Storia & Memoria

 «Processo alla Resistenza», il saggio di Michela Ponzani edito da Einaudi. Un volume che raccoglie riflessioni e ricerche sulle forme di criminalizzazione dell’esperienza partigiana

 

Sforziamoci di tralasciare, almeno per un attimo, l’altrimenti diffusa retorica della «storia dimenticata», quella che celebra il passato come una sorta di buco nero dove, agli eventi concreti, si sarebbe sostituita una mera narrazione in funzione degli interessi dei «poteri forti». Ciò che chiamiamo con il nome di storia, infatti, non è solo il riscontro del fatto che il discorso corrente (nella comunicazione dominante da parte dei media così come nell’opinione pubblica) possa essere fortemente viziato da categorie, immagini e pensieri di parte. Il fare storia, infatti, implica semmai indagare soprattutto su come sussista, in base alle palesi egemonie politiche e culturali del momento (e non in ragione di un oscuro disegno), l’accento su una molteplicità di aspetti piuttosto che su altri.

TUTTA LA COMPLESSA vicenda della ricezione e dell’eredità della guerra di Liberazione, dallo stesso aprile 1945 in poi, va quindi letta anche sotto questa lente. Evitando pertanto banalizzazioni nonché semplificazioni di maniera. Esattamente, invece, ciò cui anelano qualunquisti e conformisti di ogni risma e genere. La complessità della guerra partigiana si perde infatti dentro i meandri di una falsa «contro-storia», con un drastico capovolgimento delle parti. Si tratta di quell’approccio, per intenderci, che azzera tutto, nel nome di una fittizia «unità nazionale» (oggi chiamata «pacificazione») dalla cui assenza, invece, i «nemici dell’Italia» avrebbero saputo trarre giovamento. Per poi auto-incensarsi del tutto immeritatamente. Una pubblicistica di ampia diffusione, ha trovato in questi ultimi tre decenni un significativo riscontro di lettori. Dalla pagine più sofisticate dedicate alla «morte della patria» da parte di Galli della Loggia alla fluviale letteratura, a tratti inferocita, di Pansa. Dopo di che, poste tali premesse critiche, si entra a pieno titolo nel merito del libro di Michela Ponzani, Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica italiana, 1945-2022 (Einaudi, pp. 232, euro 28). Diverse questioni sono infatti sollevate dal suo testo, al netto delle cronache che vi sono ricostruite, sulla base dell’interpolazione di molteplici fonti (rapporti delle forze dell’ordine, documentazioni processuali, articoli della stampa quotidiana e periodica, soprattutto di estrazione locale), che ci restituiscono il quadro di un’epoca. Tra di esse, e come tali di particolare rilievo, sono quelle vicende che non rimandano al solo uso discrezionale, in chiave deliberatamente restauratrice, della magistratura – e quindi della somministrazione della stessa giustizia – ma ad una più generale opera di normalizzazione conservatrice: cancellare quindi, laddove possibile, l’eredità ancora recentissima della lotta di Liberazione. Trasformandola pertanto in una irrisolta commistione tra occasionalità e criminalità, tra ribellione e sedizione, disobbedienza e opportunismo.

UNA TALE PULSIONE, che di fatto attraversa un po’ tutta l’Italia, a partire da quella settentrionale, risponde a molteplici logiche, fino ad un certo punto ascrivibili al solo calcolo politico. Poiché ciò che essa testimonia è, semmai, un più generale percorso dove ciò che è stato – ovvero una commistione irrisolta tra segmenti del liberalismo ante-fascista e regime mussoliniano – emerge in tutti i suoi aspetti più radicati, destinati poi a non essere risolti con il nuovo ordine costituzionale. Si dà quindi come il parametro sul quale misurare l’accettabilità, o meno, della svolta prodotta dalla lotta di Liberazione. Nella misura in cui il partigianato ha reintrodotto, nella sfera dello Stato unitario, qualcosa che lo stesso Risorgimento si era incaricato, soprattutto dal 1859 in poi, di estromettere progressivamente, cioè la partecipazione in armi della collettività ai grandi moti di trasformazione in corso. Nell’Europa postbellica, all’epoca, era ancora presente la eco di tre eventi indice: le tumultuose sollevazioni borghesi del 1848; l’esperienza collettiva, ancorché sanguinosamente repressa, della Comune parigina nel 1871; le insorgenze popolari, generate dalla Prima guerra mondiale e poi variamente sedate. Con efferata brutalità. I fascismi continentali, a fronte della decadenza degli ordinamenti liberali, avevano tratto da ciò parte della loro legittimità, presentandosi come i soggetti che avrebbero ripristinato una qualche pratica di «ordine» e di «gerarchia». Nel momento in cui, dal 1945, tutto questo declinò tra i giganteschi flutti di uno scontro armato epocale, il conflitto tra legalità (quella istituita dai vincitori) e legittimità (derivante dai movimenti che nel frattempo si erano verificati dal basso, a partire dalla stessa lotta partigiana), rimase comunque a lungo irrisolto. Se da una parte valevano le leggi e le disposizioni degli Alleati, e con esse il bisogno di confrontarsi con una nuova minaccia, quella bipolare, dall’altro, esauriti i primi e veloci momenti di euforia per la fine della guerra, andava invece crescendo un senso di insoddisfazione.

NON DI MENO, come già ha avuto modo di sottolineare una storiografia consolidata, che trova in Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, (Editori Riuniti, 1999) un primo punto di sintesi, alla violenza inerziale che si trascinò ancora nel tempo, corrispondeva la restaurazione di un potere che non intendeva in alcun modo confrontarsi con quella idea di cittadinanza attiva, civile, e al medesimo tempo ribelle, della quale il partigianato era espressione. Gli eventi succedutisi, soprattutto sul piano giudiziario, con il ricorso alla magistratura, come ordinamento repressivo, spesso debitore dell’impronta fascista sia sul piano culturale che legislativo, si inquadrano in questa logica. Già Guido Neppi Modona con il suo pioneristico lavoro su Giustizia penale e guerra di liberazione (Franco Angeli, 1984) aveva avviato, ben quarant’anni fa, una ricognizione in tale senso. All’epoca ancora motivata dal riuscire a tradurre una lunga e tortuosa stagione di sforzi di democratizzazione degli apparati dello Stato (quella intercorsa nei due decenni precedenti) all’interno di una più generale riconsiderazione del significato della lotta partigiana, e del suo trattamento giudiziario, a quarant’anni dalla sua conclusione. Così come, due decenni dopo, il volume collettaneo a cura di Luca Baldissara e Paolo Pezzino, Giudicare e punire. Processi per crimini di guerra tra diritto e politica (L’ancora del Mediterraneo, 2005), spostava il fuoco verso una serie di questioni, a bipolarismo internazionale oramai da tempo conclusosi, che richiamavano il nesso tra violenze belliche, soglie di accettazioni e di rigetto, rapporto tra giustizia e classi dirigenti, percezioni e rielaborazioni dei lutti come esperienze di trapasso collettivo da vecchie a nuove società.

I LIBRI QUI CITATI sono solo alcuni dei possibili antecedenti al volume di Ponzani, che raccoglie in sé vent’anni di ricerche e riflessioni sulla criminalizzazione dell’eredità della guerra partigiana nella storia repubblicana. Come tale, è anche una risposta alle narrazioni dominanti in un certo senso comune, al pari di una parte della pubblicistica ad ampia diffusione, che associano la lotta di Liberazione ad un esercizio stragista, annullano le differenze tra carnefici e vittime, per poi ribaltarne i ruoli, rileggono – in chiave chiaramente filofascista – gli eventi dall’8 settembre 1943 in poi per ricavarne una netta rivalutazione morale, prima ancora che politica, degli sconfitti. Ponzani accompagna il lettore attraverso i diversi livelli di criminalizzazione istituzionale, laddove questi si verificarono, di cristallizzazione retorica del ricordo, di parificazione delle violenze e di annichilimento del significato dell’azione partigiana come atto di radicale disobbedienza, fondato su uno spontaneo principio di eticità. Fa quindi effetto il riscontrare analiticamente come certi canoni ideologici che sono transitati dal fascismo alla Repubblica, si ripropongano con potenza di inerzia nel discorso di senso comune. Uno tra tutti, le anacronistiche e surreali polemiche su via Rasella. Solo per uno tra i tanti, possibili richiami.

* Fonte/autore: Claudio Vercelli, il manifesto

Una data che ricorre, e ora divide, in Europa con la sconfitta del nazifascismo e in Italia, paese sempre più smemorato, con l’epoca del terrorismo e delle stragi fasciste e di Stato

 

Nello smarrimento del tempo presente il 9 maggio è diventata una ricorrenza con cui la nostra società politica e civile sembra fare i conti in modo sempre più complicato e contraddittorio. Eppure è un giorno che richiama tre momenti storici molto diversi. Ma particolarmente importanti per angolatura, prospettiva e interpretazione del nostro passato.

IL 9 MAGGIO 1936 Benito Mussolini dal balcone di Piazza Venezia declamò con tono trionfale «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» per annunciare l’ingresso delle truppe italiane, guidate dal maresciallo Pietro Badoglio, ad Addis Abeba in Etiopia a conclusione di una guerra coloniale e imperialista ideologicamente strutturata sul razzismo di Stato e caratterizzata dai crimini contro la popolazione civile e le forze della Resistenza.

UNA VICENDA SULLA QUALE a tutt’oggi il Paese, grazie alla «mancata Norimberga italiana» e all’impunità garantita ai «nostri» criminali di guerra dagli equilibri della Guerra Fredda, preferisce guardare attraverso la lente deformante del falso mito degli «italiani brava gente» oppure tramite la rimozione tout court dei fatti coronata nel 2012 dalla costruzione del mausoleo al criminale fascista Rodolfo Graziani ad Affile e ribadita dalla postura pubblica assunta sul tema da Giorgia Meloni nel suo recente viaggio nella capitale etiope.

IL 9 MAGGIO 1945 l’annuncio del governo dell’Urss della capitolazione della Germania nazista, che faceva seguito alla resa tedesca alle forze Alleate sul fronte occidentale, apriva al mondo la porta della fine della seconda guerra mondiale in Europa (il conflitto avrebbe avuto il suo tragico epilogo in agosto con le bombe atomiche sul Giappone). Tuttavia, secondo la logica che vuole la rivisitazione del passato come forma di governo del presente, nel contesto bellico di oggi anche questi eventi, che rappresentano la radice fondativa della nostra società contemporanea, vengono sottoposti ad un uso pubblico della storia che ne fa strumento propagandistico dei governi. Così a Mosca la sconfitta del nazifascismo ad opera dell’Armata Rossa serve a legittimare l’aggressione militare all’Ucraina ad opera dell’armata russa, mentre a Kiev (dove il collaborazionista filo-nazista e antisemita Stepan Bandera è considerato eroe nazionale) il giorno della vittoria contro il III Reich cambia data e significato per volere di Zelensky e, con il consenso della presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen, si trasforma in una «festa dell’Europa» (e della Nato).

IL 9 MAGGIO, INFINE, ricorre l’anniversario del ritrovamento a Roma del corpo di Aldo Moro sequestrato e ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978 e per questo è stata istituita dal Parlamento la giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Un’operazione di «memoria per legge» che interpreta una scelta tanto politicamente «logica» per le istituzioni quanto discutibile per la storia, al netto della drammaticità e della sensazione che l’assassinio dello statista dc provocò allora ed ancora oggi evoca.

UNA SCELTA CHE temporalmente scavalca tutte le stragi compiute dai gruppi neofascisti coadiuvati dagli apparati di forza dello Stato, da Piazza Fontana in avanti senza dimenticare Portella della Ginestra, e colloca nell’immaginario collettivo il fenomeno del terrorismo tutto dentro «gli anni di piombo» quasi ad obliare gli «anni del tritolo». Una raffigurazione che crea un vuoto di memoria pubblica rispetto alle responsabilità nel decennio dello stragismo, rappresentando l’attacco di un nemico esterno, le Brigate Rosse, «al cuore dello Stato» e contestualmente «dimenticando» che il fenomeno del terrorismo in Italia è nato, molti anni prima del 1978, proprio da quel cuore.

IN QUESTA CORNICE, meno definita di quanto sarebbe invece necessario, ieri al Quirinale sono stati ricordati da Sergio Mattarella (figura che incarna una unicità assoluta essendo fratello di una vittima del terrorismo mafioso che parla ad altri parenti delle vittime del terrorismo politico) alcuni degli eventi di quella stagione politica. Ha avuto una sua peculiarità ascoltare il ricordo dell’assassinio dell’agente di polizia Antonio Marino. Morto a Milano il 12 aprile 1973 nel corso di una manifestazione non autorizzata del Msi dalla quale i neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli lanciarono una bomba a mano che lo dilaniò. A guidare quel corteo insieme ai massimi dirigenti missini Franco Maria Servello e Franco Petronio vi era Ignazio Benito La Russa, ieri seduto in prima fila alla cerimonia in qualità di Presidente del Senato. Così come un sussulto ha provocato la frase pronunciata dal Presidente della Repubblica a proposito della strage del 17 maggio 1973 alla questura di Milano avvenuta «per mano anarchica». Una versione poi rettificata nella comunicazione ufficiale pubblicata sul sito del Quirinale.

QUELL’ATTENTATO VENNE realizzato da Gianfranco Bertoli, finto anarchico in realtà neofascista di Ordine Nuovo e già agente informatore del Sifar, nome in codice «Negro». Lanciò una bomba a mano con l’intento di uccidere il ministro dell’Interno democristiano Mariano Rumor «reo», agli occhi degli ordinovisti, di non aver proclamato lo «stato d’emergenza» e sospeso la Costituzione la notte del 12 dicembre 1969 dopo l’eccidio di Piazza Fontana.

Prima della strage Bertoli aveva alloggiato per settimane a Verona nella casa di Marcello Soffiati, ordinovista e agente informativo della Nato in Veneto, dove era stato istruito rispetto alla versione da dare in caso di arresto: dichiararsi anarchico e rilanciare la falsa pista messa in piedi contro Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Una goccia nel mare per uno smemorato Paese.

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

Si tace dell’occupazione della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, e su rappresaglie e repressioni simili ai crimini nazisti

 

Non era difficile prevedere che collocare la Giornata del ricordo, per onorare le vittime delle foibe, a dieci-quindici giorni dal Giorno della memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno come unico denominatore comune l’appartenere tutte all’esplosione, sino allora inedita, di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia.

Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili, la cosa più sorprendente è l’incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l’incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile ed ambiguo pentitismo, non contribuisce a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.

A parte la incomparabilità dei numeri – poche migliaia contro sei milioni – sono la logica e la storia che rendono incomparabili i due fenomeni. Fenomeno locale le foibe, fenomeno universale la Shoah. Anche dal punto di vista temporale il problema foibe si esaurì nel giro di poche settimane, al di là del perdurare della memoria, la Shoah si consumò nel corso degli anni della Seconda guerra mondiale, annullando confini ed ambiti territoriali, distanze sociali e stabilendo nuove gerarchie nazionali e sociali.

Continuare a deprecare le foibe senza porsi l’obiettivo di contestualizzarne l’accaduto contribuisce a fare della retorica, ad alimentare il vittimismo e a offendere ulteriormente la memoria di chi è stato coinvolto in una atroce vicenda e soprattutto di chi ha pagato, innocente, per responsabilità altrui. La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. È una storia nota e arcinota, su cui hanno lavorato storici della mia generazione, (…), con posizioni diverse tra loro ma tutti impegnati a costruire le linee interpretative di un passato storico che, tenendo conto della complessità della situazione di un’area crocevia di culture diverse, contribuisca a creare una nuova cultura politica capace di fare uscire i comportamenti politici e culturali dalle secche dello scontro frontale fra gli opposti nazionalismi, la cui cecità si alimenta a vicenda delle speculari pretese di esclusione.

Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia come di una regione italiana senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando ragioniamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro Paese.

Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo nei confronti delle minoranze slovena e croata (…), addirittura da prima dell’avvento al potere? Della brutale snazionalizzazione (proibizione di uso della propria lingua, chiusura delle scuole, chiusura delle amministrazioni locali, boicottaggio nell’esercizio del culto, imposizione di cognomi italianizzati e cambiamento di toponimi) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero (…) Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale Adriatico, sullo sfondo della Risiera di San Sabba e degli impiccati di via Ghega?

Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della Seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici del l’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria. Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. (…) Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell’esodo per rinfocolare l’odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l’unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionali stico e della guerra fredda.

I profughi dall’Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell’Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci esorta Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2005) bi sogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell’Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall’Istria, ma l’Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornava no (i più fortunati) dai campi di concentramento, di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari – centinaia di migliaia – che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione? La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte ri mozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.

* Questo testo del grande storico italiano che ci ha lasciato da meno di un anno – legato profondamente alla storia del Manifesto e nostro prezioso collaboratore per decenni – è parte dell’introduzione al libro “Dossier Foibe” di Giacomo Scotti, uscito per Manni editori – che ringraziamo – nel 2022 (con sua introduzione e post-fazione di Tommaso Di Francesco).

Fonte/autore: Enzo Collotti, il manifesto

 

 

 

ph by Roberta F., CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

LISBONA. Sì, è proprio vero, mio padre è morto. Il colonnello Otelo Saraiva de Carvalho, l’Otelo. Poco prima delle 14 e 11 dello scorso 25 luglio, lo sfinito corpo di mio padre ha smesso di respirare l’aria che respiriamo.

Dopo alcuni giorni di parole opportune e inopportune, ci sono ancora delle cose che vorrei dirvi in questa mia testimonianza. Parlo per tutti quelli che sono rimasti colpiti o rattristati dalla notizia della sua morte, così come anche per chi ne è rimasto indifferente.

Non vivo più in Portogallo da molti anni. Ero arrivata a Lisbona da otto giorni e in quel periodo avevo visitato mio padre per due volte, perché era di nuovo ricoverato all’Ospedale delle Forze Armate. Due visite con il tempo contato, un’ora in tutto. Il resto del tempo, quando non vedevo il colore dei suoi occhi né sentivo il suono della sua voce, gli stavo vicino idealmente, soprattutto tra il giorno 24 e il 25.

Durante le mie brevi visite, le ultime parole che mi ha detto sono state «Ti voglio molto bene, figlia mia». Ma le prime, quando gli ho chiesto come si sentiva, sono state queste: «Sto molto giù, sono arrivato alla fine. Ma guarda come mi sono ridotto, non posso fare più niente. E io che volevo una vita tranquilla! Sai chi è colpevole di tutto questo?» E mi racconta di quel compagno del MFA (Movimento delle Forze Armate) che, poco dopo il 25 Aprile 1974, quando usciva da una casa di Cova da Moura dove c’era stata una riunione del MFA, convocata per prendere decisioni su cosa fare dopo la rivoluzione e su come organizzarsi, disse ai giornalisti che lo circondavano, «alcuni stranieri», «È lui che dovete intervistare”, indicando mio padre che scendeva le scale della casa, «È lui che ha fatto, ha organizzato, ha comandato, ecc., ecc.».

«Ed ecco», continua a raccontare mio padre, «Tutta quella gente comincia a corrermi incontro, microfoni alla mano, e tutto si è deciso in quel momento! In seguito, sono stato coinvolto nella vita politica, nelle elezioni…, ma quello che volevo veramente era dare una speranza alla gente, al popolo portoghese, alle classi popolari che ho poi contattato nel PREC (Processo Rivoluzionario In Corso)».

Sei giorni prima della sua morte, in un’unica frase, in un breve bilancio, mio padre identificava così il punto di svolta della sua vita, fra quella che avrebbe potuto essere «una vita tranquilla» e invece quella che ha effettivamente vissuto, causa, secondo lui, del suo debilitato stato di salute.

Quella vita tranquilla che ricercava dopo aver già comandato le operazioni del 25 Aprile, dopo aver partecipato attivamente a tutta la cospirazione che le aveva preceduto, insieme ai capitani con cui avrebbero formato il Movimento delle Forze Armate, riuniti dopo anni di guerra nelle colonie portoghesi. Dopo sue tre commissioni in Africa, di cui due in combattimento durante la guerra coloniale che il Portogallo iniziò nel ’61 contro i movimenti di liberazione. Dopo tredici anni di vita nomade tra il Portogallo e le colonie, sempre accompagnato dal grande amore della sua vita (mia madre) e più tardi da tre figli. Dopo aver perso una figlia (mia sorella) nella Guinea-Bissau, morta in poche ore per una crisi di malaria e meningite fulminante. Dopo un’infanzia e un’adolescenza fra il Mozambico e il Portogallo, fra genitori e nonni.

Quanto al 25 Aprile 1974, se da una parte c’era la totale fiducia che i compagni militari del MFA avevano in mio padre, adesso diventato il Maggiore Otelo Saraiva de Carvalho, per l’esecuzione e il comando del Piano di Operazioni militari che ha deposto il regime dittatoriale vigente in Portogallo dal 1926, dall’altra c’era il disegno solitario di quel Piano di Operazioni che mio padre definiva come «Svolta Storica», che consisteva nella scelta dei numerosi ufficiali che furono i suoi più diretti collaboratori e che lo portarono all’esecuzione del Piano all’alba del 25 aprile, vittoria seguita dall’entusiasmo e dalla massiccia adesione della maggior parte dei portoghesi, scesi per le strade di tutto il paese.

Vari analisti politici hanno classificato questo Piano come superlativo, così come il dominio delle operazioni militari, di massima importanza per la Storia del Portogallo e, in particolare, per la Storia Militare Portoghese. Comunque, quello che posso affermare con assoluta certezza è che mio padre era grato alla Vita per aver avuto l’opportunità di contribuire alla rivoluzione, tanto attesa dalla maggior parte della popolazione. E questo lo faceva non per «orgoglio» (che poteva essere inteso come un premio), ma piuttosto per l’enorme soddisfazione di aver avuto questa opportunità nella sua vita. E per costatare che le sue competenze era state sufficienti a portare avanti il progetto rivoluzionario.

Nel periodo del post 25 Aprile, periodo PREC, durante un anno e sette mesi, mio padre ha avuto tutto tranne una vita tranquilla. Si impegnava corpo e anima, con tutto il tempo, il sonno e la sua vita famigliare (che per lui si confondeva con la vita privata), utilizzando quello che sapeva e quello che era costretto a improvvisare. Quando sento parlare di «abbaglio per il potere», contrappongo invece la coscienza delle necessità della popolazione, soprattutto attraverso la sua esperienza di comandante del COPCON (Comando Operativo per il Continente), e la consapevolezza di come il suo potere poteva aiutare a risolvere queste necessità. Da parte sua, non si è mai sottratto alle immense responsabilità che dai 37 ai 39 anni gli sono cadute addosso, a lui e agli altri ufficiali del MFA, che avevano combattuto nella guerra coloniale e non erano ufficiali dello Stato Maggiore e che quindi erano più propensi e responsabilizzare la gerarchia militare per quanto riguardava le decisioni da prendere.

Quanto alla sua partecipazione alla vita politica, come civile, dopo che venne allontanato dalle cariche militari in seguito al 25 novembre del 1975, vorrei affermare quanto segue: quando mio padre venne arrestato nell’ambito del Processo FUP/FP, una ottima compagnia teatrale di Lisbona, attraverso l’intervento del suo direttore/fondatore, ha voluto richiamare l’attenzione su questo arresto e mi ha invitato a leggere un testo all’inizio di uno spettacolo teatrale. Ci sono andata e ricordo perfettamente queste parole di mio padre che ho trasmesso, nella mia lettura, al pubblico: «Vi do la mia parola di Capitano di Aprile che non ho nulla a che vedere con tutto questo (si riferiva qui alle accuse di aver partecipato agli attentati fatti dal gruppo radicale FP25)».

Sarebbe inoltre interessante riferire altre ipotesi di lettura dei fatti, delle coincidenze (che pure esistono) che hanno fatto sì che mio padre fosse accusato politicamente e giuridicamente di aver collaborato con questo gruppo…È comunque interessante analizzare come questo tentativo di coinvolgere mio padre/Otelo in questo caso sia servito a interessi diversi, allora come adesso…ma qui chiudo l’argomento.

Vi parlo dell’uomo che ho conosciuto come padre e vi riferisco adesso alcuni aspetti della sua personalità, che forse potrete riconoscere:
In famiglia, si raccontavano storie su mio padre e sul suo «senso del giusto», fin da quando era bambino. Penso che questo aspetto, inquadrato nella sua formazione militare (perché mio padre era «un militare»), abbia portato a una pratica di «contestazione attraverso le regole», ossia contestazioni che si svolgevano attraverso i legittimi canali costituiti (anteriori o posteriori al 25 Aprile) e che molte volte ho avuto occasione di testimoniare. Alcune portavano all’abrogazione di determinate leggi o di determinazioni della gerarchia militare, decisioni che hanno favorito, nel passato e ancora oggi, molte persone, che probabilmente non sanno neanche chi ne è stato l’autore.

Questo «senso del giusto» era molto forte nella personalità di mio padre e ha influenzato gran parte della sua cittadinanza e del suo intervento come cittadino.
Riferisco inoltre l’enorme coerenza con quello che sentiva (in ogni situazione) e con la verità (un aspetto che era comune a mio padre e a mia madre, erano così tutti e due e così si viveva nella mia famiglia).

Come si può parlare della vita di una persona in poche righe? Scegliendo un epitaffio: la persona si perde, il dolore di chi rimane continua.
Posso dire che perdo una delle due persone più importanti della mia vita, perdo quell’unico interlocutore di tante chiacchierate padre/figlia, così barocche, teatrali, divertenti che ci siamo inventate. Perdo la compagnia e la completa disponibilità che aveva mio padre nei miei confronti.

E come cittadina, vorrei che il Portogallo non perdesse quello che è stato fatto. Fatto da mio padre, dal militare Otelo Saraiva de Carvalho autore di tante conquiste, da Otelo e da tutti i suoi compagni di lotta, da tutti i suoi amici. Vorrei che il Portogallo non perdesse quello che è stato realizzato e che lo integrasse nel suo patrimonio e nella sua memoria collettiva.

(Dopotutto, l’ultimo quarto del XX secolo è servito a dire a qualsiasi dittatore che il popolo portoghese non è così sottomesso come potrebbe sembrare. E anche a ricordare che è possibile realizzare una rivoluzione collettiva senza l’eliminazione fisica dei suoi nemici).

Lisbona, 16 agosto 2021

traduzione dal portoghese di Rita Ciotta Neves

* Fonte: Maria Paula Alambre Carvalho, il manifesto

FIRENZE. E’ negli affascinanti ricordi dell’amica Maria Fancelli, a partire da un affollatissimo seminario universitario sulla figura di von Kleist nell’ormai lontano 1984, che si riescono a comprendere le ragioni che hanno portato Rossana Rossana a lasciare in eredità il suo archivio personale all’Archivio di Stato di Firenze. In particolare alle sezione dedicata alla “Memoria e scrittura delle donne”, voluta e poi trasformata in associazione dalla storica e archivista Alessandra Contini Bonacossi. “Una sezione che lei aveva conosciuto nel 2006 durante una visita – racconta la presidente Rosalia Manno – apprezzandone lo spirito e soprattutto l’obiettivo di assicurare conservazione, tutela e valorizzazione dei propri documenti”. Un apprezzamento che portò Rossanda a cambiare la sua idea iniziale di una destinazione milanese per le sue carte – parte delle quali sono ancora conservate alla Fondazione Feltrinelli di Milano – affidandole invece “a una città che lei amava. Il suo è stato un atto fatto in piena coscienza, e di consapevolezza della ‘storicità’ della sua persona”.

Per salutare l’arrivo di questi sei metri lineari di faldoni “assolutamente non ordinati e studiati” che coprono un arco di quasi mezzo secolo, dagli anni sessanta fino al 2006, l’Archivio di Stato ha così organizzato una tavola rotonda in diretta streaming. “Un appuntamento in quella che è la ‘Notte degli Archivi’ – spiega Sabina Magrini che dirige l’Archivio – iniziativa collegata al festival Archivissima 2021, e che ci invita a un confronto sul tema #generazioni: cosa salvare di ciò che le generazioni prima di noi hanno prodotto? Come stabilire una connessione e, soprattutto, come generare nuova vita da ciò che si è deciso di conservare?”.
Una splendida risposta, arrivata grazie ai contributi anche di Sveva Pacifico e naturalmente di Doriana Ricci, redattrice del manifesto fino a pochi anni fa, assistente personale e amica di Rossanda, è in questa vastissima produzione “in cui si trova tutta la corrispondenza relativa alla fondazione del manifesto – spiega Pacifico – e carte relative alle sue relazioni con il Pdup e alle riflessioni sul marxismo, insieme a copie di materiale riguardante i processi ai brigatisti e il caso Sofri, e lettere con detenuti sottoposte a censura”. E ancora appunti per preparare interventi ai vari seminari che teneva, e riflessioni sulla questione femminile in cui emerge un tema estremamente attuale, ovvero il problema di conciliare lavoro e famiglia, Un modo per ricostruire la figura di Rossana Rossanda e la storia dell’Italia da lei vissuta come donna, partigiana, politica, giornalista e scrittrice. Anche storica dell’arte, tassello ulteriore del suo legame con la città di Firenze.

* Fonte: Riccardo Chiari, il manifesto

Si è svolto oggi alle 18 ad Affile (Roma) un flash mob promosso dall’ANPI – con la presenza del Presidente nazionale Gianfranco Pagliarulo e del Presidente dell’ANPI provinciale di Roma Fabrizio De Sanctis – in occasione dell’84esimo anniversario della strage di Debra Libanos (Etiopia).
Dal 21 al 29 maggio 1937 nel monastero di Debra Libanos furono trucidati monaci, diaconi, pellegrini ortodossi, più di 2.000, per opera degli uomini del generale Pietro Maletti, dietro ordine di Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia. Ad Affile è situato un monumento dedicato proprio a Graziani.
In un passaggio del suo intervento così si è espresso Pagliarulo:
“Siamo qui per denunciare una grande ignominia: un monumento intitolato non al soldato affilano più rappresentativo, come incautamente affermato, ma all’uomo delle carneficine, delle impiccagioni, dei gas letali. Perché questo fu Rodolfo Graziani. E le due parole sulla pietra del monumento, Patria e Onore, suonano come il più grande oltraggio alla Patria e all’Onore. Onore è parola che significa dignità morale e sociale. Quale onore in un uomo che sottomette un altro popolo in un’orgia di sangue? Patria. La nostra patria è l’Italia. La parola Italia è nominata nella Costituzione due sole volte: L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, L’Italia ripudia la guerra. Tutto il contrario di un Paese fondato sul razzismo imperiale. Perché, vedete, le stragi di Graziani furono certo l’operato di un criminale di guerra, e non fu certo l’unico. Ma furono anche stragi dello Stato fascista, di una macchina di violenza e di costrizione verso l’altro “.
Era presenta anche una delegazione dell’Associazione della Comunità etiopica di Roma.

 

* Fonte: il manifesto, Ufficio stampa Anpi

Perseguitati tra i perseguitati, dimenticati tra i dimenticati. Le popolazioni romanì (rom, sinti, manush, kalé) hanno due nomi per indicare quello che è accaduto loro negli anni ’40 del Novecento: «Porrajmos» e «Samudaripen», ovvero «grande divoramento» e «tutti uccisi».

Era l’11 settembre del 1940 quando tutte le prefetture del Regno d’Italia ricevettero una circolare telegrafica del capo della polizia Arturo Bocchini: «Rastrellamento di tutti gli zingari», era l’ordine da eseguire ovunque e nel minor tempo possibile. «Comportamenti antinazionali» e «implicazioni in gravi reati» erano le accuse. Solo qualche mese dopo, nell’aprile del 1941, il ministero dell’Interno diede qualche indicazione sul loro internamento e campi di prigionia furono costruiti ovunque, dall’Abruzzo alla Sardegna, dalle isole Tremiti alla Toscana e all’Emilia Romagna.

Era l’ultimo atto della politica fascista sulle comunità rom e sinte: prima, tra il 1922 e il 1938, l’ordine era quello di respingere alle frontiere i nomadi stranieri. Poi, tra il 1938 e il 1940, si cominciò con la pulizia etnica nelle regioni di confine e i trasferimenti coatti in Sardegna.
Sulla rivista «La difesa della razza» fioccavano articoli sulla «pericolosità sociale degli zingari». Con la circolare di Bocchini del 1940, la guerra alla «piaga zingara» arrivò ai rastrellamenti e alla reclusione. A liberazione avvenuta, i sopravvissuti scopriranno di aver perso tutti i propri averi. Nessuno si preoccuperà mai di renderglieli o di rimborsarli in qualche modo.

Dopo l’8 settembre del 1943, ad ogni modo, alcuni riuscirono a scappare dai campi dove erano reclusi e si unirono alla Resistenza. È la storia, ad esempio, dei Leoni di Breda Solini, un battaglione attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia, completamente formato da sinti fuggiti dal campo di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena. La loro storia è stata custodita e raccontata da Giacomo «Gnugo» De Bar, sinto, di professione saltimbanco, come amava definirsi lui. Rastrellato e rinchiuso anche lui da bambino nel 1940, non ha mai dimenticato suo nonno Jean, contorsionista, e suo zio Rus, equilibrista, che di giorno si esibivano nelle piazze dell’Italia non ancora liberata e di notte si davano al sabotaggio dei tedeschi. Giravano a bordo di un camion e si occupavano per lo più di rubare armi da consegnare poi ai partigiani.

La fama (e il soprannome) di leoni se l’erano guadagnata sul campo grazie a un’azione in cui avevano disarmato una pattuglia del Reich.
«Erano entrati nel cuore della gente come eroi, anche per il fatto che usavano la violenza il minimo necessario – racconta Gnugo De Bar nel suo libro «Strada, Patria Sinta» (Fatatrac, 1998) – fra noi sinti non è mai esistita la volontà della guerra, l’istinto di uccidere un uomo solo perché è un nemico. Questo lo sapeva anche un fascista di Breda Solini che durante la Liberazione si era barricato in casa con un arsenale di armi, minacciando di fare fuoco a chiunque si avvicinasse o di uccidersi a sua volta facendo saltare tutta la casa: “io mi arrendo solo ai Leoni di Breda Solini”. Così andarono i miei, ai quali si arrese, ma venne poi preso in consegna lo stesso da altri partigiani, che lo rinchiusero in una cantina e lo picchiarono».

Fatti come questi non è facile sentirli raccontare: la memoria del Porrajmos e della resistenza dei romanì è sempre stata un filo sottile, quasi invisibile. In teoria nel 2015 il parlamento europeo ha stabilito che il 2 agosto è la Giornata dedicata alle vittime del genocidio rom, ma in pratica la ricorrenza viene celebrata a singhiozzo dai vari paesi. In Italia la commemorazione è il 27 gennaio, Giorno della Memoria. Così è pure in quasi tutti gli altri paesi europei, tranne la Repubblica Ceca (che ha quattro date: il 7 marzo, il 13 maggio, il 2 e il 21 agosto) e la Lettonia (che ne ha tre: il 27 gennaio, l’8 aprile e l’8 maggio).

Nel 2018, l’Unar (l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) diretto da Luigi Manconi ha organizzato ad Agnone, in Molise, la prima commemorazione italiana della rivolta dello Zigeunerlager di Auschwitz, cominciata il 16 maggio del 1944, quando quasi quattromila tra rom, sinti e caminanti si ribellarono ai soldati tedeschi arrivati per sterminarli.

La loro resistenza durò fino ad agosto, quando le SS riuscirono a prevalere e massacrarono tutti quelli che avevano osato ribellarsi. In totale, si stima, il «grande divoramento» ha lasciato una voragine da 500.000 morti in tutta l’Europa. L’inno rom «Gelem, Gelem» ricorda come sono andate le cose: «Ho percorso lunghe strade, ho incontrato rom felici. Una volta avevo una grande famiglia, la legione nera li ha uccisi».

* Fonte: Mario Di Vito, il manifesto

Il 6 aprile 1941 divisioni tedesche e italiane invadevano la Jugoslavia dividendola in zone di occupazione. L’Italia monarchico-fascista costituì la «provincia italiana di Lubiana» in Slovenia annettendo al regno di casa Savoia, dal luglio 1941, anche il Montenegro.

Iniziò così l’occupazione della Jugoslavia che non solo completò l’aggressione del regime ai Balcani, iniziata nel 1939 in Albania e seguita nel 1940 in Grecia, ma rappresentò il correlato storico-politico del «fascismo di frontiera» emerso negli anni Venti con lo squadrismo e sintetizzato nei suoi obiettivi da Mussolini nella visita a Pola del 22 settembre 1920: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone (…) si possono più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

IN LINEA con questo impianto ideologico le truppe del regio esercito, le autorità di polizia, i carabinieri e le milizie fasciste dei battaglioni «M» disposero su tutto il territorio le misure della «guerra ai civili», che lo stesso popolo italiano avrebbe poi drammaticamente conosciuto durante l’occupazione nazista. Fucilazioni di civili e partigiani, deportazioni di massa (100.000 jugoslavi trasferiti nei campi d’internamento italiani), incendio e saccheggio delle città e dei villaggi (nel febbraio 1942 l’intera città di Lubiana venne circondata da una «cintura» di filo spinato e posti di blocco e poi razziata), stragi (il 12 luglio 1942 a Podhum 108 fucilati e oltre 800 deportati; a Niksic e in altre città del Montenegro fucilazione di 95 comunisti e 200 civili tra il 20 giugno 1942 e il 25 giugno 1943) violenze e abusi sulla popolazione (nella sola Lubiana morirono 33.000 persone pari al 10% dei suoi abitanti) assunsero un carattere sistemico codificato dalle disposizioni della «circolare 3C» firmata dal generale Mario Roatta, già capo del Servizio Informazioni Militari, guida delle truppe fasciste in Spagna e poi al vertice della II Armata di occupazione in Croazia.

L’OCCUPAZIONE MILITARE costò alla Jugoslavia oltre un milione di morti mentre in tutta l’area dei Balcani i crimini di guerra compiuti dal regio esercito e dalle autorità italiane contribuirono da un lato al rincrudimento delle misure di repressione e controguerriglia antipartigiana e dall’altro ad alimentare la Resistenza militare e civile delle popolazioni in Albania, Grecia e Jugoslavia.

Nel maggio 1942 su La Voce del Montenegro il generale Alessandro Pirzio Biroli da «governatore» della regione scriverà: «Tutto il popolo sappia che ogni partigiano, ogni collaboratore, informatore e simpatizzante dei partigiani sarà fucilato sul luogo della cattura». Dal canto suo Mussolini il 31 luglio 1942 a Gorizia aveva ordinato ai generali: «Al terrore dei partigiani si deve rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri (…) questa popolazione non ci amerà mai (…). Questo territorio deve essere considerato territorio di esperienza. Non vi preoccupate del disagio della popolazione, lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze».

Al termine del secondo conflitto mondiale le Nazioni Unite stilarono un lungo elenco di criminali di guerra italiani che solo per la Jugoslavia comprendeva 750 nomi (generali, ufficiali dell’esercito, carabinieri, questori, camicie nere) a cui si aggiungevano i 142 iscritti nelle liste dell’Albania, i 111 della Grecia, i 12 dell’Urss.

Le ragioni della Guerra Fredda, la nuova collocazione geopolitica di Roma e la sistematizzazione dell’anticomunismo di Stato permisero ai governi dell’Italia post-bellica di non estradare i criminali nei Paesi che ne facevano richiesta; evitare processi presso un tribunale internazionale; non pagare i risarcimenti alle vittime ed agli Stati nonostante le disposizioni del Trattato di Pace di Parigi del 1947. Così la «mancata Norimberga italiana» rappresentò un vulnus storico nella stessa radice di nascita della democrazia repubblicana alimentando il falso mito degli «italiani brava gente», consentendo l’impunità dei criminali ed il loro reinserimento negli apparati delle Forze Armate, dei servizi segreti e delle forze dell’ordine sostanziando una «continuità dello Stato» che incise fortemente sul carattere e la qualità della nostra democrazia nei decenni successivi, tanto che diversi criminali di guerra furono coinvolti nelle stragi e nei tentativi di colpo di Stato degli anni Settanta.

OTTANT’ANNI DOPO l’occupazione della Jugoslavia, un appello di centinaia di storici e studiosi chiede alle istituzioni e al Paese un atto di coraggio in grado di rielaborare sul piano pubblico questo tragico passato rimosso, assumendo come memoria storica collettiva le responsabilità per i crimini compiuti dal fascismo contro altri popoli in un’ottica di superamento dei nazionalismi, di valorizzazione del dettato costituzionale in ordine al ripudio della guerra, di liquidazione tanto etico-morale quanto politico-sociale del fascismo.

Devastazioni prodotte dall’esercito italiano. Un’immagine proveniente dal Museo nazionale di storia contemporanea della Slovenia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’APPELLO

Alle istituzioni per un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti in Jugoslavia in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’invasione da parte dell’esercito italiano.

QUEST’ANNO ricorre l’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia da parte dell’esercito italiano, avvenuta il 6 aprile 1941. Durante l’occupazione fascista e nazista, e fino alla Liberazione nel 1945, in questo territorio si contano circa un milione di morti. L’Italia fascista ha contribuito indirettamente a queste uccisioni con l’aggressione militare e l’appoggio offerto alle forze collaborazioniste che hanno condotto vere e proprie operazioni di sterminio. Ma anche direttamente con fucilazioni di prigionieri e ostaggi, rappresaglie, rastrellamenti e campi di concentramento, nei quali sono stati internati circa centomila jugoslavi.
La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni commemorativi, né sono state compiute visite di Stato in luoghi della memoria dei crimini fascisti in Jugoslavia.

CHIEDIAMO DUNQUE al Presidente e ai rappresentanti delle principali istituzioni una presa di coscienza di questo dramma storico rimosso. L’ottantesimo anniversario sarebbe l’occasione ideale per farsi carico della responsabilità storica di pratiche criminali (…). Una dichiarazione pubblica o una visita ufficiale (per esempio al campo di concentramento di Arbe, sull’isola di Rab, dove morirono di fame e di stenti 1465 persone) avrebbero un notevole significato simbolico e dimostrerebbero il senso di responsabilità delle nostre istituzioni e il riconoscimento della sofferenza inflitta ai popoli della Slovenia, della Croazia, del Montenegro, della Bosnia e Erzegovina. Nel solco dei precedenti incontri ufficiali che hanno avuto luogo negli anni passati (…) questa dichiarazione rappresenterebbe un ulteriore passo in avanti sulla strada della riconciliazione europea e di una più ampia comprensione dei processi storici.

Il testo completo dell’appello, già sottoscritto da centinaia di storici e studiosi, sarà pubblicato da oggi sul sito dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, www.reteparri.it

Da oggi la mostra
«A ferro e fuoco»

Sarà presentata questo pomeriggio alle 17 la mostra virtuale «A ferro e fuoco» che racconta l’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943 grazie a 200 immagini, 25 testimonianze d’epoca e 81 interviste ai maggiori studiosi dell’argomento: Giancarlo Bertuzzi, Giulia Caccamo, Štefan Cok, Marco Cuzzi, Costantino Di Sante, Filippo Focardi, Eric Gobetti, Federico Goddi, Brunello Mantelli, Luciano Monzali, Jože Pirjevec, Guido Rumici, Nevenka Troha, Anna Maria Vinci. Il progetto è stato curato dallo storico Raoul Pupo. Realizzata dall’Istituto Parri, dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza del Fvg e dal Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Trieste, la mostra è visitabile su www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it. Oggi la presentazione su https://zoom.us/j/93156396203 e www.youtube.com/user/IRSMLFVG

* Fonte: Davide Conti, il manifesto

Contro un governo intenzionato a far ricadere il prezzo della Guerra franco-prussiana sul popolo, il 18 marzo a Parigi scoppiò una nuova rivoluzione. Gli insorti indissero subito elezioni e il 26 marzo una schiacciante maggioranza approvò le ragioni della rivolta. 70 degli 85 eletti si dichiararono a favore della Comune di Parigi. Anche se resistette soltanto 72 giorni, fu il più importante evento politico della storia del movimento operaio del XIX secolo.

I MILITANTI della Comune si batterono per una trasformazione radicale del potere politico, in particolare contro la professionalizzazione delle cariche pubbliche. Ritennero che il corpo sociale si sarebbe dovuto reimpossessare di funzioni che erano state trasferite allo Stato. Abbattere il dominio di classe esistente non sarebbe stato sufficiente; occorreva estinguere il dominio di classe in quanto tale.

Le riforme sociali vennero ritenute ancora più rilevanti di quelle politiche e avrebbero dovuto evidenziare la differenza con le rivoluzioni del 1789 e del 1848. Nel mezzo di una eroica resistenza agli attacchi delle truppe di Versailles, la Comune prese numerosi provvedimenti che indicarono il cammino per un cambiamento possibile. Si organizzarono progetti per limitare la durata della giornata lavorativa.

Si decise che la scuola sarebbe stata resa obbligatoria e gratuita per tutti e che l’insegnamento laico avrebbe sostituito quello di stampo religioso. Si stabilì che le officine abbandonate dai padroni sarebbero state consegnate ad associazioni cooperative di operai e che alle donne sarebbe stata garantita «uguale retribuzione per uguale lavoro». Anche gli stranieri avrebbero potuto godere degli stessi diritti sociali dei francesi.

La Comune voleva instaurare la democrazia diretta. Si trattava di un progetto ambizioso e di difficile attuazione. La sovranità popolare alla quale ambivano i rivoluzionari implicava una partecipazione del più alto numero possibile di cittadini.

A PARIGI si erano sviluppati una miriade di commissioni centrali, sotto-comitati di quartiere e club rivoluzionari che affiancarono il già complesso duopolio composto dal consiglio della Comune e dal comitato centrale della Guardia Nazionale. Quest’ultimo, infatti, aveva conservato il controllo del potere militare. Se l’impegno di un’ampia parte della popolazione costituiva una vitale garanzia democratica, le troppe autorità in campo rendevano complicato il processo decisionale.

IL PROBLEMA della relazione tra l’autorità centrale e gli organi locali produsse non pochi cortocircuiti, determinando una situazione caotica. L’equilibrio già precario saltò del tutto quando venne approvata la proposta di creare un Comitato di Salute Pubblica di cinque componenti – una soluzione che si ispirava al modello dittatoriale di Robespierre nel 1793. Fu un errore drammatico errore che decretò l’inizio della fine di un’esperienza politica inedita e spaccò la Comune in due blocchi contrapposti.
Al primo appartenevano neo-giacobini e blanquisti, propensi alla concentrazione del potere e in favore del primato della dimensione politica su quella sociale. Del secondo facevano parte la maggioranza dei membri dell’Internazionale, per i quali la sfera sociale era più significativa di quella politica. Essi ritenevano necessaria la separazione dei poteri e credevano che la repubblica non dovesse mai mettere in discussione le libertà politiche. I suoi eletti non erano i possessori della sovranità – essa apparteneva al popolo – e non avevano alcun diritto di alienarla.

UN TENTATIVO DI RITESSERE l’unità all’interno della Comune si svolse quando era già troppo tardi. Durante la «settimana di sangue» (21-28 maggio), le armate fedeli a Thiers uccisero tra i 17mila e i 25mila cittadini. Fu il massacro più violento della storia della Francia. I prigionieri catturati furono oltre 43mila e un centinaio di questi subì la condanna a morte, a seguito di processi sommari. In circa 13.500 vennero spediti in carcere o deportati (in numero consistente nella remota Nuova Caledonia). In tutt’Europa, sottacendo la violenza di Stato, la stampa conservatrice accusò i comunardi dei peggiori crimini ed espresse grande soddisfazione per il ripristino «dell’ordine naturale» e del trionfo della «civiltà» sull’anarchia.

Eppure, l’insurrezione parigina rafforzò le lotte operaie e le spinse verso posizioni più radicali. All’indomani della sua sconfitta, Pottier scrisse un canto destinato a diventare il più celebre del movimento dei lavoratori: «Uniamoci e domani L’Internazionale sarà il genere umano!». Parigi aveva mostrato che bisognava perseguire l’obiettivo della costruzione di una società alternativa a quella capitalista. La Comune mutò le coscienze dei lavoratori e la loro percezione collettiva. Da quel momento in poi, divenne sinonimo del concetto stesso di rivoluzione.

* Fonte: Marcello Musto, il manifesto

Italijanski palikuci (italiani brucia case) gridavano i civili quando nel 1941 le truppe del regio esercito e i «battaglioni M» invasero la Jugoslavia per concludere l’occupazione dei Balcani avviata con le aggressioni di Albania e Grecia nel 1939-40.

Lungi dall’essere «italiani brava gente», come la narrazione autoassolutoria del dopoguerra avrebbe affermato come dogma intangibile dell’elusione della «colpa», i militari del re e di Mussolini venivano così apostrofati per l’uso sistematico dei lanciafiamme contro le case dei civili sfollati, fucilati o deportati nei campi di internamento in applicazione delle misure di controguerriglia antipartigiana che l’Italia avrebbe conosciuto con l’occupazione nazista.

L’OTTANTESIMO anniversario dell’aggressione alla Jugoslavia dovrebbe rappresentare, nelle celebrazioni del «Giorno del ricordo», occasione di elaborazione storica del nostro passato consegnando una interpretazione integrale alla legge istitutiva di questa giornata che invita a dare conto «della più complessa vicenda del confine orientale» ovvero a ciò che è accaduto prima delle foibe e dopo la fine della guerra.

Al crepuscolo dello Stato liberale e nel pieno «biennio rosso» 1919-20, lo squadrismo emerse in quelle terre come elemento di sintesi di istanze antislave (sul piano nazionalista) e anticomuniste (sul piano politico-sociale) dando rappresentanza a settori della società italiana che andavano dalla piccola-media borghesia alla proprietà terriera fino ai militari. A Trieste e in Istria si sperimentò quel fascismo di frontiera che nel 1920-22 intensificò l’azione violenta in tutta la regione. In quelle terre nacque il moto reazionario che avrebbe investito il Paese ed instaurato la dittatura «In altre plaghe d’Italia – scrive Mussolini nel 1920 – i fasci di combattimento sono appena una promessa, nella Venezia-Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della situazione politica».

Così mentre nel 1919-20 i tribunali a Trieste e Pola, non ancora fascistizzati, emettevano 50 condanne per complessivi 120 anni di carcere contro ferrovieri e metalmeccanici in sciopero accusati di «anti-italianità, filo-slavismo, cospirazione contro lo Stato e istigazione alla guerra civile», lo squadrismo fascista il 13 luglio 1920 assaltò la sede della Narodni Dom (Casa del popolo) a Trieste incendiando l’intero palazzo (l’Hotel Balkan che cento anni dopo sarà restituito alla Slovenia dal Presidente della Repubblica Mattarella) ed anticipando la condotta del regio esercito nel 1941. Mussolini chiarì il suo programma a Pola il 22 settembre 1920: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone io credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

L’occupazione nazifascista della Jugoslavia costò la vita a circa 1 milione e mezzo di persone travolte dalle misure draconiane della «Circolare 3C» (che istruiva i soldati italiani alla repressione di civili e partigiani) firmata dal generale Mario Roatta; dalla «Cintura di Lubiana» (un perimetro di filo spinato e posti di blocco attorno alla città poi sottoposta a razzie e deportazioni); dalle direttive di Mussolini ai suoi generali «al terrore dei partigiani – disse a Gorizia nel 1942 – si deve rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri è cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto».

DALL’IMPIANTO IDEOLOGICO della «guerra totale» fascista discese la condotta dei comandi militari del regio esercito che fece mostra di sé nella città di Podhum il 12 luglio 1942 (91 uomini fucilati sul posto e 800 deportati) o nei villaggi di Zamet e Danilovgrad, rastrellati e rasi al suolo nell’agosto 1942 o con il «governatorato» del generale Alessandro Pirzio Biroli in Montenegro. Pratiche belliche che facevano seguito alla snazionalizzazione teorizzata da Mussolini: «quando l’etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazioni e l’esodo di parti di esse sono provvidenziali perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali».

Alla fine del conflitto nessun italiano iscritto nella lista dei criminali di guerra stilata dalle Nazioni Unite (750 per la Jugoslavia) fu mai processato. La Guerra Fredda e le necessità anglo-americane di riorganizzare l’esercito italiano e inserirlo nell’Alleanza atlantica permisero impunità e continuità dello Stato, determinando quella «mancata Norimberga» che segnerà la più vistosa delle aporie della nostra storia.

Molti criminali di guerra assumeranno ruoli apicali negli apparati della Repubblica. Diverranno questori, prefetti e uomini dei servizi segreti e saranno implicati in vicende tragiche e decisive della storia nazionale dalla strage di Portella delle Ginestre a quella di Piazza Fontana fino al golpe Borghese.

IL «SILENZIO» sulle foibe (in realtà nel 1945 vennero istruiti alcuni processi ed emesse condanne) non fu il risultato di una trama omissiva delle sinistre italiane. Ad evitare la riapertura di quella pagina furono i governi De Gasperi nella consapevolezza che sollevare la questione avrebbe comportato per l’Italia l’obbligo di rispondere sia per i crimini perpetrati in Jugoslavia, Albania, Grecia, Libia, Etiopia, Urss e Francia sia per i risarcimenti economici fissati proprio il 10 febbraio 1947 con la firma del Trattato di Pace di Parigi.

La «più complessa vicenda del confine orientale» racconta questo lato della storia nazionale e deve spingere il Paese a fare i conti con il proprio passato contro un «populismo storico» che si diffonde pervicacemente nella società minandone i valori costituzionali ed antifascisti: «Una generazione – scriveva Gramsci – può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo storico da cui è stato preceduto».

Bibliografia ragionata

Sulle foibe: Joze Pirjevec, «Foibe. Una storia d’Italia» (Einaudi), Raoul Pupo-Roberto Spazzali, «Foibe» (Mondadori), Giacomo Scotti, «Dossier Foibe» (Manni), Giampaolo Valdevit, «Foibe. Il peso del passato, Venezia Giulia 1943-1945» (Marsilio). Sull’occupazione italiana della Jugoslavia e dei Balcani: Davide Conti, «L’occupazione italiana dei Balcani 1941-1943. Crimini di guerra e mito della brava gente» (Odradek), Eric Gobetti, «Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943 (Laterza), Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa 1940-1943» (Bollati Boringhieri). Sui mancati processi ai criminali di guerra italiani e sul mito degli «italiani brava gente»: Michele Battini, «Peccati di memoria: la mancata Norimberga italiana» (Laterza), Davide Conti, «Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana» (Einaudi), Angelo Del Boca, «Italiani brava gente?» (Neri Pozza), Filippo Focardi, «Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale» (Laterza), Filippo Focardi, «Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe» (Viella).

* Fonte: Davide Conti, il manifesto

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