano uno strumento riformista. E avverte: «Non siamo un giornale come gli altri, nasciamo dalla critica al giornalismo e dal rapporto passivizzante tra chi scrive e chi legge». Del resto, in quale giornale come gli altri ci sarebbe stata una discussione del genere? * Fonte/autore: Giuliano Santoro, il manifesto

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Con queste parole, quattro anni or sono, concludendo "Storia di un comunista 3 – Da Genova a domani" (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle grazie editore), Toni parlava con serenità della propria morte di TONI NEGRI Mi sembra talora di essere completamente estraneo al mondo che mi sta attorno. Curiosa sensazione per qualcuno che ha riempito tre volumi di una storia di intensa immersione nell’esistente. Probabilmente, mi dico, avviene perché sono vecchio – per quanto mi agiti nel cercare di tenere aperta la comunicazione con amici più giovani e svegli, la mia percezione è ottusa. Poi però mi chiedo: non può darsi che questa mia considerazione del mondo e questa convinzione di estraneità non siano vere? Vere? Intendo che quella percezione di estraneità non dipenda da me, dalla mia insufficiente o ridotta attenzione, ma che il mondo che mi circonda sia davvero brutto e inconsistente. Non sarà che alla mia fiducia nell’essere, alla mia ammirazione per quello che è vivo, non corrisponda più qualcosa che si possa amare? Brutto, bello, vivo, amato… sono aggettivi di difficile definizione e di altissima relatività. Forse allora, per confermare il mio dubbio, a questi termini non dovrei affidarmi. Forse l’unico aggettivo che vale, fra i molti che fin dall’inizio utilizzo, è “estraneo”. Un effetto di straniazione è quello che provocano in me linguaggi e umori, non importa se individuali o collettivi, che risuonano nella società, fuori di me. Penso di esser sordo e di sentire suoni confusi. In realtà, un po’ sordo sono ma i suoni confusi non li sento con l’orecchio ma con l’anima, con il cervello. Mi sfugge il mondo attorno. Ho avuto una lunga vita, ho conosciuto contraddizioni enormi e conflitti mortali, sempre tuttavia sapevo di che si trattava, gli elementi della contraddizione e del conflitto stavano dentro un quadro noto, comunque significante – perché allora il significato degli eventi che oggi si dànno attorno a me s’iscurisce e mi sfugge? In cosa consiste la loro insignificanza? A rappresentare questa estraneità c’è un mondo nuovo. Un mondo nuovo ma affaticato, prostrato davanti alle difficoltà fisiche, politiche e spirituali, della propria riproduzione. Difficoltà economiche e caduta di referenti politici, collettivi, di riferimenti di valore. La comunicazione è divenuta frenetica ma i significanti si scolorano nella velocità. C’è confusione negli spiriti. C’è corruzione nei linguaggi. I vecchi riferimenti di lotta sono scomparsi: destra e sinistra, sindacati e partiti, senso e significato della storia… questo è il mondo attorno a me. Non dipende dalla mia vecchiaia, dalla mia stanchezza: è così. Quando rifletto su questa fenomenologia del presente, quanto più affino lo sguardo, tanto più l’unica, la sola figura valutativa e descrittiva che mi sembra investire il mondo dei significati e permettere di descriverlo, è quella del nihilismo. I segni mancano di significato, i visi mancano di sorriso, i discorsi sono vuoti. Non sappiamo di cosa parlare. Vedo sul viso altero dell’interlocutore una smorfia – è sempre la stessa che trovo in gran parte dei miei interlocutori. Sicché è gran festa quando se ne trova uno indenne da questa patologia. La gente è disperata. Quando ripenso a coloro che ai miei tempi, ormai antichi, hanno sviluppato concezioni nihiliste per la loro filosofia, ed hanno spesso concluso, nella krisis, al pessimismo ed all’attesa della catastrofe (ed i miei lettori sanno con che continuità e con quale asprezza li abbia combattuti) – tuttavia quando ripenso a loro, quasi mi commuove ora la loro malattia che era consapevole e sofferta. Mentre ho oggi difronte a me personaggi la cui etica è nihilista e catastrofica, non come risultato di un lavoro critico ma perché la loro esistenza è senza consistenza, anche quando, frequentandoli, sembra che vivano una vita qualunque. Sono senza passioni, in realtà, sono senza significanti, sono senza fede – per ben che vada pensano che il linguaggio debba essere depurato, lavato e rilavato e condotto a purezza significativa – la purezza del secchiaio dentro al quale hanno fatto le pulizie. Gettano davvero il significante con l’acqua sporca del bagno. Gli resta quell’ideale di purezza – il “reine“della ragione, della sensibilità, del concetto – che è diventato aggettivo del vuoto, del mero resto dopo lo svuotamento dell’essere. Quando mi guardo attorno mi sento circondato da questi zombie, da milioni di zombie. È davvero nuovo questo mondo? Certo, si è affermato da poco, è in crescita, presto questo “nuovo” occuperà tutto. Ma non è nuovo. Ho 85 anni. Fino ai miei 25-30 questo “nuovo” mondo c’era, in forme solide ed efficaci, il mondo dell’infra due guerre e del secondo dopoguerra. Era quello che mi ha oppresso e contro il quale ho combattuto. Lo avevamo messo in soffitta e parzialmente distrutto, ora ricompare egemone, questo mondo vecchissimo. È quello fascista della mia infanzia e giovinezza. Era il mondo nel quale “patriarcato-sfruttamento capitalista-sovranità della nazione” investivano, da padroni, la vita e la testa della gente. E tradivano la generosità e l’intelligenza dei giovani per indurli a illusorie avventure: il patriottismo, la nazione, la razza, l’identità, la mascolinità erano assunti come valori superiori. Si chiama fascista questo mondo, non solo conservatore ma reazionario, non solo religioso ma fanatico nel distruggere ogni libertà. Un mondo dove la fatica di vivere dominava su ogni altra passione e una greve disciplina costringeva le anime all’insensibilità nel dolore. L’oppressione spingeva all’insignificanza. È ridivenuto così il mondo presente? Ma se è così, come potranno leggermi, come potranno comprendermi i ragazzi di oggi? Il mio libro sembrerà loro affondare in lontane profondità, difficilmente accessibili. Sarà per loro un documento archeologico. E il mio editore, perché deve pubblicare questo testo al massimo degno di archivio? C’è ancora un numero sufficiente di vecchietti che apprezzerà questo racconto e ringrazierà l’editore per averlo pubblicato? Quando – non è passato molto tempo – un orrido personaggio fascista è asceso alla Presidenza di un grande paese, il Brasile, ad alcuni giovani amici che chiedevano: “Che cosa possiamo fare? Come comportarci per resistere?”, ho risposto: “Non abbiate paura”. È la condizione per costruire una grande ed efficace resistenza. Il fascismo si regge sulla paura, produce paura, costituisce e stringe il popolo nella paura. Non aver paura: questo è quanto bisogna esser capaci di dire alla gente, fra la gente, nella moltitudine che oggi soffre il ritorno della barbarie fascista, anche da noi, sotto il nostro sole. Non aver paura di spezzare la prigionia del linguaggio vuoto che ci viene imposto e di ridere dell’autorità, ovunque si presenti con la grottesca maschera fascista. Non aver paura significa liberare le passioni e così riempire quelle forme linguistiche che il processo di assoggettamento fascista ha lasciato vuote. Sembra che il secolo si sia oscurato: respingere la paura, produrre resistenza, è prima di tutto dissipare le ombre, riconquistare senso delle parole. Riempirle di cose, di realtà, di libertà. Soggettivarle. Ma l’operazione principale consiste nel riconoscere che il fascismo è sempre quello, è sempre ripetizione della violenza per bloccare la speranza, è il vecchio – i disvalori assoluti del patriarcato, della violenza dello sfruttamento e della sovranità – che viene riproposto illusoriamente per imporlo come necessità dello spirito ed obbligo della morale mentre è fondamento di una cultura di morte. “Viva la morte”, è la parola d’ordine del fascismo. “Viva la vita”, è la risposta di chi non ha paura. Tornerà la primavera – ritorna sempre! Il fascismo sembra eterno ed in effetti (pur breve) sembra una troppa lunga pena – ma è fragile, il fascismo. Scontrandosi con la passione del vivere liberi, quanto poco può tenere. La libertà si impone necessariamente contro il fascismo, perché con la libertà staranno le altre passioni politiche forti, come quella per l’eguaglianza e quella per la fraternità. Tornerà la primavera e sarà una vera stagione del nuovo. Perché se il fascismo è sempre uguale, la primavera della libertà è sempre nuova, sempre diversa, sempre piena di doni. Guardate al passato, guardate di nuovo alle grandi stagioni di lotta. Potremmo andare tanto indietro… due esempi bastano. Il 1848 e il 1968 sono date che per la mia generazione sono state fondamentali. La prima, l’inaugurazione del socialismo in Europa, dentro e contro lo sviluppo delle contraddizioni venute dalla rivoluzione francese e dalla maturazione dell’accumulazione capitalista. Da questo incontro era sgorgato l’antagonismo di libertà contro eguaglianza e quello di eguaglianza come fraternità dei popoli versus libertà come nazionalismo e sovranismo. I reazionari sempre da una parte, fissi, bloccati nella difesa dei loro privilegi; i rivoluzionari che per la prima volta innalzavano la bandiera rossa della fraternità fra i popoli. Un secolo di lotte feroci è seguito al ‘48. Il socialismo si è affermato, è stato poi sconfitto, ha comunque lasciato un’enorme eredità di beni pubblici, meglio detto, di “comune” per le nuove generazioni. È su questo terreno di innovazione e di potenza, che si è aperto il ’68. Il “comunismo” è stato il suo orizzonte. Si trattava di rendere comune quello che era pubblico, di ottenere più comune dal pubblico conquistato nel gioco democratico. Il frutto del socialismo andava moltiplicato. Ci siamo stati dentro e ci staremo dentro a questa battaglia, nostra e dei nostri figli. È stata nuova quella ventata di volontà democratica che ancora una volta ha messo sottosopra il mondo. E si ripete: ogni dieci anni, più o meno, abbiamo grandi episodi, diffusi e diffusivi, di rivolta. I cicli Kondriatev sono finiti. I cicli di soggettivazione del comune hanno preso il sopravvento. Ogni volta adeguando la resistenza al superamento di ostacoli predisposti da una repressione divenuta ormai “scienza di governo”. Ogni governamentalità è un’operazione capitalista, sovrana, per bloccare e imbragare i movimenti produttivi del lavoro vivo. Gli risponde un rinnovato attacco da parte dei movimenti dei cittadini-lavoratori ed una capacità di mettere a frutto le conquiste ottenute. Guardiamolo con attenzione, questo gioco che dopo il ’68 si è messo in atto. Resistenza dei lavoratori per conquistare la soddisfazione di vecchi e nuovi bisogni, poi repressione. Ma riesce la repressione a raggiungere l’obiettivo di bloccare l’azione sovversiva? Spesso fummo costretti a dare risposta positiva a questo interrogativo. Ma anche quando il movimento sovversivo sia bloccato, andiamo a vedere se davvero la lotta abbia avuto una risultante negativa (o relativamente tale). Ebbene, non è così. Le riforme che le lotte, anche perdenti, accumulano, sono importanti, sono un aumento del “comune” nelle mani delle moltitudini del proletariato. Attenzione a vecchie voci che vengono dal passato: significa, la positività di questo processo, che si deve essere “riformisti” nella conduzione del movimento? Assolutamente no. I riformisti non accumulano nulla di comune, accumulano solo sconfitte e demolizioni del comune, collaborano alla governance capitalista e insozzano e pervertono le lotte. Di contro, solo le lotte di resistenza che divengono sovversive, accumulano la ricchezza comune e la suddividono fra istituzioni del comune. Circondati da istituzioni del comune, un certo progresso lo abbiamo conquistato per la nostra vita e per quella dei nostri figli. Lo testimonio volentieri nella mia vecchiaia. Ma per tenere aperto questo dispositivo del “comune”, della sua conquista e della sua accumulazione, la storia delle lotte ci insegna che dobbiamo organizzarci. Ho passato la vita provando a risolvere questo compito. Non credo di esserci riuscito – vale a dire, a scoprire una formula organizzativa che avesse l’efficacia del “sindacato” nella Seconda Internazionale o del “soviet” nella Terza. Abbiamo identificato il terreno della moltitudine come insieme di singolarità, operante come sciame, come rete, probabilmente organizzabile in una vera democrazia diretta. Non siamo tuttavia mai riusciti ad andar oltre esperienze “in vitro“. Ma la strada è quella e già percorrerla permette alla dialettica di resistenza e sovversione, di destabilizzare il potere nemico e di destrutturarne il sistema produttivo, quindi di disporsi alla conquista del comune e alla costruzione di istituzioni del comune. La strada da percorrere è ancora lunga e i vuoti di organizzazione, i tempi vuoti dell’impresa sovversiva, si pagano. Ci scontriamo con un fascismo risorgente. Sappiamo che la lotta si fa difficile. Non abbiamo paura. Stiamo sulla linea del fronte. Pensiamo che la nostra resistenza è efficace. Ma bisogna prepararsi alle estreme conseguenze alle quali il fascismo può arrivare: la guerra. Chi ha vissuto la guerra, chi l’ha subita, sa che la guerra è, è stata e sarà un’irresistibile macchina di distruzione. È questa volta, dell’umanità intera, dati i mezzi bellici di cui le grandi potenze capitaliste possono servirsi. Guerra fra potenze = distruzione delle radici dell’umano. Il fascismo può produrre questo disastro dell’umano, questo massacro della sua storia sul pianeta. Combattere il fascismo è quindi battersi in favore dell’umano. Senza mai dimenticare che il fascismo è capace di distruggerlo, quando avverte che le regole patriarcali della società, la struttura del comando per lo sfruttamento, e la sovranità del proprio interesse nella forma politica dello Stato, sono messi in pericolo. Concentriamoci su questo punto ed organizziamoci per non subire la decisione di guerra di un capitale incrociatosi al fascismo. Evitare la guerra, combattere e vincere sul capitale senza passare attraverso la guerra è il nostro compito. Come fare? Il pacifismo sarà la nostra arma perché la pace è il nostro desiderio. Ho vissuto e subito il fascismo. Il mio cuore è offeso e il mio cervello traumatizzato quando ripenso quella esperienza. Ho vissuto poi, dal ’68 ad oggi, senza paura del fascismo. I crimini che gli venivano imputati, la Shoah in primo luogo, impedivano che fosse nuovamente desiderato, la gran massa delle popolazioni sembrava averlo definitivamente ripudiato. Solo i funzionari della sovranità riuscivano ad accompagnare nel ricordo (e ad essere conniventi nelle pratiche) quelle condotte criminose – talora rinnovandole. La repressione del ’68 europeo ne fu un esempio. Io comunque non ho mai avuto paura, ho solo sviluppato disprezzo per quei delinquenti. Oggi la cosa è diversa: una nuvola di fumo solforoso, un’atmosfera spessa, impossibile da attraversare con lo sguardo, ci circonda. Il fascismo è ubiquo. Dobbiamo ribellarci. Dobbiamo resistere. La mia vita sta andandosene, lottare dopo gli 80 diviene difficile. Ma quel che mi resta dell’anima, mi conduce a questa decisione. Nella resistenza al fascismo, nel tentativo di rompere questo dominio, nella certezza di riuscirci, questo libro è stato scritto. Non mi rimane, amici miei, che lasciarvi. Con il sorriso, con dolcezza, dedicando queste pagine, questi tre volumi che sto concludendo, a quegli uomini virtuosi che nell’arte della sovversione e della liberazione mi hanno preceduto, e a quelli che seguiranno. Abbiamo detto che sono “eterni” – l’eternità ci abbracci. Fonte: Euronomade   foto di Tano D'amico

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