Informazione-controinformazione

Condannato a quattro mesi per aver raccontato un’azione dimostrativa dei No Tav. È successo ieri al giornalista marchigiano Davide Falcioni, il tribunale di Torino l’ha riconosciuto colpevole di violazione di domicilio e violenza sulle cose. La pena è stata sospesa. L’avvocato difensore, Gianluca Vitale, definisce la sentenza «un bavaglio per la stampa». La vicenda inizia nel 2012, quando Falcioni scriveva per il portale Agoravox: «Un anno difficile per la Val Susa – spiega -, a febbraio Luca Abbà era precipitato da un traliccio dell’alta tensione, folgorato. C’erano manifestazioni e blocchi stradali continui. Ad agosto la redazione decide di mandarmi lì per un reportage sulle proteste, sei giorni a seguire il movimento contro la Tav dall’interno».
Il 24 agosto gli attivisti si presentano a Torino all’ingresso dello Geostudio, costola della Geovalsusa srl che partecipa al consorzio dei costruttori della tratta Torino-Lione. Doveva essere un volantinaggio, nell’ambito della campagna «C’è lavoro e lavoro», ma poi hanno un’idea: citofonano agli uffici dicendo di dover consegnare una raccomandata, la porta viene aperta e una ventina di No Tav entrano. «Entrai anch’io – racconta Falcioni -, rimanemmo dentro circa trenta minuti. Srotolarono uno striscione, dal balcone accesero un fumogeno. Nessuna violenza, il clima era molto rilassato, gli impiegati scherzavano. All’interno non c’era la polizia né i carabinieri».
Le forze dell’ordine alla fine arrivano e 19 attivisti vengono denunciati, l’accusa per tutti è violazione di domicilio e pure violenza sulle cose, che si traduce in «un vasetto di yogurt che qualcuno, non identificato, avrebbe rovesciato in un cassetto e la sparizione di una spillatrice», spiega Falcioni, che ora scrive per Fanpage ma all’epoca stava raccogliendo gli articoli necessari per iscriversi all’Ordine dei pubblicisti. Comincia il processo, uno degli imputati chiede al giornalista di testimoniare sul clima tranquillo nel corso dell’azione: «Durante la deposizione la pm Manuela Pedrotta mi ha informato che la mia posizione era stata stralciata e da testimone passavo a imputato. Se non fossi andato a raccontare cosa avevo visto, non avrei subito il processo».
La pm Pedrotta contesta a Falcioni di aver assistito all’azione allo Geostudio: «Non riesco a capire l’utilità di entrare dentro. Non poteva farsi raccontare quello che era successo dalle forze dell’ordine?». E ancora: «Lei è marchigiano, cose le interessava della Tav?». Infine: «Non era nemmeno un giornalista, ma anche se lo fosse stato non era scriminato» cioè non aveva una giustificazione perché, secondo la pm, «il diritto di cronaca è stato riconosciuto qualora ricorrano determinate condizioni, tra cui l’interesse pubblico» e in quel caso per la pm e la giudice Isabella Messina, che ha emesso la condanna, l’interesse pubblico non ci sarebbe stato.
«Avrei dovuto rinunciare a fare il giornalista per non commettere il reato di violazione di domicilio – commenta Falcioni -. Se mi ritrovassi in quella situazione mi comporterei allo stesso modo sono però turbato perché è un attacco a tutta la categoria. Aspettiamo le motivazioni per fare appello, speriamo in un giudice che faccia giustizia e non politica».
Duro il commento dell’avvocato Vitale: «Da quanto si ricava dalla requisitoria della pm, il problema è soltanto il contenuto dell’articolo. Evidentemente non è piaciuto alla procura. Siamo alla teorizzazione del giornalismo embedded: bisogna stare in redazione e passare solo le veline. Le parole della pm sono pericolose per la democrazia». Ieri è intervenuta anche la Federazione nazionale della stampa: «Il collega si è limitato a seguire i fatti. A meno che non venga dimostrato che Falcioni aveva preso parte alla violazione di domicilio, la condanna suona come un attacco al diritto di cronaca. L’auspicio è che in appello prevalgano le ragioni dell’articolo 21 della Costituzione».

FONTE: Adriana Pollice, IL MANIFESTO

Anonymous buca siti e database del Ministero della Pubblica Istruzione: 20mila email e password adesso vanno a spasso nel cyberspace.

A come Anonymous dunque: il collettivo di hacker attivisti, o meglio, una loro costola italiana, questa volta se la prende con il Ministero dell’Istruzione e più esattamente contro l’alternanza scuola lavoro prevista dalla riforma dell’istruzione. Per protestare contro il progetto che considerano occasione di sfruttamento degli studenti hanno deciso di rendere pubblici nomi, email, password di un pezzo consistente della Scuola: circa 20mila indirizzi di posta elettronica e gli accessi di amministrazione a siti e database scolastici.

Il collettivo che dà notizia dell’accaduto, Lulzsec Italia, rivolgendosi alla Ministra della scuola dichiarano: “Salve Ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, le diamo il benvenuto nell’arena. Siamo qui oggi per parlare di un tema delicato che ha fatto discutere molto, ovvero l’alternanza scuola lavoro… di studenti di un liceo scientifico che iniziano a conoscere il mondo del lavoro a partire da una catena di cancro come McDonald’s… studenti che alla fine vengono anche sfruttati solo per il vostro interesse nell’avere manodopera giovane e gratuita. Siete solo aguzzini…”

Ma nel comunicato lamenta anche il cattivo funzionamento della scuola “per le infrastrutture inadeguate o fatiscenti, gli insegnanti ignoranti e negligenti e per tutta la farsa di studiare materie improntate non alla logica ma al puro nozionismo”.

E conclude: “Ma tanto alla Sig.ra Fedeli & Company, cosa interessa? Lei e la sua ciurma a fine mese hanno sempre lo stipendio in banca (chissà per quanto), lasciando fare quella misera esperienza lavorativa agli studenti.” Ma l’affondo riguarda l’inesperienza nel campo della sicurezza informatica che gli hacker attivisti considerano “un vero insulto verso tale ARTE, dato che avete dimostrato di non riuscire a gestire nemmeno un semplice sito.”

Sono 52 i database hackerati, 1048 le email scolastiche che finiscono con “@istruzione.it”, 355 dal forum Indire, fino a quelle degli amministratori dei siti wordpress e circa 7000 indirizzi privati di insegnanti. Per finire con 12.819 email dai Licei Morandi di Finale Emilia, del Fermi di Bologna, del San Vitale di Parma, l’Istituto Comprensivo di San Giovanni in Persiceto, fino all’alberghiero di Riccione. Oltre al fatto che si tratta di email di professori e dirigenti scolastici di scuole di diverso grado, sia pubbliche che private, cattoliche, quello che balza agli occhi è che gli indirizzi riguardano soprattutto l’area dell’Emilia Romagna. Ci sono anche i 190 nomi e password dei referenti universitari del Miur di tutto il territorio nazionale.

Se si è in possesso delle credenziali di un professore, ottenuto il Pin di accesso ci si può facilmente spacciare per lui e modificare in maniera illegittima i Registri On Line dove i professori comunicano direttamente con le famiglie degli studenti. Lo scenario più semplice da ipotizzare è che uno studente, grazie a tali credenziali, possa andare sul registro digitale e cancellare le note ricevute.

Però se la password dell’email è la prima barriera di difesa da incursioni di criminali e sabotatori cibernetici adesso che sono disponibili in chiaro a migliaia di utenti della rete, studenti arrabbiati, e attivisti, un po’ c’è da preoccuparsi, anche per la pessima abitudine a usare la stessa email e password per registrarsi e usare servizi “privati”, dai social network al conto bancario.

Più preoccupante potrebbe tuttavia essere la violazione del database delle donazioni alla scuola che ha un nome abbastanza esplicito: PRE_WEB_CINQUEPERMILLE_2_0.

Attenzione, professori.

FONTE: Arturo Di Corinto, IL MANIFESTO

Il comune di New York creerà una commissione per analizzare gli algoritmi utilizzati dagli uffici comunali nell’erogazione dei propri servizi alla ricerca di possibili discriminazioni in materia di genere, età, religione o cittadinanza. La commissione dovrà esaminare tutti gli algoritmi in uso e decidere per ciascuno di essi cosa rendere pubblico nell’interesse dei cittadini, e quali discriminazioni esso nasconda. La legge che istituisce la task force è stata appena approvata dal consiglio comunale su iniziativa del consigliere democratico James Vacca ed attende la convalida (scontata) da parte del sindaco de Blasio. La città di New York intende così applicare il concetto di «responsabilità degli algoritmi»: le procedure (in gran parte informatiche) che aiutano individui, aziende e istituzioni a prendere decisioni, infatti, dietro l’apparente oggettività nascondo orientamenti politici che hanno conseguenze reali.

LA PAROLA ALGORITMO ha assunto una connotazione generalmente negativa, come sinonimo di una tecnologia minacciosa che controlla le nostre vite. In realtà, il vocabolo di origine arabo indica una qualsiasi sequenza di istruzioni utili a raggiungere uno scopo: la ricetta dell’amatriciana, ad esempio, o le istruzioni dei Lego sono esempi di algoritmi nient’affatto minacciosi. Il problema nasce con la diffusione dei computer, che grazie alla velocità di esecuzione degli algoritmi e alla quantità di dati analizzati nascondono le procedure. Quando, ad esempio, avviamo una ricerca su Google, ignoriamo o quasi le innumerevoli valutazioni statistiche e logiche che avvengono sui server di Google, cioè l’«algoritmo» che il motore di ricerca segue.

Eppure, ogni algoritmo incorpora gli errori e le approssimazioni introdotte del suo (umanissimo) autore, e spesso hanno conseguenze molto poco «virtuali». A New York se ne sono accorti soprattutto gli imputati di crimini violenti sotto processo. Dal 2006, infatti, la polizia scientifica della città utilizza un sistema bioinformatico denominato Forensic Statistical Tool che, a partire dagli elementi biologici rinvenuti sulla scena del crimine, fornisce la compatibilità tra le caratteristiche etniche di genere dell’imputato e quelle del presunto colpevole. Dopo un’inchiesta del New York Times e del sito di giornalismo investigativo ProPublica, gli errori del software (il 30% dei casi, con un gran numero di innocenti condannati) sono diventati di pubblico dominio e hanno obbligato la polizia scientifica a cessare l’utilizzo e a rendere pubblico il codice informatico dopo averne cessato l’utilizzo. La legge sulla responsabilità degli algoritmi nasce all’indomani di quello scandalo, ma si applicherà ad un insieme di algoritmi molto più ampio.

Il sistema giudiziario statunitense, ad esempio, fa largo uso di algoritmi automatici per decidere se un imputato merita la libertà condizionale o se un bambino subisce maltrattamenti. Ma a New York come nelle nostre città, il rapporto tra cittadini e istituzioni pubbliche e private è spesso regolato da algoritmi. Sono loro, ad esempio, a stabilire l’assegnazione degli insegnanti alle scuole, a regolare le prenotazioni telefoniche degli esami medici o a far scattare i controlli sulle assenze dei dipendenti.

OGNUNO DI ESSI può contenere, anche all’insaputa dell’autore, meccanismi discriminatori. Ad esempio, se in passato le professioni qualificate sono state appannaggio soprattutto degli uomini è possibile che un motore di ricerca tenga conto della correlazione statistica (ma non della sua origine discriminatoria) e invii alle utenti proposte di lavoro meno qualificate. In questo modo, la discriminazione tende a riprodursi. Non si tratta di un esempio teorico, ma dei risultati di una ricerca della Carnegie Mellon University del 2015, a cui si possono affiancare decine di studi simili giunti agli stessi risultati. In città sempre più smart, la nuova norma introdotta a New York potrebbe fare scuola, anche se molti osservatori dubitano del suo reale impatto. La norma, ha osservato la giurista Julia Powles sul New Yorker, in una prima versione prevedeva che gli algoritmi usati dalle agenzie pubbliche fossero resi noti in formato open source, dando a tutti la possibilità di capire quali procedure seguano.

Tuttavia, quest’obiettivo è stato abbandonato in favore di una versione più blanda della legge. Le aziende che forniscono servizi agli enti locali, infatti, non avrebbero accettato di rendere pubblici i loro codici, perché il loro fatturato si basa in gran parte sulla proprietà intellettuale e sulla vendita di licenze. Per non parlare dell’uso dei dati personali degli utenti. E senza cooperazione delle aziene fornitrici è difficile assicurare trasparenza.

Se nemmeno New York è in grado di usare il suo potere contrattuale in cambio dei preziosi dati sui suoi abitanti, figuriamoci cosa potrebbero fare i malandati enti locali nostrani. Eppure, la legislazione europea in materia contiene spunti interessanti. Dal prossimo maggio, entrerà in vigore il «Regolamento generale per la protezione dei dati» sviluppato dalla Commissione Europea e che non necessita di alcuna ratifica nazionale. L’articolo 15, ad esempio, sancisce il diritto di conoscere «l’esistenza di un processo decisionale automatizzato» e «informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l’importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato»; l’articolo 22, invece, garantisce il diritto a «non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato». Tuttavia, alla norma si può derogare con il «consenso esplicito dell’interessato». Basta osservare il nostro comportamento online per capire che il «consenso esplicito» spesso si limita ad un clic frettoloso.

E allora, secondo i giuristi, il vero argine all’irresponsabilità degli algoritmi può derivare dalla loro leggibilità, cioè dalla capacità dei cittadini su cui si applica l’algoritmo di comprendere i dati che esso utilizza e i metodi utilizzati per analizzarli. Il «Regolamento generale» europeo mette i cittadini in condizione di pretendere la leggibilità degli algoritmi, secondo quanto hanno scritto sull’ultimo numero della rivista “International Data Privacy Law” Gianclaudio Malgieri (Libera università di Bruxelles) e Giovanni Comandé (Scuola S. Anna di Pisa). Tuttavia, il segreto industriale, come a New York, potrebbe limitare l’applicazione del regolamento, ammettono i ricercatori. Altri, più pessimisti, ritengono che le norme non basteranno. Ma ormai la questione sembra sul tavolo e la decisione del comune di New York, nonostante tutto, rappresenta un segnale importante.

LA RESPONSABILITÀ degli algoritmi potrebbe ravvivare il dibattito sull’utilizzo delle tecnologie informatiche open source nella pubblica amministrazione. Almeno in teoria, le pubbliche istituzioni avrebbero dovuto muoversi in questa direzione già dalla direttiva Stanca del 2000. Eppure, le cose vanno tuttora a rilento. Finora, la direttiva è stata motivata soprattutto dalle esigenze di risparmio dello stato, poiché i software open source sono per lo più gratuiti. Le politiche di marketing delle grandi aziende informatiche (Microsoft in testa) e la diffusione della pirateria persino negli uffici pubblici hanno neutralizzato in gran parte questa esigenza. Ora la questione della trasparenza degli algoritmi aumenta la posta in gioco, portando la questione su una dimensione politica inedita e decisamente più interessante.

FONTE: Andrea Capocci, IL MANIFESTO

Giornalista tra i più discussi e conosciuti in Francia oggi Edwy Plenel è presidente e cofondatore di Mediapart, il giornale di inchieste online che ha pubblicato scoop clamorosi che hanno colpito a destra (il caso Woerth-Bettencourt che ha riguardato Sarkozy o i fondi neri di Gheddafi alla campagna presidenziale di quest’ultimo nel 2007) e a sinistra (l’affaire Cahuzac, l’ex ministro socialista del bilancio, costretto alle dimissioni per detenzione di fondi neri). Insieme al direttore di Jacobin, Mag Bhaskar Sunkara, Plenel sarà al teatro comunale di Ferrara domani alle 16,30 per il festival di giornalismo di Internazionale.

Plenel, siete, o aspirate ad essere, un contro-potere. E il potere non vi sta facendo sconti. Avete dovuto pagare l’Iva retroattiva sugli abbonamenti: 2,4 milioni di euro. La vostra libertà è a rischio?
No. Certamente è stato un duro colpo che ha rallentato la costruzione durevole e solida della nostra indipendenza finanziaria. Eravamo pienamente consapevoli dei rischi quando abbiamo iniziato questa battaglia pionieristica sulla neutralità della rete e l’uguaglianza tra la carta stampata e quella digitale. La redditività strutturale di Mediapart ci ha permesso di affrontare questo brutto colpo. Nel frattempo abbiamo presentato tutti i ricorsi possibili sia alla giustizia amministrativa francese che alla corte di giustizia dell’Unione Europea.

A otto anni dalla nascita, il vostro modello finanziario basato sugli abbonamenti è ancora sostenibile?
Mediapart è una specie di laboratorio del giornalismo all’epoca della rivoluzione digitale che ha messo in crisi la stampa tradizionale. Abbiamo cercato di verificare alcune ipotesi : che si poteva avere successo non facendo altro che giornalismo, che Internet non significa solo intrattenimento, che il pubblico accetta di difendere con noi il valore dell’informazione, la sua qualità e la sua indipendenza. E funziona! Mediapart è in attivo dal 2011. Quest’anno realizzeremo un fatturato di almeno 11 milioni di euro, 1,8 milioni di utili netti. All’inizio eravamo 25, oggi siamo 75 dipendenti. Abbiamo 122 mila abbonati individuali paganti e abbiamo superato i 3,5 milioni di visitatori unici. Il modello del sito a pagamento non è un muro insuperabile, lo abbiamo associato al «club participatif» ad accesso libero come tutti i nostri eventi «live», filmati in diretta. La crescita è continua, costante e quotidiana.

Laurent Mauduit di Mediapart ha scritto nel suo ultimo libro che un pugno di miliardari controlla la quasi totalità della stampa dei media francesi. Crede che i giornali web siano l’alternativa alla “crisi morale” dei media? Non correte il rischio di essere comprati da questi oligopolisti?
Sin dall’inizio la nostra battaglia è stata, da un lato, di riprendere il testimone dell’indipendenza che le crisi di Le Monde e di Liberation hanno fatto cadere. Mediapart non è in vendita e i quattro fondatori sono decisi a trasferire il controllo del giornale alla redazione, a coloro che lo fanno quotidianamente. Il successo di Mediapart attesta la profonda crisi democratica in Francia, un paese con una democrazia a bassa intensità sotto l’apparenza ingannevole della stabilità garantito dal nostro sistema presidenzialista, unica monarchia elettiva europea dove la volontà di tutto è sostituita dalle scelte di uno solo. La democrazia non è altro che il diritto di voto, mentre invece è un ecosistema che presuppone in particolare una stampa libera, indipendente e pluralista.

Molti oligopoli francesi percepiscono gli aiuti pubblici dallo Stato. È accettabile questa situazione?
Gli aiuti pubblici diretti ai media controllati da oligarchi ricchissimi sono evidentemente inaccettabili. Così come l’assenza di misure per combattere i conflitti di interessi nel controllo di questi stessi media. Bisogna azzerare tutto e ripensare tutto in maniera innovatrice considerando che ormai non siamo solo noi professionisti ad esprimere online opinioni e a produrre informazioni. Noi sosteniamo la necessità di una nuova legge fondativa della libertà di informazione al tempo del digitale. Ci siamo ispirati a un’altra legge francese del 1881 sulla libertà della stampa che, all’epoca, rappresentò un modello mondiale di liberalismo progressista e democratico. La rivoluzione digitale in corso ha bisogno di una rivoluzione democratica. Il digitale è portatore di un nuovo immaginario e ha bisogno di una democrazia più orizzontale che non sia più posseduta dai professionisti della politica e sia allo stesso tempo deliberativa e partecipativa, una democrazia restituita ai cittadini.

Quando Patrick Drahi ha acquistato Liberation la redazione fece un titolo di prima pagina di protesta: «Siamo un giornale, non un ristorante, o una start up». Ma che cosa diventerà il quotidiano tra dieci anni?
Noi abbiamo capito che il giornalismo oggi deve ricreare la fiducia del pubblico accettando le critiche, accettando le discussioni. Il virtuale oggi è il reale: una pratica democratica concreta, una nuova alleanza tra professionisti produttori di informazione e cittadini che amano le informazioni, una battaglia comune per difendere il diritto di sapere senza il quale non esiste democrazia vivente e autentica. Se non conosco quello che è l’interesse pubblico, posso votare alla cieca, per il mio peggiore nemico o per la mia infelicità. Dobbiamo difendere il meglio della nostra tradizione professionale nel cuore della rivoluzione digitale: un giornalismo rigoroso e audace che impone la propria agenda attraverso le informazioni e che non sposa mai la comunicazione dei potentati sia quelli politiche che quelli economici. Dobbiamo dimostrare che questo è sempre giornalismo, e che possiamo praticarlo meglio grazie ai dispositivi tecnologici fondati sui link e i multimedia che permettono un giornalismo più approfondito, più vario, più durevole, più documentato, in fondo più ricco.

L’Independent ha chiuso l’edizione cartacea. Si ripete sempre che i giornali saranno sostituiti dal web, i pochi superstiti saranno pubblicati da Amazon come il Washington post, e i giornalisti saranno sostituiti dagli algoritmi. Crede anche lei a questo futuro senza indipendenza e tutto automatizzato?

Mediapart è la risposta alla sua domanda: siamo giornalisti arrivati dalla carta stampata, io da Le Monde, che nel 2007 si sono convertiti al digitale per difendere gli ideali e i principi tradizionali di un mestiere che è il cuore della democrazia. Ovviamente non credo a un giornalismo senza giornalisti, cioè alla sua corruzione attraverso l’intrattenimento, l’informazione 24 ore su 24 e il chiacchiericcio delle opinioni. Anche per questo abbiamo scelto da subito il modello a pagamento: rende concreta l’alleanza tra i giornalisti e il pubblico sul valore di una giornalismo libero e indipendente. Mediapart vive solo degli abbonamenti e rifiuta sia le sovvenzioni che la pubblicità. Solo i nostri lettori ci possono comprare.

SEGUI SUL MANIFESTO

È davvero finito uno stato di minorità. Una raccolta fondi tra i lettori e sostenitori del manifesto, l’autotassazione dei soci della nuova cooperativa, tre aste, due proposte di acquisto, una richiesta di finanziamento a Banca popolare etica. La storia dell’acquisto della testata potrebbe essere sintetizzata così. Ma dietro ogni tappa c’è la determinazione di un collettivo che ha scelto proprio questo obiettivo dopo la messa in liquidazione della storica cooperativa che per oltre quarant’anni aveva portato in edicola il manifesto.

Non c’è stato però molto di epico in quell’inverno di tre anni fa. Insieme all’amarezza per il fallimento di un’esperienza politica-giornalistica, c’era la ferma decisione di non interrompere le pubblicazioni, di continuare ad andare avanti, mantenendo aperte le porte della redazione.

Al Consiglio di amministrazione il compito di raccogliere i fondi necessari per l’acquisto della testata, del dominio e dell’archivio. La sottoscrizione lanciata agli inizi del 2014 ha visto una straordinaria risposta da parte di lettori e sostenitori.

In pochi mesi i lettori hanno donato oltre 476mila euro, depositati in un conto vincolato presso Banca Etica. Anche i lavoratori della nuova cooperativa hanno fatto la loro parte. Ci siamo tassati. Stipendi al minimo contrattuale, ma ogni lavoratore a tempo pieno ha volontariamente lasciato nelle casse del manifesto 300 euro al mese per un totale di 119.900 euro. Poi la rinuncia alla quattordicesima, nonché il versamento della quota associativa: 1000 euro a testa, un impegno anch’esso «pesante» per chi veniva da anni di stipendio a singhiozzo e cassa integrazione. Infine, la richiesta di finanziamento per l’acquisto della testata a Banca Etica: un mutuo di 150mila euro da restituire in cinque anni.

La cifra finale raccolta tra donazioni dei lettori, autotassazione dei soci e finanziamento di Banca Etica si è fermata a 760.958 euro. Questo sul «fronte interno».

La liquidazione coatta amministrativa è una procedura che contempla norme per il rispetto della concorrenza: il rispetto delle regole ha costituito il leit motivdei commissari liquidatori. Al Ministero dello sviluppo economico abbiamo più volte motivato la nostra intenzione di acquistare la testata in base a ragioni economiche, politiche ed editoriali.

A partire dalla fatto che affittare il giornale per andare in edicola è stato gravoso. Ogni mese comportava un’uscita di 26mila euro, oltre 300mila all’anno. Una cifra significativa, soprattutto pensando che poteva essere usata per potenziare i prodotti editoriali: il giornale quotidiano, l’inserto del sabato Alias e quello della domenica, il sito internet, la pubblicazione dell’edizione italiana diLe Monde Diplomatique e altre iniziative che abbiamo comunque messo in campo facendo leva sul lavoro di tutti i soci.

Abbiamo incontrato persone sensibili ma ferme. Funzionari, dirigenti, comitati di sorveglianza ci hanno più volte augurato che la vicenda si concludesse positivamente per noi, ribadendo tuttavia che l’iter della liquidazione era chiaro. La testata sarebbe stata messa all’asta. E così è stato.

Di aste ce ne sono state tre. La prima è avvenuta prima della costituzione della nuova cooperativa. Non vi abbiamo partecipato. Abbiamo appreso solo l’esito. Le proposte di altre imprese private non sono state considerati «ricevibili» dai commissari liquidatori.

È così iniziato un periodo lungo, scandito da una nuova valutazione del valore della testata, dalla discussione sulla gestione del dominio del sito (siamo dovuti passare dal manifesto.it al manifesto.info), dalle preoccupazioni sull’archivio quarantennale del manifesto non più accessibile dall’esterno, dalla notizia del vincolo su di esso messo dal ministero dei beni culturali, dalla richiesta di unaroad map chiara sulla vendita della testata.

Nel 2015 ci sono state altre due aste. Entrambe sono andate deserte.

Abbiamo deciso di investire l’ufficio legale del manifesto e altri due avvocati esperti in procedure fallimentari e proprietà intellettuale per rafforzare il rapporto con i commissari liquidatori. Una decisione presa dopo aver conosciuto la cifra della prima base d’asta, avvenuta il 29 aprile 2015: oltre 1.757.537 euro (più Iva), una cifra che mai avremmo potuto pagare. La legge stabilisce che ogni rinnovo d’asta può contemplare un ribasso del 20 per cento. Ma anche così la cifra della seconda asta, avvenuta il 24 luglio di un anno fa, non era alla nostra portata (1.318.153 più Iva). Questo non negava però la possibilità di avanzare una proposta di acquisto al di fuori della procedura d’asta.

Proposta inviata ma dai commissari ritenuta «non congrua». Dal canto suo, il ministero dello sviluppo economico ribadiva l’autonomia dei commissari liquidatori nello scegliere il modo migliore per raggiungere l’obiettivo della vendita a tutela dei creditori del «vecchio» manifesto, sottolineando tuttavia che la nostra richiesta di acquisto non poteva essere ignorata.

La seconda metà del 2015 e questi primi sei mesi del 2016 hanno visto dispiegarsi la ricerca di un punto di incontro tra le valutazioni economiche dei commissari liquidatori e le nostre.

Alla fine l’accordo è stato raggiunto su una cifra di 900mila euro (più Iva), da pagare in due tranche. La prima di 600 mila euro, la seconda di 300mila euro da pagare nel 2017. Alla cifra va aggiunta l’Iva (198 mila euro), versata al momento dell’accordo.

Alcuni giorni fa con la firma della compravendita presso un notaio si sono chiusi i nostri tre anni più difficili.

A questo abbiamo lavorato come Cda. A questo hanno lavorato i soci dipendenti e i tanti collaboratori del giornale, che hanno scritto per il manifesto alcuni gratuitamente, molti altri pazienti nel ricevere il pagamento delle proprie collaborazioni.

L’acquisto della testata è una bella notizia da comunicare ai lettori, senza i quali non saremmo riusciti nel raggiungere questo obiettivo. Dietro le cifre dei bilanci, delle proposte di acquisto, ci sono uomini e donne con la loro passione, sapere, intelligenza, esperienza politica: è questo il «capitale» del manifesto.

Tante le persone da ringraziare. In primo luogo, i legali che ci hanno accompagnato in questo percorso: gli avvocati Raimondo Becchis, Marina Belloni, Fulvio De Crescenzio, Andrea Fiore. Ce ne sono altri di amici e compagni che ci sono stati accanto per contribuire a mantenere in vita un giornale che ostinatamente rimane dalla parte del torto. Non li citiamo, perché l’elenco è molto lungo.

Da oggi siamo nuovamente padroni di noi stessi. Siamo quindi una «impresa recuperata». Puntiamo sulla autogestione, condivisione delle decisioni e dell’impegno di ciascuno.

Abbiamo una testata, abbiamo l’intelligenza e la capacità di fare informazione politica fuori dal coro dei media mainstream. Siamo un giornale, tuttavia, che opera in una realtà dove la produzione e circolazione dell’informazione assegna alla carta un ruolo ancillare rispetto altri media. Partiamo da questo principio di realtà, lavorando al tempo stesso nella costruzione di una nuova sinistra adeguata a un mondo tutto da cambiare.

E’ questa la sfida dei prossimi mesi e anni. Una sfida che vogliamo giocare al meglio delle nostre possibilità. A partire dall’essere tornati padroni de «il manifesto quotidiano comunista».

SEGUI SUL MANIFESTO

Nei giorni del primo weekend di giugno (3,4 e 5) si terrà a Pisa una nuova edizione di Hackmeeting, il raduno periodico che dal 1998 ogni anno raccoglie la comunità delle controculture digitali. La location scelta è il Polo Fibonacci, che per tre giorni ospiterà mediattivisti, ricercatori, o semplici appassionati che si riconoscono nella definizione di hacker che viene usata fin dall’Hackmeeting 2001 a Catania, «chi vuole gestire se stesso e la sua vita come vuole lui e sa s\battersi per farlo, anche se non ha mai visto un computer in vita sua».

Non una definizione riferita esclusivamente ad un campo del sapere, ma riferita in modo inclusivo ad una questione di metodo. Hackmeeting chiama a raccolta tutti quei singoli o quei collettivi che reclamano la libertà di smanettare, di sperimentare, smontare e analizzare i circuiti del proprio computer così come i processi di produzione del sapere. A fare da denominatore comune in questo percorso sono un approccio critico e consapevole dei rapporti di forza e lo spirito di curiosità e condivisione che caratterizza quell’etica «Do It Yourself» (Diy) delle controculture underground.

E’ quasi inutile sottolineare quanto le nuove tecnologie abbiano costituito in tempi recenti l’oggetto di gran parte dei temi all’ordine del giorno, dalla battaglia di Fbi contro Apple al dibattito sulla gestione dei dati personali dei social network, dalle criticità dovute all’oligopolio di Google e Facebook sul campo della Rete, al ruolo che Internet ha saputo svolgere come mezzo di diffusione di notizie durante mobilitazioni europee, anche quando i media nazionali hanno optato per un imbarazzante silenzio, come nel caso parigino di #NuitDebout.

In una fase simile, un percorso come HackMeeting, per la storia che ha e per i progetti che ha raccolto negli anni, può davvero essere uno spazio di costruzione di un’analisi fondamentale, che sappia analizzare le potenzialità liberanti della Rete senza cadere in tecno-feticismi, ma riconoscendo anzi le trappole che i nuovi meccanismi di sfruttamento stanno mettendo in atto.

All’evento sarà presente il gruppo di ricerca Ippolita, che da quasi dieci anni analizza le dinamiche sociali e politiche messe in atto dalla Rete, e recentemente ha pubblicato Anime elettriche, saggio che verrà presentato durante la tre giorni che affronta l’azione delle nuove tecnologie sulla nostra sfera emotiva e cognitiva (recensito su «il manifesto» il 12 aprile 2016). Sempre a cura di Ippolita si terrà inoltre un laboratorio di autodifesa digitale. Un altro intervento molto interessante sarà la presentazione del progetto NoBorderWifi della campagna #OverTheFortress, che ha provveduto nei mesi passati a fornire connessione internet ai migranti presenti nel purtroppo noto campo profughi di Idomeni al confine tra Grecia e Macedonia. Grazie al progetto di NoBorderWifi è stato possibile permettere a molti migranti di comunicare con le famiglie rimaste nel paese di provenienza o già in Europa, e di costruire refugees.tv, una piattaforma di auto-narrazione e inchiesta capace di portare online testimonianze delle condizioni del campo.

Tra gli altri talks in programma la presentazione del servizio di streaming autogestito streampunk.cc, un seminario sulla crittografia post-quantistica, la presentazione della piattaforma di crowdfunding per movimenti sociali Firefund e un dibattito organizzato da due progetti di scrittura collettiva, Maz e Sic, sulle nuove forme di autoproduzione nell’editoria digitale.

Non mancheranno inoltre laboratori su questioni di genere e dibattiti su intersezioni tra informatica e biologia.

Il programma è in evoluzione dinamica, e da qui all’inizio dell’evento i tavoli di dibattito potrebbero aumentare, vista la natura aperta dell’evento, che permette a chiunque di avanzare proposte sulla mailing list ufficiale di HackMeeting.

Previsti ospiti internazionali, così come le edizioni degli anni passati hanno visto la presenza di Richard Stallman, Emmanuel Goldstein e Wau Holland cofondatore del Chaos Computer Club, celebre club di hacking con sede in Germania.

Essendosi sviluppato a stretto contatto con le realtà sociali italiane (e non solo), Hackmeeting è un percorso antifascista, antisessista e anticapitalista, che si pone come obiettivo primario, per usare una citazione dello scrittore Primo Moroni diventata il motto del progetto, quello di «socializzare saperi senza creare poteri».

* eigenLab

privacy

«Quando ho scoperto che la gente crede più in ciò che dice Internet che nella realtà, ho capito che avevo il potere di farle credere qualsiasi cosa». Soprattutto in politica. È in questa frase il cuore della «confessione» di Andrés Sepúlveda, pubblicata ieri da Bloomberg Businessweek . Il contraccolpo è stato immediato, e non soltanto nei palazzi del potere sudamericano per i quali questo hacker colombiano, oggi detenuto in un carcere di Bogotà, sostiene di aver lavorato nell’ombra per otto lunghi anni. Il suo colpo più grosso sarebbe stato l’elezione del presidente messicano Enrique Peña Nieto, leader del Pri (che ieri ha negato tutto).

Il «lavoro sporco» di Sepúlveda era manipolare le campagne elettorali utilizzando tutti i metodi, perlopiù illegali, che la Rete consente, passando da server in Russia o in Ucraina. Ha spiato, rubato e diffamato, entrando nelle email e nelle agende digitali di candidati presidenti e governatori ma anche creando migliaia di falsi profili Facebook e Twitter che alteravano il dibattito politico, grazie al suo software «Social Media Predator». Sarebbe avvenuto in nove Paesi dell’America latina, dal Messico al Venezuela. Ma ciò che fa tremare gli ambienti politici del mondo intero — e da ieri infiamma i social network Usa — è una frase di Sepúlveda: «Ci sono due tipi di politica, quella che la gente vede e quella che realmente fa avvenire le cose. Io ho lavorato nella politica che non si vede». E che non è un’esclusiva dell’America Latina, visto che l’hacker trentunenne sostiene di aver rifiutato vari ingaggi in Spagna, perché «impegnato». E alla domanda se qualcosa di simile avviene anche in Usa, ha risposto: «Ne sono sicuro al 100%».

Intervistato nel carcere di massima sicurezza dove sta scontando una condanna a dieci anni per cospirazione e spionaggio ai danni dell’attuale presidente colombiano Juan Manuel Santos, Sepúlveda svela il «lavoro» da 600 mila dollari svolto in Messico. Con un team di hacker ha manipolato i social media creando false ondate di entusiasmo o derisione, ha clonato pagine web, installato «cimici digitali» nei computer dell’opposizione e rubato online le strategie dei rivali. Secondo il suo racconto, degno di un romanzo giallo o di un serial politico alla «House of Cards», era a libro paga solo di candidati di destra, come Peña o il colombiano Uribe, e ha usato tattiche di guerriglia digitale contro Daniel Ortega in Nicaragua e Hugo Chávez in Venezuela.

«Erano azioni di guerra sporca e operazioni psicologiche, spargevo dicerie: il lato nero della politica di cui nessuno sa l’esistenza ma che tutti possono vedere», ha detto. Ieri nessuno ha ammesso di conoscerlo, né l’entourage di Peña né il suo presunto mentore, il «consulente politico» Juan José Rendon. Che da Miami nega tutto ma conferma di essere stato contattato dalla campagna di Trump e di altri candidati alle Presidenziali Usa.

Sara Gandolfi

Questo articolo fa parte delle tradizionali «previsioni» di inizio anno pubblicate dal Nieman Lab, il laboratorio di studio del giornalismo nell’era digitale della Nieman Foundation for Journalism di Harvard.

Ho due nipotine di 4 e 7 anni, e come molte persone che hanno figli, anch’io sono preoccupata per il mondo che vedranno in futuro e per come lo affronteranno. Sono preoccupata per alcune ovvie ragioni: le conseguenze del cambiamento climatico, l’economia, le guerre, la violenza. Ma c’è un’altra cosa che mi preoccupa molto, forse meno comune: ho paura che le notizie e le informazioni su tutti questi argomenti importanti non saranno facilmente disponibili — o perfino evidenti -, ai miei nipoti e ai loro coetanei, mentre entrano in un mondo di adulti che, nel giro di una generazione, è destinato a essere popolato comunque da forti consumatori di notizie.

Se suona allarmistico o esagerato, lo faccio in modo intenzionale.

Certo, sono preoccupata dalla crisi dell’editoria come industria e dalla mancanza di un modello di business sostenibile a lungo termine per il giornalismo. Ma in aggiunta a tutte le sfide economiche e finanziarie che in tutto il mondo mettono in pericolo l’esistenza delle organizzazioni giornalistiche più importanti, penso che ce ne sia un’altra che inizia a stagliarsi all’orizzonte: il fatto che le nostre audience future – almeno quelle che danno valore al giornalismo tanto da dargli un posto rilevante nelle proprie vite – possano essere «distratte» in modo permanente.

Attirare l’attenzione sul giornalismo che le nostre redazioni producono ogni giorno è un passo ormai vitale nel modo in cui lavoriamo e diffondiamo l’informazione come industria. Se una volta per sviluppare l’audience e curare il pubblico bastava buttare una copia del giornale sul tavolo di un bar all’ora di colazione, o mandare un abbonamento alla biblioteca pubblica, oggi ci sono interi team dedicati solo a questo. Non è più un’idea tanto radicale dire alle redazioni che devono uscire là fuori e attrarre il proprio pubblico piuttosto che aspettare le vendite in edicola o le visite sul sito sperando che i lettori vengano a noi. Di più: oggi abbiamo competitor che non sono solo gli altri giornali simili a noi per tipo o area di copertura ma dobbiamo scontrarci con qualsiasi singola forma di media o di interattività immaginabile: con ogni contenuto, notifica, gioco, streaming video, immagine e così via.

Non è un panorama facile dove attirare traffico, aumentare il tempo di attenzione e sviluppare la fedeltà di lettura. Mi tolgo il cappello di fronte a tutti coloro che in tutto il mondo oggi lottano per questo. Quella per l’attenzione è una buona lotta, che bisogna fare.

Sviluppare l’audience e lavorare costantemente alla costruzione del brand sulle tante nuove piattaforme è un passo necessario per tutte le organizzazioni editoriali e giornalistiche. Ma, contemporaneamente, bisogna prestare sempre maggiore attenzione a quanto poco (o tanto) i lettori più giovani o potenziali conoscono del mondo che li circonda, di noi, dei nostri valori e del mucchio di lavoro che come professionisti dell’informazione facciamo ogni giorno.

Ammettere che il risultato dei nostri sforzi si trova nello stesso spazio visivo di qualsiasi altro segnale che richiede attenzione non è così scontato come potrebbe sembrare.

03pol2 the guardian_office

I miei amici insegnanti, sia alla scuola inferiore che al liceo, mi dicono che i loro studenti tendono a considerare tranquillamente «giornalismo» o «news» elementi variegati che trovano su tantissime piattaforme diverse: YouTube o Instagram, per esempio, allo stesso modo o forse più di quello che vedono in tv e leggono sul sito o la copia di un giornale. Un amico, padre di tre figli tra i 6 e i 12 anni, mi ha raccontato che ciascuno di loro interagisce con tanti media diversi in modo completamente autonomo. Sono esempi tutt’altro che scientifici, ovviamente, ma penso possano suggerire che ci sta sfuggendo qualcosa.

C’è una grande domanda che, come industria abbiamo ormai il dovere di porci: dove ci porterà tra 5 o 10 anni questo costante e permanente scivolamento del tempo di lettura e dell’attenzione?

Quando tutti i vecchi metodi smetteranno di funzionare, le richieste di attenzione saranno sempre di più e la familiarità con le fonti di prima mano sarà in declino, come riusciremo ancora ad avere l’attenzione necessaria al nostro giornalismo? Come riusciremo a dare le informazioni a chi ne ha più bisogno?

Non dico certo di ripristinare le antiche abitudini e buttare un giornale di carta davanti ogni portone, né di lanciare una campagna di massa per dire ai genitori di forzare la dieta giornalistica dei propri figli con app e notifiche privilegiate.

Penso però che come professionisti dobbiamo ancora mettere davvero gli occhi e la testa su quello che i lettori esprimono tramite facebook oppure su come alcune fortunate organizzazioni riescono a raggiungere audience particolari attraverso la funzione «Scopri» di Snapchat. Dobbiamo lavorare duramente e non smettere di innovare oggi, se vogliamo essere rilevanti anche domani.

Per avere almeno una chance che il giornalismo resti un fattore importante nella vita quotidiana delle future generazioni, credo che dovremmo lavorare a fondo per capire i lettori più giovani in un’ampio ventaglio di classi di età, e fare gli straordinari per seguirli mentre crescono e cambiano. Dobbiamo capire come si sta sviluppando il loro carattere, cosa li tocca, il modo in cui adottano le nuove tecnologie. Poi, dobbiamo fare in modo di dargli le notizie in contesti e formati con cui loro possano relazionarsi, senza diluirne la qualità.

Senza un mucchio di ricerca seria sui lettori di domani, stiamo creando un punto cieco che renderà sempre meno ovvia la nostra rilevanza come fonte di notizie, cultura e informazione. Per lenire almeno in parte queste preoccupazioni, è tempo di promuovere qualche ricerca davvero innovativa. Su chi oggi ha 10 anni, o perché no, su chi è in età prescolare.

Sasha Koren è la responsabile del Mobile Innovation Lab di the Guardian.

(copyright Nieman Lab)

FACEBOOK ascolta le conversazioni degli americani? Da qualche giorno se lo chiedono i commentatori sul forum Reddit.com dopo l’allarme lanciato sul sito da un ragazzo texano. Parlava con la sua ragazza della necessità di disinfestare il suo appartamento dagli insetti e nel frattempo usava l’applicazione di Facebook sul suo iPhone. Dopo pochi minuti il ragazzo che si identifica come “NewHoustonian” si è visto comparire un banner pubblicitario “Ti serve una disinfestazione?”, pur senza aver mai effettuato ricerche online su insetti o disinfestazioni. Così la sua attenzione si è puntata sul microfono del suo iPhone.
L’app americana di Facebook per iOS e Android, in effetti, ha dal 2014 una funzione che usa il microfono del cellulare per ascoltare ciò che avviene nell’ambiente dell’utente. Prende il controllo del microfono quando si scrive un aggiornamento e Facebook la userebbe — questa è la versione ufficiale — solo per riconoscere canzoni, sigle televisive e film che l’utente sta ascoltando o vedendo, secondo una funzionalità simile a quella della popolarissima app Shazam. Lo scopo? Risparmiarci la fatica di inserire a mano dettagli sul titolo dei contenuti multimediali che ascoltiamo, aggiungendo in automatico un link o un’anteprima video, così da facilitare la condivisione del contenuto (e l’ascolto o l’acquisto da parte dei nostri amici di Facebook).
«Noi non possiamo identificare conversazioni: i suoni sono solo utilizzati per trovare un match con il database e non sono mai conservati», dicono le istruzioni di questa funzione. Ma il suo product manager , Aryeh Selekman, non è stato altrettanto netto sul tema: «Oggi non riusciamo a targettizzare pubblicità su questi post, ma è qualcosa a cui abbiamo pensato, e potenzialmente lo faremo in futuro», dichiarò un anno fa Selekman all’autorevole testata online TechCrunch .
Che quel futuro sia arrivato? Da noi non ci sono ancora esplicite minacce all’articolo 15 della Costituzione, quello della segretezza delle comunicazioni: la funzionalità in questione per ora non è prevista dall’app di Facebook per l’Italia.
Matra personal assistant a riconoscimento vocale come Siri e oggetti “conversazionali” come Echo, lanciato da Amazon alla fine del 2014 — ossia il cilindro nero che si attiva a comando vocale e rimane in ascolto delle nostre richieste verbali per fornirci musica, previsioni del tempo e informazioni varie — le nostre parole appaiono sempre meno destinate a rimanere “parole tra noi”, come cantava Mina: oggi sono piuttosto un potenziale enorme per i colossi mondiali del commercio elettronico. «L’episodio americano è ancora in attesa di riscontri. Ma è indubbio che, parlando più in generale, in una società multimediale come quella attuale la dimensione acustica abbia un enorme potenziale di mercato: è uno strumento in più che permette di associare al dato audio pubblicità personalizzate per interesse », ci spiega uno dei massimi esperti italiani di privacy digitale, l’avvocato Guido Scorza. «Se pensiamo all’immediato futuro, nell’Internet delle Cose rientra senz’altro un interesse a pubblicità basate sulla raccolta di dati di questo tipo. Così come un’altra tendenza che pare destinata a crescere è quella per l’analisi degli stati d’animo, anche attraverso la registrazione vocale: è comprensibile il valore che per il marketing può avere la somministrazione di una pubblicità proprio nel momento in cui sono nello stato d’animo più adatto a quel tipo di suggerimento commerciale».
Ma allarmarsi, almeno da noi, è oggi ingiustificato: «Un caso come quello americano può assomigliare a un’intercettazione telefonica, anche se si tratterebbe più di un riconoscimento di certe parole chiave utili alla pubblicità che di un ascolto paragonabile a quello umano, e non rientrando nelle misure autorizzate dalla magistratura, da noi sarebbe vietato. A meno di una richiesta esplicita di consenso da parte di Facebook e di un assenso dell’utente. Però nel caso di una registrazione ambientale come questa, sarebbe necessario il consenso di tutti i partecipanti alla conversazione, non solo dell’utente che ha in mano lo smartphone» spiega Scorza.

Si sta ama­ra­mente con­clu­dendo la sto­ria di Libe­ra­zione attra­verso la liqui­da­zione della società edi­trice, la Mrc spa. Ciò com­porta il licen­zia­mento defi­ni­tivo di gior­na­li­sti e poli­gra­fici dopo quat­tro anni di cassa inte­gra­zione a cui non sem­bra pro­prio nes­suno avesse cre­duto real­mente. Si sono in realtà gio­cate par­tite estra­nee al patri­mo­nio di pro­fes­sio­na­lità e alle poten­zia­lità della testata. Que­sto ha fatto per­dere una occa­sione enorme.

Una vicenda tri­ste, tutto som­mato. Che, tra l’altro, ha anche regi­strato l’orrenda can­cel­la­zione del sito con la per­dita delle edi­zioni elet­tro­ni­che e la dis­si­pa­zione dell’archivio del car­ta­ceo. Una dam­na­tio memo­riae imme­ri­tata per­pe­trata immo­ti­va­ta­mente dalla pro­prietà. Dav­vero non si poteva ripen­sare un’altra mis­sion per una testata che comun­que ha tenuto botta per vent’anni? Dav­vero non si poteva aprire un dibat­tito ampio e dif­fuso su un “pro­getto infor­ma­zione” sem­pre più urgente e non solo per il Prc? Una gestione da sem­plici notai della vicenda si è rive­lata una scelta poli­tica nociva, soprat­tutto per il Prc e per i suoi mili­tanti, che dopo anni di cul­tura “dell’organo uffi­ciale” ora non rie­scono a calarsi nel ruolo di “lettore-autore-militante” den­tro una rete web oriz­zon­tale e sem­pre in evo­lu­zione. Ma que­sto sem­bra non inte­res­sare a un par­tito che ha scelto da tempo su que­sto di vivere sull’emergenza.

Al di là delle vicende pro­fes­sio­nali indi­vi­duali, dolo­rose come tante altre di que­sti tempi, la liqui­da­zione di Libe­ra­zione segna dav­vero una brutta pagina, per di più con­su­mata in com­pleto silen­zio. Nel corso della recente Con­fe­renza di orga­niz­za­zione del Prc è arri­vato un fle­bile segnale, imme­dia­ta­mente disperso. Non c’è mai stata una sede in cui si sia aperto un dibat­tito serio sul ruolo dell’informazione e della comu­ni­ca­zione. Il corpo del par­tito, pigra­mente, vivendo il tema come “cosa loro”, non ha mostrato, al di là di qual­che ecce­zione, alcun segnale di atten­zione. Risul­tato, da una fan­to­ma­tica sca­denza a un’altra, ora la pro­messa è che tra sei mesi…

Sem­bra più che altro un modo per cavar­sela, oggi. È troppo chie­dere una rifles­sione sul ruolo della rete e dei nuovi sce­nari media­tici? È così dif­fi­cile capire che c’è un qual­che tipo di rela­zione tra il con­cetto di rete web e il con­cetto di rete di mili­tanti e sim­pa­tiz­zanti? È vero, la rete web è un’organizzazione senza “orga­niz­za­zione”, ma que­sto è dav­vero così lon­tano dal nostro pas­sato o dal peri­me­tro delle “nuove pra­ti­che”? Dav­vero così lon­tano da noi? Un par­tito che si dice “rifon­da­iolo” avrebbe dovuto capire per tempo che su infor­ma­zione e comu­ni­ca­zione siamo ad un peri­co­loso punto di non ritorno. A sini­stra c’è ancora chi pensa che alla fine ciò che è cen­trale è “aprire un sito” e riem­pirlo di con­te­nuti senza poi pre­oc­cu­parsi di pro­muo­verlo nell’ambito “social”. Una buli­mia reda­zio­nale che cor­ri­sponde di fatto a un muti­smo di tipo nuovo, e incon­sa­pe­vole. I mili­tanti e i sim­pa­tiz­zanti del Prc non hanno dav­vero nulla da dire in pro­po­sito? Dav­vero basta loro, come recita il “paleo­li­tico” punto tre dell’ultima dire­zione nazio­nale, met­tere in comune gli indi­riz­zari?
 *ex gior­na­li­sta di Liberazione

Sign In

Reset Your Password