Sinistre

«Mattarella non mi rappresenta», le ha detto il carabiniere a Milano. Franca, una vita da militante fin dal 1949: «La cosa positiva è che così almeno parliamo dei diritti dei palestinesi»

 

«In questi giorni mi state cercando tutti voi giornalisti, poi quando finirà questa buriana non mi chiamerete più. E invece io ho tante altre battaglie da portare avanti». Un esordio in pieno stile Franca Caffa, almeno per chi la conosce da anni e sa la tenacia della persona. È stanca del can-can mediatico che l’ha coinvolta, ma allo stesso tempo vuole dire la sua. A partire proprio dall’episodio di sabato scorso alla manifestazione pro Palestina a Milano, e del suo dialogo col carabiniere immortalato poi dai video che lo hanno reso virale.

Partiamo da lì. Cosa è successo?
Sono andata proprio perché è stato chiesto di rinviarla, come se la coincidenza della manifestazione per i palestinesi e per la pace non potesse coincidere con il giorno della memoria. Se vogliamo ricordare è proprio il caso di prendere quanto più possiamo posizione per i diritti dei palestinesi contro le sciagurate e maledette politiche di Netanyahu. Questo è un modo per celebrare la giornata della memoria. Allora io ho deciso di andare, a passetti col mio bastone, e ho raggiunto la linea dello schieramento dei carabinieri in tenuta antisommossa con gli elmi e con i manganelli pronti. Mi sono detta, io voglio esprimere la richiesta di pace di tanti. Ho fatto una carezza sul volto di un carabiniere, che ha sorriso vedendo i miei capelli bianchi, e poi ho iniziato a parlare con loro, per aprire un dialogo, ragionare con loro. A quel punto ho richiamato le parole del presidente della repubblica quando ha detto che dopo aver tanto sofferto persecuzioni gli israeliani non possono rifiutare di riconoscere ai palestinesi il loro diritto ad avere uno stato. A quel punto uno di loro mi ha detto: «Io non l’ho votato, io non lo riconosco».

Come hai reagito?
Sono rimasta stupita, poi ho saputo che è stato anche trasferito per le sue parole perché costituirebbero offesa nei confronti di Mattarella. Penso che quel carabiniere fosse convinto che fosse un dialogo tra me e lui. Spero che ciò che ha voluto esprimere fosse una critica al presidente della repubblica senza mancare di rispetto. Spero che non si tratti invece di una concezione reazionaria e fascista che voleva esprimere. Se è la prima ipotesi quella corretta, mi auguro che il presidente Mattarella voglia fare un gesto di benevolenza nei suoi confronti e che venga reintegrato nel suo incarico. Alla fine da questa vicenda una cosa positiva c’è: in tanti stanno parlando delle nostre ragioni, quelle del rispetto dei diritti del popolo palestinese.

Da decenni lotti per i diritti. Che siano dei palestinesi così come dei lavoratori sfruttati. Com’è nata la tua passione?
Avevo 20 anni a Genova, era il 1949, mi sono iscritta alla Cgil quando ho iniziato a lavorare, dopo il liceo. Avrei voluto continuare a studiare, volevo fare medicina, ma la mia famiglia non aveva soldi. Nella primavera del 1951 mi sono iscritta al Partito comunista. Allora il Pci aveva due milioni di iscritti, dagli stabilimenti del Ponente uscivano gli operai come fiumi. Era una classe operaia cosciente e organizzata. Poi c’erano i contadini dell’entroterra che protestavano e il Pci li aveva affiancati perché si organizzassero in cooperativa. Quando vinsero le loro battaglie, dopo una manifestazione, vennero a Genova con delle vacche e si fermarono davanti alla Camera del lavoro. E sai chi parlò da un palco, che poi era semplicemente una scaletta di pochi gradini? Io. E sai perché? Perché ero l’unica che sapeva parlare in genovese! Comunque in quel tempo il Partito comunista istruiva i sui iscritti, li faceva crescere culturalmente, li rendeva coscienti dei loro diritti. Aveva cura che il rapporto tra noi comunisti e questa base popolare fosse costante. Ci organizzavamo in gruppi per andare ad ascoltare i lavoratori e per farci ascoltare.

Cosa che adesso la sinistra non fa più?
Questo è il problema della sinistra. Che non parla più con chi dovrebbe rappresentare.

Quando sei arrivata a Milano?
A Milano ci sono arrivata dopo un soggiorno in Francia dove ero andata perché licenziata per rappresaglia politica. Io e migliaia di compagni siamo stati licenziati ai tempi della legge truffa. Ero stata licenziata e mi chiedevo: adesso chi mi assume? Per un periodo non ho saputo come avrei passato la mia vecchiaia. Io sono stata licenziata per assenza arbitraria. Alle 10 del mattino mi è stata consegnata una lettera di ammonizione, a mezzogiorno la lettera di licenziamento. Le mie assenze arbitrarie erano partecipazione a scioperi generali indetti dalla Camera del lavoro di Genova. Dopo la parentesi francese, a Milano sono arrivata ai tempi della guerra in Vietnam. Ho ripreso la lotta, spesso ci fermavano e ci portavano in questura, dove ci interrogavano. Non firmavo mai il verbale ma poi ci lasciavano liberi. Tranne una volta quando invece hanno deciso di trasformare il fermo di polizia in arresto e così ho fatto l’esperienza di straordinario interesse di 13 giorni in carcere a San Vittore. Grazie a un’amnistia sono uscita.

Tu hai legato la tua vita a Milano alla lotta per il diritto alla casa. Ce lo spieghi?
Ancora una volta è stato a seguito di un’esperienza personale. Sono stata sfrattata e mi è stato dato in assegnazione un alloggio, totalmente inadeguato alla mia famiglia, nelle case popolari del quartiere Calvairate. Un appartamento in condizioni disperanti di degrado e abbandono. E allora ho dato la risposta a queste politiche ingiuste e indegne: ho costituito il comitato inquilini delle 3 mila case Molise-Calvairate-Ponti. Sottolineo che il nome era al maschile, ma eravamo più che altro donne. È importante che in casi come questo la direzione fosse in mano alle donne, con inquiline che conoscevano le condizioni in cui erano costrette a vivere insieme ai loro figli.

Oggi a Milano il tema della casa è centrale. Cosa ne pensi?
Penso che noi della sinistra siamo in una fase di sconfitta generale, che viene da lontano. Viene da un processo che da oltre 50 anni ci impoverisce di fronte a diritti che avevamo conquistato. Altro che conquistarne altri! Dobbiamo tornare alle radici. Non possiamo dimenticarci che i diritti di tutti e tutte sono a rischio. Altrimenti non cambieremo mai la situazione, che ha trasformato la mentalità delle masse popolari in quella dei sudditi. E non dobbiamo piegarci a una pseudo sinistra che invece porta avanti interessi altri.

Un’ultima domanda. Provocatoria. Chi te lo fa fare alla tua età (a settembre compirà 95 anni) di continuare a lottare?
Ma questa è una domanda priva di senso! Sto bene anche se con energie diminuite. La tendenza mia sarebbe stare in casa, uscire richiede sforzo e impegno. Per certi aspetti però posso dire che sto meglio, perché la tendenza a riflettere e a pensare, a cercare chiarezza nei pensieri e nel cuore, mano a mano che vai avanti si affina. Sono mortificata per il fatto che lasciamo ai giovani una situazione tanto difficile. Il fatto che non abbiamo saputo resistere all’ondata che come proletari ci ha ricacciato indietro. E quindi trovo un senso al mio vivere nel cercare di conoscere, di capire, e di lottare. Dovremo svegliarci!

* Fonte/autore: Alessandro Braga, il manifesto

Pannella

Dopo le critiche sul modo in cui abbiamo trattato la figura del filosofo-militante in occasione della sua scomparsa, in un’assemblea si sono ritrovate le voci e le generazioni di questo giornale

 

Viviamo in tempi di flame rabbiosi e istantanei sui social e bolle che balcanizzano le discussioni e rendono molto difficile il dialogo. E allora, quando sono emerse alcune divergenze con alcuni compagni e compagne storiche del manifesto a proposito del giornale dello scorso 17 dicembre dedicato alla scomparsa di Toni Negri, abbiamo scelto una strada in ostinata controtendenza: convocare un’assemblea. Per discutere, scambiarsi informazioni e punti di vista, mettere in comune esperienze.

Quest’incontro è avvenuto lo scorso 11 gennaio, nella nostra redazione di via Bargoni. Nella stanza dei caporedattori si sono strette una accanto all’altra le diverse generazioni del manifesto. «Questa direzione ha il compito di non sfuggire alle polemiche. Dunque, anche le critiche dure sono un indice di vitalità», è la premessa di Andrea Fabozzi. Assieme a lui, ha dato il benvenuto anche Massimo Franchi, a nome del Cda. E c’era anche Tommaso Di Francesco, che era assieme a Luciana Castellina quando, nel 1969, il gruppo del manifesto venne radiato dal Pci.

APRE IL DIALOGO a più voci quest’ultima, una delle promotrici della lettera che ha dato il via alla discussione.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Il manifesto e Potere operaio: un confronto che faremo

Precisa subito che il dissenso su come abbiamo scelto di raccontare la figura di Negri «non è generazionale». «La commemorazione di Toni Negri è apparsa così forte da apparire come identità del giornale – è la preoccupazione di Luciana – Per questo sentiamo il bisogno di momenti di collegamento che ci riportino a posizioni più comuni».

Tocca a Famiano Crucianelli esplicitare ulteriormente. Con un avvertimento: nessuno ha l’intenzione di ristabilire qualche ortodossia o omogeneizzare la «ricchezza della pluralità», la biodiversità propria delle culture politiche che attraversano il giornale. «Già il gruppo originario del manifesto aveva una sua pluralità interna – precisa Famiano – Non era un gruppo bolscevico, c’era una dialettica fortissima. Non a caso ci sono state discussioni e rotture negli anni: ma ciò non ha mai rappresentato la desertificazione di una storia comune».

Poi ricorda le posizioni dei deputati del Pdup in occasione degli arresti del 7 aprile: «Votammo contro leggi emergenza e contro l’arresto di Negri. Girammo le carceri speciali per avere un dialogo con quei compagni. Demmo una mano a tirar fuori dal carcere anche Oreste Scalzone, afflitto da problemi di salute». Ma l’impressione di Famiano è che «per il ricordo di Negri si sia avvertita una semplificazione che rappresenta un torto a lui stesso: è apparso come un intellettuale e un filosofo sofisticato, ma è stato e si è sempre definito un militante politico».

Da qui discende che avremmo mancato di evidenziare «la concretezza politica di quella storia: ciò che è avvenuto dalla metà degli anni Settanta in poi. L’errore del compromesso storico da una parte e la germanizzazione del paese per cui il movimento si infilò in un angolo». Il nodo è tutto politico e per certi versi ancora attuale, dal momento che «le condizioni soggettive perché possa maturare l’alternativa non sorgono spontaneamente».

LA PAROLA va a Massimo Anselmo, compagno del manifesto napoletano. «Negli anni Settanta stava avvenendo una mutazione dei rapporti di forza tra le classi e internazionali che ad esempio Lotta continua, dalla quale provenivo, non riusciva a leggere – racconta – Cosa che invece faceva il manifesto. Oggi bisogna capire come è cambiata la pelle del produttore. Dobbiamo essere elemento collettivo di inchiesta sociale».

È vicino a questo giornale fin da allora anche Maurizio Iacono. Il quale ricorda di aver chiesto lui stesso a Negri, nel 1983, di scrivere dalla galera un articolo per il manifesto sul centenario della morte di Marx. Oggi accoglie la sfida dell’innovazione delle categorie di lettura, ma avverte il pericolo che anche la teorica critica sia digerita dal sistema. «C’è un grande revival internazionale di Marx – afferma – Ma bisogna stare attenti a non avere nessuna nostalgia. Non bisogna tornare indietro. Siamo in un’epoca in cui sembra si sia persa la profondità, tutto sembra giustapposto in superficie: persino le forme eversive sono compatibili. Abbiamo bisogno di trovare un Uno nuovo di fronte a un Molteplice sparso che il neoliberalismo ha dimostrato di riuscire a riassorbire».

NEL GIRO di pochi interventi siamo arrivati alle sfide contemporanee.

Marco Bascetta sottolinea che questo sguardo ha animato il giornale in occasione della scomparsa di Negri. «Gran parte degli autori hanno lavorato con Toni nella fase del cosiddetto postoperaismo – argomenta – A partire dagli anni Novanta, Toni diventa militante in un altro modo». È il Toni Negri dell’inchiesta metropolitana, del postfordismo e delle nuove forme di produzione. «Toni nella sua vita è stato molte cose – prosegue Marco – è stato cattolico, poi socialista, ha vissuto in un kibbutz, poi operaista- Noi abbiamo pensato fosse utile raccontare la fase in cui interloquì con i nuovi movimenti. Possiamo dire che da cattivo maestro era divenuto buono scolaro dei movimenti».

Questa fase, durata fino a oggi, quasi trent’anni, è anche quella che accompagna l’emersione di Negri sulla scena globale. «Il lavoro teorico del Negri della quadrilogia con Michael Hardt da Impero in poi, anticipata da Il lavoro di Dioniso edito da manifestolibri, ha avuto una risonanza in tutto il mondo che per un intellettuale comunista italiano è un caso più unico che raro – constata Marco – Per trovare un fenomeno analogo dal punto di vista della diffusione planetaria forse bisogna tornare a Gramsci. Dunque, non è si trattato solo di raccontare un personaggio, ma di dar conto di un fenomeno teorico politico vasto».

Più vasto è divenuto anche l’orizzonte di questo giornale, nel corso di questi decenni. «In una storia lunga – sostiene Marco – Entrano più persone e anche altre correnti. Il solco tracciato da Romolo ha importanza fondativa, ma Roma è negli anni è andata oltre quel solco, è cresciuta».

A PROPOSITO di decenni, Giansandro Merli propone uno sguardo dal punto di vista della sua generazione, cioè di quelli che sono nati negli anni Ottanta. «Siamo stati giovani in periodi diversi e abbiamo conosciuto Toni in momenti diversi – premette – Io l’ho conosciuto nel 2009, in un’assemblea cui partecipavano la Fiom, l’Flc, sindacati di base, studenti, centri sociali». Per Giansandro, il manifesto dello scorso 17 dicembre ha marcato la differenza con tutti quelli che non accettano che «uno degli intellettuali italiani più noti al mondo sia un comunista e lo sia stato fino alla fine». «Quel giornale con Negri in copertina ha venduto molto – sostiene – Se dovessi trovarci un limite direi che forse non abbiamo spiegato abbastanza quanto la sua opera sia discussa dappertutto nel pianeta».Per i compagni che sono venuti a trovarci in redazione, il giornale ha commesso soprattutto l’errore di «semplificare» la complessità delle vicende degli anni Settanta.

Ciò emerge, sostiene Vincenzo Vita, dal commento in prima pagina affidato a Paolo Virno (uno che su molte cose con Negri non era d’accordo, a cominciare dall’inesauribile ottimismo antropologico del Professore). Il suo testo contiene un inciso molto duro contro «una canaglia dell’antico Pci», a proposito della persecuzione giudiziaria contro i movimenti.

«Il Pci ha avuto luci e ombre: il 7 aprile è un’ombra, e lo abbiamo segnalato – replica Andrea Colombo – Certo, si poteva fare una discussione storica, ma forse non era il momento. Si può sempre fare, senza andare a cercare le ragioni o i torti di quella che fu non soltanto la sconfitta di una battaglia ma la guerra perduta».

Andrea inquadra i fatti della seconda metà degli anni Settanta nel contesto della grande sconfitta: «Sarebbe sproporzionato parlare solo degli errori di Negri, che pure ci furono. Allora lo avvertivamo tutti, anche il Pci cercava vie di uscita. Eravamo fortissimi ma capivamo che stavamo per perdere. Il Toni dirigente politico fu uno dei pezzi di questa sconfitta, non il responsabile».

PER ROBERTO Ciccarelli la scelta del manifesto, su spinta soprattutto di Rossana Rossanda, di intraprendere in solitaria una campagna garantista in occasione dei processi del 7 aprile rappresenta un punto di svolta politico-culturale che ha proiettato il giornale nel futuro, oltre quegli anni Settanta. «Questo giornale nel 1979 creò un caso politico-giornalistico – ricorda Roberto – Lo fece contestando l’impianto di quel processo e la cultura giuridica che lo aveva ispirato. Lo fece trasformandosi e diventando il giornale che aspira a parlare alla sinistra intera e quindi all’intera società. Fu un momento fondativo».

Poi Roberto racconta un retroscena dell’intervista che fece a Toni Negri lo scorso luglio, in occasione dei suoi novant’anni. «Quella discussione poteva avere tagli diversi- -ricorda Roberto – Ma fu lui a propormi di farla sul suo rapporto con il manifesto. Il che fa capire l’affetto che nutriva verso questo giornale e per Rossanda, con la quale ebbe un rapporto che diventò critico e anche molto duro, come accade tra comunisti». Racconta anche del 1997, di quando aveva scelto di tornare in Italia, in prigione, perché era convinto che da quella posizione avrebbe strappato l’amnistia per gli anni Settanta: «Fu in quell’occasione, prima di tornare, che Rossanda gli disse: ‘Non partire, è una trappola’. Proprio lei, che quindici anni prima gli aveva contestato la scelta di riparare in Francia».In mezzo a questo rovesciamento, e a questo rapporto tra due grandi intellettuali e militanti politici, c’è il manifesto. «Toni da comunista ha letto in chiave politica il suo rapporto con questo giornale – conclude Roberto – Il che ci offre l’occasione di discutere del manifesto del presente e del futuro».

«NOI FACCIAMO un quotidiano – dice Andrea Fabozzi ponendo la critica e la discussione come attitudini permanenti – E facendolo ci sottoponiamo ogni giorno al giudizio di tutti: degli amici e dei compagni, ma innanzitutto di un pubblico vasto. Non abbiamo nessun interesse a chiuderci alla critica e certamente abbiamo ogni giorno tante cose di valore ma anche tante lacune. Viviamo del resto tempi difficili da leggere e raccontare, con di fronte a noi la peggiore destra e proprio il fatto che sia arrivata al governo è un’altra prova dei nostri limiti. Per questo che le vostre critiche, che non abbiamo condiviso, siano arrivate sulla memoria di Negri ha favorito l’impressione che si trattasse solo di discussione interna. Non può essere così e vi invito a starci addosso anche su altre questioni».

Luciana Castellina rievoca i momenti delle divisioni con Negri. Come sui consigli di fabbrica: il manifesto gli attribuiva una funzione positiva, di pungolo al sindacato, per Potere operaio erano uno strumento riformista. E avverte: «Non siamo un giornale come gli altri, nasciamo dalla critica al giornalismo e dal rapporto passivizzante tra chi scrive e chi legge».

Del resto, in quale giornale come gli altri ci sarebbe stata una discussione del genere?

* Fonte/autore: Giuliano Santoro, il manifesto

LONDRA. Si vota il 12 dicembre, l’ennesima volta in cinque anni. No, Godot-Brexit non è arrivato, chissà se e quando lo sarà. Finora è stata una campagna elettorale moscia, floscia, in differita, al buio e al freddo. A iniettargli adrenalina è il programma elettorale del New “Old” Labour di Jeremy Corbyn, presentato ieri a Birmingham. Prende le mosse da quello del 2017, che aveva svaporato i sogni di vanagloria – e di maggioranza assoluta – di Theresa May, consentendo al Labour un cospicuo recupero sui Tories. Ma va oltre. Prevede un potenziamento e una massiccia de-privatizzazione della sanità pubblica, cure dentali gratuite, centomila nuovi alloggi l’anno entro il 2024 per dare una casa ai senzatetto, riconversione energetica verso le rinnovabili e ritorno all’occupazione “verde” delle zone deindustrializzate, nazionalizzazione di energia elettrica, gas, acqua, poste, banda larga gratuita. Stop alla macelleria sociale e dell’austerity vampiresca del controverso sistema Universal credit degli etoniani, con la reintroduzione di un modello di sussidi umano e il blocco dell’età pensionabile a sessantasei anni; e fine delle tasse universitarie più care d’Europa, nazionalizzazione delle ferrovie e autobus gratuiti per chi ha meno di venticinque anni. Aumento del salario minimo da otto a dieci sterline l’ora. In politica estera, un nuovo internazionalismo, che significa, essenzialmente, basta servire la mitragliatrice americana quando spara democrazia in lungo e in largo.

CORBYN SPERA gli valga le chiavi di Downing Street: proprio lui, che ha passato la vita a urlarci davanti con dei cartelli al collo. Mettiamola così: se per alcuni non si era mai visto niente di simile, ambizioso, redistributivo dai tempi dei Levellers, per altri non è che il minimo indispensabile. E alcune delle politiche più ambiziose, come mantenere la libertà di movimento delle persone, l’abolizione delle scuole private votate dalla base all’ultimo congresso e la sacrosanta decarbonizzazione dell’economia entro il 2030, sono state abbandonate, soprattutto per pressione dei sindacati.

Eppure anche il solo scorrere queste proposte, accolte dai consueti, striduli “chi paga?” dei media di regime incapaci di considerare una società che non sia solo per azioni, fa l’effetto di un tonico. A pagare saranno i troppi miliardari dai capitali in perpetua fuga, le compagnie petrolifere che ammassano profitti assassinando la biosfera: la cuspide dell’un percento, che ha nella City la propria capitale europea. Quanto a Brexit, ci sarà un secondo referendum dopo che si sarà rinegoziato un accordo che prevede la permanenza nell’Unione doganale dell’Ue e “prossimità” al mercato unico. I cittadini europei residenti in Uk non dovrebbero passare più attraverso la trafila di richiesta del settled status.

QUESTA È L’UNICA occasione – per lui settantenne e per i suoi concittadini più giovani che non vogliono invecchiare in una terra ecologicamente e socialmente desolata – di raddrizzare la società più privatizzata e diseguale d’Europa, dove la stampa è quasi del tutto in mani private, mendaci e destrorse, dove la crisi economica la pagano le vittime arricchendo i perpetratori, dove le vendite di Suv aumentano man mano che la catastrofe climatica priva di acqua e terra coltivabile il Sud del mondo; o anche solo dove la persistenza di una famiglia sur-reale ammantata in ermellino sta a dimostrare che no, la legge non è uguale per tutti (cfr. il rampollo Andrew). Anche solo questo basterebbe perché l’atroce angoscia baudelairiana sconficcasse il suo nero vessillo dal nostro cranio. Dopotutto se una cosa del genere succede qui, nella capitale mondiale della disuguaglianza, può davvero succedere ovunque.

IL DISTACCO NEI SONDAGGI? Sedici punti dai Tories, ma Boris Johnson si sta confermando elettoralmente mediocre, capace solo di ripetere Get Brexit done, lo slogan Tory che ricorda la strong and stable leadership di Theresa May.

Con buona pace dei Giufà della post-politica, dopo tanto giocare a rimpiattino, destra e sinistra sono tornate visibili. C’è solo da sperare che, come col blairismo neoliberale, il resto d’Europa si affretti a imitare il corbynismo socialista. Sarebbe la fine del There Is No Alternative blair-thatcheriano, del realismo capitalista di Mark Fisher: la classe, dopotutto, non è acqua.

* Fonte: Leonardo Clausi, il manifesto

Sinistra. «Chiunque abbia interesse a lottare contro la povertà ed è saldamente ancorato a una visione internazionalista è un nostro interlocutore», dice il leader di Diem25 al manifesto

Se ne parlava da mesi. Adesso la notizia è arrivata: il 30 novembre comincia ufficialmente l’internazionale progressista di Yanis Varoufakis e Bernie Sanders. I due outsider della sinistra radicale – il primo a capo di Diem25, il secondo leader del movimento Our Revolution, nato come risposta left all’elitarismo del democratic party – lanceranno da New York un appello per costruire una nuova alleanza sovracontinentale contro l’oscena fioritura di fascismi e nazionalismi.

Dinanzi alla riconfigurazione globale del neoliberismo su posizioni nazionaliste e xenofobe, il nuovo soggetto si rivolge a partiti, movimenti, organizzazioni interessati al ribaltamento dell’attuale sistema-mondo per rilanciare le parole d’ordine della giustizia globale, della lotta alla povertà, del salvataggio in extremis di un ecosistema sventrato dalle mani, tutt’altro che invisibili, del mercato.

Un umanesimo che rimastica le stesse parole che animarono, più di 15 anni fa, le lotte che da Seattle a Genova ci regalarono le ultime fotografie di un’utopia a portata di mano. Un programma guardato con interesse anche dal neo presidente del Messico Lopez Obrador, che punta a creare un vasto e solido schieramento radicale.

«Non è il momento adatto per assecondare le divisioni. Chiunque abbia interesse a lottare contro la povertà ed è saldamente ancorato a una visione internazionalista è un nostro interlocutore e noi il loro», ci dice Varoufakis al margine di una conferenza stampa dove la crisi dell’«Europa di Francoforte», la stessa che ha decretato la fine del sogno nato dal referendum greco del 2015, è un’evidenza.

Che fare? L’ex ministro delle finanze greco non ha dubbi: dialogare con tutti i partiti, con le associazioni, con i movimenti, con chi vuole tenere assieme l’Europa. Perché a volerla disgregata, spiega, sono solo gli attuali leader che sono pronti a sacrificarne la tenuta sull’altare dell’austerity che affama e chiude le frontiere

Cita proprio il caso Brexit per sottolineare che se la working class britannica ha detto no al suo progressivo sfruttamento a favore delle oligarchie finanziarie non è certo per antieuropeismo: è semplicemente una lotta di classe. A chiedergli cosa ne pensa dello scontro italiano contro le regole di Maastricht di Salvini non esita a rispondere: «L’attuale governo italiano e la Commissione europea perseguono gli stessi fini: redistribuire la ricchezza a favore di chi è già ricco. Lo scontro è in atto solo apparentemente: il governo italiano non è davvero interessato a ridiscutere gli accordi per combattere la crescente povertà, per aprire i confini, per incrementare le misure sociali smantellate da anni di ferreo liberismo. Questo conflitto è una fake news, buona solo per fare propaganda e al massimo per ottenere vantaggi fiscali per i più agiati».

La lotta alla povertà è anche lotta per la libera circolazione delle persone. Non riconosce i confini il progetto di Varoufakis. «Sì, sono un genuino internazionalista. Sono contro ogni confine e sono marxista. Sostengo e apprezzo ogni iniziativa capace di far circolare una cultura dell’accoglienza. Mediterranea, i sindaci che proclamano aperti i porti alle navi che hanno soccorso i migranti, sono l’Europa a cui guardo».

E così la vicenda di un comune piccolo come Riace, del suo sindaco che ne ha fatto casa del mondo, la nave che infrange le onde del razzismo, incarnano e rilanciano il sogno glocal che dobbiamo ricominciare a frequentare.

* Fonte: Graziella Durante, Giovanna Ferrara, IL MANIFESTO

Giorno dopo giorno vediamo gonfiarsi la nube nera che in parte ha già occupato, la nostra esangue democrazia. Ha il volto rozzo di un ministro di polizia e una voce potente che dice di essere vox populi.

Divora e dissolve ogni giorno un pezzo del nostro patrimonio civile: l’universalismo dei diritti, il principio di reciprocità e il rispetto per l’altro, il primato della legge e la certezza del diritto, la memoria storica dei nostri orrori e dei nostri peccati travolta dall’urlo roco “prima gli italiani”… Ha divorato anche, in 100 giorni, il proprio partner di governo, riducendone ai minimi termini l’audience, colonizzandone il linguaggio, ridimensionandone l’agenda. Oggi il governo gialloverde, il governo Conte, è per i più il governo Salvini, che vede crescere nei sondaggi il proprio capitale elettorale perché dimostra di saper occupare tutta la scena e soprattutto di essere “forte” (dunque credibile). La Forza è tornata a essere risorsa politica principale. Non la Ragione. Non la Giustizia. Nemmeno l’Onestà. Nessuna delle classiche virtù repubblicane. Ma la semplice, nuda, ostentata Forza (la risorsa primordiale di ogni comando), messa al servizio della Paura. Della capacità di far paura come risposta alle paure diffuse nel “popolo”: non ai loro bisogni, non ai loro diritti lesionati, ma a quelle paure su cui Salvini galleggia, e intende galleggiare a lungo.

Diciamocelo pure. A Matteo Salvini di risolvere il problema delle migrazioni, di ridurre l’insicurezza dei cittadini, di levare dalla strada le figure che a quell’insicurezza danno corpo, non gliene può fregare di meno. Anzi, lavora per diffonderla e aggravarla. Il decreto che porta il suo nome va esattamente in questa direzione: le parti più oscene del suo dispositivo (la riduzione ai minimi termini dei permessi umanitari, lo smantellamento di fatto degli Sprar, il taglio della spesa per “integrare”) renderanno meno controllabile e più “inquietante” quella massa di poveri tra i poveri, come appunto inquietante è tutto ciò che non è pienamente riconoscibile e integrabile in procedure condivise. Ne spingeranno una parte nell’ombra e nel “mondo di sotto”. Garantiranno manodopera a poco prezzo per la criminalità più o meno organizzata. E permetteranno alle sue camicie verdi di continuare a capitalizzare su quel magma informe e sul disagio che ne consegue (la profezia che si auto-adempie).

La sentiamo venire quell’onda nera. E ne siamo spaventati, perché sappiamo che è già stato e per questo è possibile. Siamo già caduti: noi, l’Europa… Basta leggere l’incipit della quarta di copertina dell’ultimo libro di Antonio Scurati “M. Il figlio del secolo”– «Lui è come una bestia: sente il tempo che viene. Lo fiuta. E quel che fiuta è un’Italia sfinita, stanca della “casta” politica, dei moderati, del buonsenso» -, per sentire un brivido nella schiena. Parla della resistibile ascesa di Benito Mussolini al potere. Sappiamo cosa significa – lo vediamo in cronaca -, ma non sappiamo come resistere. Le nostre parole suonano stracche. Parlano a noi, se va bene. Ma non alla massa che lo segue come la tribù segue lo sciamano che ne esorcizza i terrori. Quella segue le “sue” parole, che non ammettono repliche perché sono vuote di senso ma hanno un suono profondo (hanno l’opacità della pietra), non esprimono ragionamenti ma sentimenti, umori, rancori di quanti si sentono “traditi” e per questo non credono più a nessun altro linguaggio che non sia quello della vendetta, del cinismo e del ripudio dei propri stessi antichi valori (le tre maledizioni che James Hillmann associa alle risposte perverse a un tradimento subito).

Riportarli al “lume della ragione” – organizzare una qualche Resistenza – vorrebbe dire in primo luogo tentare di curare quella ferita. Risarcire e riparare. Dovrebbe essere questa la strada per erodere quel seguito limaccioso su cui prospera il fascino indiscreto del Demagogo. Ma per far questo occorrerebbe un nuovo linguaggio, lontano dal gergo stantio di una sinistra esplosa. E soprattutto una nuova forma di pensiero: un pensiero non omologato, non ripetitivo del recente passato, non conforme ai dogmi del pensiero unico fino a ieri dominante. Anche questo dobbiamo dircelo con chiarezza: l’opposizione che oggi viene “dall’alto”, l’opposizione dei columnist dei principali giornali, l’opposizione di Repubblica, del Corriere, de La Stampa, così come quella di Bankitalia, della burocrazia ministeriale, dei banchieri e dei finanzieri è benzina sul fuoco populista. Non è richiamando i vincoli di bilancio e le tavole di calcolo di Bruxelles. Il “rigore dei numeri” e della matematica in contrapposizione al “linguaggio magico” degli altri (così ieri su La Stampa). Difendendo la privatizzazione financo dei ponti crollati o la legge Fornero nella sua (crudele) integrità. Ed erigendo a eroi i commissari europei messi a guardia della loro austerità, che si prosciugheranno quei bacini dell’ira. Non è difendendo l’ Europa così com’è che si eviterà il contagio.

È, al contrario, lavorando con umiltà e senza velleità di primogeniture alla costruzione di un fronte ampio trans-nazionale, europeo, di forze determinate a combattere l’austerità e l’avarizia matematica in nome di un reale programma di redistribuzione della ricchezza e di restituzione dei diritti ai lavoratori e ai cittadini, riconoscendo e denunciando i “tradimenti” consumati e le assenze più o meno colpevoli. C’è chi ci sta lavorando. Auguriamoci che lo faccia assumendo un pensiero largo, senza recinti né bandierine.

* Fonte: Marco Revelli, IL MANIFESTO

MILANO. Un universo di anime e bandiere della sinistra dopo anni di conflitti interni si è ricompattato ieri in piazza San Babila a Milano. Tutti uniti contro la deriva sovranista ed euroscettica promossa dall’asse Salvini-Orbán. I nemici esterni che conciliano le divergenze.
Mentre a palazzo Diotti, nella sede di una prefettura blindatissima, si incontravano il leader leghista e il premier ungherese, in piazza è scesa la Milano antirazzista. Dall’Anpi ai sindacati, dal Pd a Leu, dalle associazioni di richiedenti asilo al mondo cattolico, l’Ars e i centri sociali. Ci volevano Orbán e Salvini per riunire – come ai tempi delle proteste contro Berlusconi – un fronte spaccato.

La Milano dell’accoglienza ha risposto all’appello dell’associazione dei Sentinelli e del comitato Insieme senza muri. Le stesse realtà che proprio nel capoluogo lombardo hanno organizzato a giugno la grande tavolata multietnica a favore dell’integrazione. Oltre 10 mila persone si sono riunite per dire no all’idea di Europa e di Italia promossa dal ministro dell’Interno. «Salvini is not Italy, Orbán is not Europe», recitavano alcuni striscioni. Ma l’immagine simbolo è stata il manifesto della Diciotti: la nave messa in salvo da due grandi mani, alzata su 500 cartelli alla fine della manifestazione. Luca Paladini, il portavoce dei Sentinelli, più volte minacciato per le sue battaglie sui diritti civili, ha voluto dedicare la giornata ai migranti bloccati per giorni nel porto di Catania.

Si temevano disordini tra forze dell’ordine e antagonisti, come già successo in altre contestazioni al leader leghista. Ma così non è stato. Unico «fuori programma», quando gli attivisti del centro sociale Il Cantiere hanno protestato in via Fieno, ricoprendo i muri della sede del Consolato ungherese con le impronte di mani rosse di vernice. Un corteo varipinto, formato da giovani, anziani, bambini, ha poi sfilato lungo corso Venezia, scortato dagli agenti in tenuta antisommossa.

Ma prima, gli interventi in piazza San Babila, mentre i calciatori della Fc St. Ambroeus, la prima squadra di rifugiati iscritta alla Figc, improvvisavano un allenamento.
Sul palco, anche i rappresentanti del principale bersaglio del governo: le Ong che operano nel Mediterraneo. «Siamo stati chiamati taxi del mare e vicetrafficanti», ha ricordato Riccardo Gatti, comandante delle navi di Proactiva openarms. «Il governo sta dando altre imbarcazioni alla guardia costiera libica, noi abbiamo visto cosa fanno, come trattano i migranti, calpestando i diritti. Nessuno dice più quanta gente sta morendo in mare, vogliono distruggere l’umanità, vedendo questa piazza credo che non ce la faranno».

«Un’Europa senza confini» il messaggio lanciato ai due leader barricati a poche centinaia di metri nella sede della Prefettura. «Stiamo assistendo a una situazione di pericolosa regressione dove sforzi della nostra Marina Militare e delle Ong sono stati cancellati in pochi mesi di scellerato governo», ha affermato l’assessore milanese al Welfare Pierfrancesco Majorino. «A Salvini diciamo che non ci faremo portare da lui nel Medioevo».
Ma la scena è stata dei tanti profughi e richiedenti asilo che hanno preso il microfono e parlato alla piazza. «Non ho paura solo per me. Ho paura anche per voi italiani», è stato il commento di uno dei giocatori della Fc St. Ambroeus. La squadra e gli altri migranti, come quelli della comunità di Sant’Egidio, hanno poi guidato il corteo in prima fila, fino a sera.

Tra gli ultimi a parlare anche l’ex presidente della Camera Laura Boldrini: «Voglio dire a Salvini che noi in questa piazza non abbiamo paura del futuro. Noi non abbiamo paura degli altri, di chi è diverso da noi, anzi questa diversità ci arricchisce. Non possiamo permetterci di disperdere le energie di questa piazza. Dobbiamo fornire un’alternativa, un’iniziativa politica innovativa, mai fatta prima».

Un appello rivolto a una sinistra che da tempo non si ritrovava così unita.

* Fonte: Mattia Guastafierro, IL MANIFESTO

Da qualche parte bisognerà pur cominciare a ricostruire la sinistra italiana, che raccoglie voti nei quartieri della buona borghesia, ma che non ha più cittadinanza nelle periferie urbane e sociali. Rifondare è il verbo più ricorrente all’interno di questo mondo politico sconfitto e marginalizzato. Ma a partire da che cosa? Su quali fondamenta costruire un nuovo ruolo sociale e quindi politico per gli eredi di una tradizione legata alla parola «popolo»?

Forse tornando alle origini pre-politiche, proprio «là dove tutto è cominciato», con le forme concrete di associazionismo organizzato e solidale. È questa, almeno, l’idea che sta al centro del libro di Salvatore Cannavò Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).

La prima convinzione da cui muove l’analisi è che l’attuale crisi della sinistra abbia origine dal momento in cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, «ha accettato di gestire un compromesso sociale al ribasso». È la lunga parabola dell’identità che Cannavò riassume con la formula «non più e non ancora»: non più partiti (e sindacati) del proletariato con aspirazioni rivoluzionarie, ma non ancora vere formazioni socialdemocratiche, per esempio sul modello scandinavo.

Il passaggio successivo, dopo una minuziosa analisi storico-politologica a partire dalle cooperative ipotizzate da Karl Marx, è la proposta del ritorno a un mutualismo che l’autore considera «una risorsa ancora inesplorata, anche sul piano politico generale, come strumento per ricominciare a tessere una tela che è stata strappata da troppe parti e da troppi protagonisti».

Ma «oltre ad esercitare forme di solidarietà, il mutualismo ha senso soltanto se assume anche forma di resistenza, se rappresenta centri capaci di organizzare lotte e rivendicazioni». Cioè deve assumere una connotazione conflittuale. E su questo aspetto il libro insiste non poco: «Il mutualismo conflittuale è dunque politico nel senso che mentre esiste rivendica già il nuovo. Esprime una solidarietà “contro” lo stato di cose presente, ma esige anche una solidarietà “per”, fatta di risposte immediate a bisogni immediati. Il mutualismo è politico perché valorizza di nuovo “l’agire in comune”, la cooperazione non solo produttiva, ma morale, intellettuale, solidale su cui si è fondato il movimento operaio nella storia. L’attuale fase di smarrimento richiede la stessa capacità di inventiva e innovazione di cui diedero prova gli operai e gli intellettuali della seconda metà dell’Ottocento».

La conclusione di Salvatore Cannavò è netta: «Se una sinistra vuole avere un futuro dovrebbe avere il coraggio di riscoprire le sue origini».

FONTE: Giampiero Rossi, CORRIERE DELLA SERA

«Con gli occhi per terra la gente prepara la guerra». Mi è tornata in mente, quella strofa lontana, in questi giorni feroci dell’odissea dell’Aquarius, da ieri elevata ufficialmente a sistema – con Salvini che reitera la chiusura dei porti alle ultime navi di profughi in arrivo – in cui tutto, ma davvero tutto, sembra perduto: la politica, l’umanità, l’elementare senso di solidarietà, noi stessi, il nostro rispetto di noi e degli altri cancellato da un ministro di polizia che fa della pratica disumana della chiusura dei porti un metodo di governo… Mi è tornata in mente perché è quello che sento nell’aria, che leggo nelle facce, negli sguardi, nei cattivi pensieri di (quasi) tutti. Odore di guerra, e occhi a terra (lo sguardo del rancore che promette sventura).

Alla velocità della luce, in poche mosse da parte di giocatori cinici e spregiudicati, questione migratoria e logica bellica, politica dei flussi e politica delle armi si sono saldate intorno alla coppia nefasta «amico-nemico». E il confronto impari, spaventosamente asimmetrico, tra l’Italia e quel microscopico frammento di nuda vita in balia delle onde nel Canale di Sicilia si è saldato, come le due facce del medesimo foglio, col confronto muscolare, «di potenza» e «tra potenze».
Con la resa dei conti tra il Governo italiano e gli altri Stati coinvolti, Malta, Francia, paesi «alleati» e paesi «ostili».
Mentre si parla sempre più spesso, e con sempre meno pudore, di azioni militari per il controllo diretto delle coste libiche come «soluzione finale» al problema dei profughi.

È BASTATO che un rozzo capopopolo rionale o regionale come Matteo Salvini irrompesse come un bufalo nella cabina di regia governativa di un Paese non di secondo piano in Europa, perché questa saldatura tra demografia e geopolitica (tra «movimenti di popolazione» e «conflitti inter-statali») si coagulasse istantaneamente. Perché il disagio sociale virasse in nazionalismo… E nel contempo perché si rivelasse in tutta la sua estensione e profondità lo «sfondamento antropologico», chiamiamolo così, o «etico-politico» consistente nella diffusa incapacità di riconoscimento «dell’uomo per l’uomo». Nell’evaporazione di ogni pietas, com-patimento, identificazione nel dolore altrui: le basi della socievolezza che ha permesso la sopravvivenza della specie umana sostituita ora da un mortifero atteggiamento di rifiuto, diffidenza, indifferenza ostile. I cattivi sentimenti, appunto, che da sempre preparano la guerra perché dicono che la guerra è già dentro le persone, e le ha fatte proprie.

CERTO COLPISCE, nella via crucis dell’Aquarius – in questo spettacolo crudele messo in piedi per ostentare, sul palcoscenico grande come il mare, la caduta catastrofica dell’umano nel segno della «politica nuova» – la figura dell’attore protagonista: l’uomo che dopo aver assorbito in sé tutti i ruoli di governo (le gouvernement c’est moi) si permette di prendere in ostaggio centinaia di bambini, donne, uomini per giocarseli sulla scacchiera politica (come strumento di negoziazione all’esterno e di consenso all’interno) indifferente alle loro sofferenze, lasciandoli in balia del mare, come fossero cose e non persone («tortura» è stata definita). Ma colpisce ancor di più – se possibile – questo pubblico che balza in piedi ad applaudire a ogni battuta truce, a ogni dichiarazione di disprezzo, che si emoziona per le vessazioni, l’irrisione dei valori di solidarietà e condivisione, addirittura la messa in stato d’accusa della solidarietà, come colpa o reato. E se si guarda quella platea dal di fuori, non potrà sfuggire che solo in pochi, sparsi qua e là, se ne stanno a braccia conserte, senza unirsi all’orgia. E quasi nessuno si alza per fischiare.

PRENDIAMONE ATTO. Un argine si è rotto, persino tra noi, di quella comunità non grande che si è definita “sinistra”. Siamo diventati irriconoscibili a noi stessi. O meglio: tra noi stessi. Sempre più spesso, se s’incontra un compagno con cui si è condiviso (quasi) tutto e il discorso cade sui migranti e sul caso dell’Aquarius, non scatta immediata, istintiva l’indignazione, ma s’incrocia uno sguardo vacuo. Un cambiar discorso. O addirittura un moto di condivisione della politica dei respingimenti. Una voglia di limiti. Di barriere (perché «così non si può andare avanti»). O perché convertiti a un qualche «neo-sovranismo», nell’illusione falsa che ripristinando i confini possa ritornare il welfare di un tempo, le garanzie, i diritti sociali sottratti anche da parte e per colpa di chi oggi, per lavarsi la coscienza, difende a parole l’«apertura». O perché affascinati da quella vera e propria «troiata» (mi si permetta il temine caro a Cesare Pavese) che è la categoria dell’«esercito di riserva»: l’idea che i migranti siano lo strumento occulto di un qualche piano del capitale per sfondare il potere d’acquisto e la forza negoziale dei lavoratori nostrani, ignorando che quello si chiamava, non per nulla «esercito industriale», appartenente cioè a un’altra era geologica, prima che si affermasse il finanz-capitalismo, che lavora e comanda appunto non con i corpi ma col denaro. E che quella «narrativa» serve solo a giustificare la vessazione dei più poveri tra i poveri, non certo a contrastare i più ricchi tra i ricchi.

BASTA D’ALTRA parte uno sguardo alla cronologia per vedere che il vero «sfondamento» della forza del lavoro è avvenuto fin dal passaggio agli anni ’80, ben prima che iniziassero i flussi di popolazione, e ha usato come ariete non i corpi dei poveri ma la tecnologia dei ricchi, elettronica, informatica, smaterializzazione del lavoro, frammentazione della componente «manuale» che sopravviveva. Fu allora che si consumò la «sconfitta storica» del lavoro in Occidente. E il conseguente «disallineamento» tra diritti sociali e diritti umani, che invece il movimento operaio novecentesco, almeno da noi, aveva saputo tenere «in asse». Da allora quelle due famiglie di diritti – questione sociale e questione morale (o «umana») – sono andate divaricandosi sempre più, fino a oggi, quando finiscono per contrapporsi, quasi che per stare vicino ai nostri «proletari» occorresse respingere gli altri riconfigurati per l’occasione come «non-proletari». Col risultato che rischiamo di avere oggi «socialisti senza umanità» (sono quelli che stanno squassando la sinistra in Europa, fin dal cuore della Linke tedesca) e «umanitari senza socialità» (senza solidarietà sociale).

UNA SCISSIONE cui si può rimediare solo con un colpo d’ala. Con la consapevolezza, da una parte, che si possono difendere efficacemente le ragioni universali dell’umanità solo se si dimostra di voler difendere con le unghie e con i denti la ragioni sociali locali di chi, nel proprio territorio, è deprivato di reddito e diritti (se si disinnesca la trappola mortale del «perché a loro sì e a me no»). E dall’altra riuscendo a capire che mai come oggi la difesa dei migranti si salda alla difesa della pace, perché la guerra a loro finirà per trasformarsi in guerra tra noi.

FONTE: Marco Revelli, IL MANIFESTO

Primavera europea. Pensiamo si debba arrivare alle elezioni europee del 2019 con una visione chiara, un programma e un candidato comune alla Presidenza della Commissione

Da un lato un governo a trazione leghista che abbandona 600 migranti in mare e propone una flat tax a vantaggio dei più ricchi. Dall’altro l’opposizione screditata di Pd e Forza Italia. Un governo cattivo, un’opposizione pessima. La tenaglia in cui si trova la politica italiana è rappresentativa della falsa scelta più generale che ci troviamo ad affrontare in tutta Europa: Macron e Orbán, Merkel e Salvini. Da un lato un establishment in bancarotta morale e finanziaria e dall’altro una marea crescente di nazionalismi xenofobi la cui crescita è causata proprio del fallimento delle élite continentali e delle politiche di austerità.

Contro entrambi, abbiamo urgente bisogno di una nuova proposta politica capace di rappresentare un punto di riferimento italiano ed europeo. “Primavera Europea”, la lista transnazionale che abbiamo lanciato con il movimento europeo DiEM25, nasce come sforzo di unione tra le forze progressiste europee che si prefiggono questo compito storico.

Crediamo che questa unione sia possibile ed efficace se centrata su azioni comuni e su un’agenda politica credibile, coerente e aperta al contributo di tutti. È per questo che abbiamo appena approvato la versione beta di un programma politico rivoluzionario che sarà presentato a tutti i cittadini europei e a tutti i partiti e movimenti interessati attraverso una fase di consultazione che si estenderà fino ad agosto. Frutto della collaborazione di importanti intellettuali mondiali e di oltre 3.000 contributi fatti arrivare da singoli cittadini, il programma presenta una serie di politiche concrete attuabili già domani – a Trattati europei vigenti – in grado di cambiare radicalmente volto all’Unione europea. Fra queste un piano di investimenti ecologici e di riconversione industriale del tenore di cinquecento miliardi di euro annui, un piano europeo anti-povertà, il rafforzamento dell’autonomia municipale, un dividendo universale di base – coperto attraverso la tassazione delle multinazionali – e un’innovativa politica migratoria comune.

Lo sappiamo, i Trattati europei attuali sono i principali nemici dell’Europa che abbiamo in mente. Anche per questo proponiamo una strategia di disobbedienza costruttiva che disattenda le regole più inique – così come i sindaci italiani stanno disobbedendo alla politica xenofoba di chiusura dei porti italiani. Ma oltre a entrare nel merito di come i Trattati debbano essere modificati e la disobbedienza organizzata – cosa essenziale – dobbiamo saper presentare proposte di rottura attuabili fin da subito. Perché la crisi sociale non aspetta i tempi di una revisione costituzionale. Una lezione, questa, che Renzi avrebbe fatto bene ad imparare.

Pensiamo si debba arrivare alle elezioni europee del 2019 con una visione chiara, un programma e un candidato comune alla Presidenza della Commissione europea. Per combinare apertura, unità e coerenza, abbiamo deciso di rinnovare il nostro appello a livello europeo e nazionale a tutte le forze di sinistra, ecologiste, ai movimenti sociali e a tutte le forze progressiste per creare una lista comune paneuropea sulla base di un’Agenda politica condivisa. Come parte del nostro rinnovato appello, proponiamo che l’Agenda comune e le figure da candidare alla Presidenza della Commissione Europea vengano scelte attraverso un processo aperto e democratico – delle vere e proprie primarie continentali.

Proponiamo di fare votare tutti gli iscritti di tutti i movimenti che parteciperanno e che questa votazione sia aperta anche a tutti i cittadini che vorranno unirsi attraverso un meccanismo semplice, capace di combinare la partecipazione alle assemblee territoriali alla partecipazione online. In caso di disaccordo su aspetti specifici dell’Agenda, proponiamo che tutte le forze politiche partecipanti accettino di risolverli rimettendo le decisioni al voto dei cittadini. Oggi, da Milano, in un grande evento serale allo spazio Macao, dalle ore 21 lanceremo pubblicamente queste proposte insieme a tanti protagonisti della politica europea e italiana.

Pensiamo sia il momento di fidarci del nostro popolo e rimettere la scelta nelle mani di un grande processo di partecipazione. Un processo aperto che ci impegniamo a portare avanti indipendentemente da quali delle forze politiche decideranno di rispondere positivamente.

Abbiamo il dovere storico di accendere un faro in questi tempi oscuri. È il momento di farlo, insieme. E di farlo con coerenza, fermezza e credibilità.

FONTE: Janis Varoufakis, IL MANIFESTO

photo: By El Desperttador (youtube) [CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)], via Wikimedia Commons

NAPOLI. Al congresso di Dema, il movimento del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, c’erano ieri realtà e rappresentanti politici che non si riconoscono nel governo giallo-verde e neppure nel centrosinistra spazzato via dalle politiche. La novità la dà il sindaco a margine dei lavori: «C’è bisogno di un’alternativa sociale, politica ed economica, assente nel contratto Lega-M5s che è la continuità delle misure liberiste che hanno massacrato la popolazione. Un’alternativa al governo più di destra della storia repubblicana e alla finta opposizione di Renzi e Berlusconi. Apriamo una fase costituente, un’assemblea itinerante che si concluderà in autunno. Siamo disponibili a costruire tutti insieme un nuovo contenitore».

L’idea è aprire una fase di ascolto tra realtà autonome, che stanno facendo percorsi differenti, per convergere su un nuovo movimento, inserire Dema (un acronimo che sta per Democrazia e autonomia e che richiama il cognome del sindaco) in una realtà più ampia, de Magistris propone il nuovo nome: «Potrebbe chiamarsi Demos, non dovranno esserci “tutti quelli che non stanno a destra” ma militanti, amministratori, associazioni, comitati che hanno dimostrato di voler fare la rivoluzione, che è il coraggio di prendere decisioni. Siamo una realtà che resiste, che non ha privatizzato i servizi di rilevanza costituzionale. Questa è la nostra dote che offriamo a tutti a parità di condizione».
Oggi si eleggeranno gli organismi: de Magistris è candidato alla presidenza, lo stesso sindaco vorrebbe che venisse affidato il ruolo di responsabile nazionale al suo assessore al Bilancio, Enrico Panini, con il mandato di radicare il movimento in tutta Italia. «Per le prossime politiche ci saremo, anche se si dovesse votare tra tre mesi – spiega il sindaco -. Daremo un contributo a unire le forze per le europee, dialoghiamo con Varufakis, Melanchon, Iglesias». E sul governo: «Sono pronto a cooperare con il premier Conte, il nostro però è un progetto alternativo. C’è chi dice “prima gli italiani” ma un paese non si costruisce sulla paura. La principale forza politica, che ha avuto un voto straordinario dal Mezzogiorno, si è alleata con Salvini».
Tra gli ospiti del congresso i No Tav e i No Terzo Valico. Il sindaco di Messina, Renato Accorinti, è tra i più fotografati: «Il governo giallo-verde è una caduta nel baratro. Molta gente delusa dal Pd ha fatto questo voto di rabbia, a cosa può servire stare con i nazifascisti?». Laura Boldrini, parlamentare Leu, ha mandato un videomessaggio: «Gli elettori 5S sono stati traditi, motivo in più per lavorare insieme, tutti noi che abbiamo a cuore la giustizia sociale. Nel loro contratto non si parla di diseguaglianze, di occupazione femminile, di Sud».
C’è Maurizo Acerbo, segretario di Rifondazione: «Non vedo perché non possiamo metterci insieme per costruire un movimento popolare in Italia e in Europa». Rifondazione è nel percorso di Potere al popolo, che oggi e domani terrà la sua assemblea nazionale a Napoli. Ad ascoltare le relazioni c’erano anche le realtà di movimento. Napoli direzione opposta, con Dario Oropallo, spiega: «La somma dei ceti politici non può essere la via per ricostruire l’opposizione. Partiamo dai territori». Viola Carofalo, per l’Ex Opg Je so’ pazzo, commenta: «Bisogna costruire l’alternativa al governo e pure all’opposizione, schiacciata sui diktat europei». Interviene anche il dem Marco Sarracino, area Orlando: «Serve un’autocritica, spogliarci dai pregiudizi e cambiare, tutti insieme. Il vecchio è morto, elaboriamo una proposta collettiva alternativa e credibile».

FONTE: Adriana Pollice, IL MANIFESTO

photo: Di Santino Patanè from Caslino d’Erba (CO), Italy (Luigi De Magistris) [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], attraverso Wikimedia Commons

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