Patriot act – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sat, 16 Jan 2016 15:18:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Europa, stato di eccezione permanente https://www.micciacorta.it/2016/01/europa-stato-di-eccezione-permanente/ https://www.micciacorta.it/2016/01/europa-stato-di-eccezione-permanente/#respond Sat, 16 Jan 2016 15:16:00 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21154 Guerra. La repressione del dissenso

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francia

 Poteri speciali ai prefetti, interruzione della libera circolazione, divieto di qualsiasi manifestazione pubblica, controllo dei mezzi di informazione, possibilità per le forze dell’ordine di perquisizioni a domicilio 24 ore su 24 e di indire il coprifuoco. Sono queste le principali misure dello “stato di emergenza” dichiarato da Hollande all’indomani della strage del 13 novembre scorso, a Parigi, ancora in vigore.

Come è successo negli Usa dopo l’11 settembre, una misura straordinaria diventa la modalità attraverso la quale si normalizza l’andamento democratico in nome della sicurezza nazionale.

La repressione del dissenso è un punto cardine delle leggi antiterrorismo e dello stato di emergenza.

La guerra come risposta al terrorismo, i fili spinati e il Frontex per respingere donne e uomini migranti, la costruzione del nemico interno ed esterno sono le facce di una stessa logica securitaria e repressiva che connota sempre più l’Europa.

Ieri, alla biblioteca della Chiesa Valdese di via Marianna Dionigi 69, a Roma, si è discusso nel primo convegno europeo su questo nodo fondamentale, promosso dall’Osservatorio sulla Repressione e dall’associazione Sgattabuia, con Legal Team Italia e il gruppo della Sinistra Unitaria Europea al Parlamento Europeo (Gue/Ngl). Hanno partecipato, tra gli altri, esponenti del sindacato degli avvocati francesi, giuristi, attivisti e rappresentanti di lotte sociali, dai No Tav al portavoce della Coalizione internazionale sans papiers, migranti, rifugiati e richiedenti asilo.

Perché il fil rouge che lega lotte e movimenti in Europa, è, in questo momento, il fatto che le legislazioni speciali, mentre sospendono alcune libertà individuali per rafforzare e facilitare l’intervento delle autorità, siano sempre rivolte non solo a colpire la minaccia esterna ma anche quella interna. Le lotte sociali sono temute e vengono affrontate con la criminalizzazione mediatica e il pugno di ferro nelle piazze e nei tribunali.

Questo avviene oggi all’interno della “fortezza Europa”, dove i sistemi cosiddetti democratici sono sempre meno portatori di consenso popolare e il potere si tutela restringendo gli spazi di diritto e libertà. Il rischio che l’Ue si costruisca come entità politica e non solo di governance economica, che costruisca il suo popolo, il suo consenso, proprio sulla logica securitaria è molto alto. Gli stati diventano gli esecutori dell’ordinamento penale come dispositivo di prevenzione, organizzando il sistema penale intorno alla paura.

All’insicurezza sociale si risponde con l’implementazione delle istituzioni totali, una rete poliziesca e penale dalle maglie sempre più fitte. I Cie e le varie sigle che si usano per descrivere la detenzione dei migranti sono laboratorio di un meccanismo che si applica all’intera società. Viviamo ormai dentro una società di reclusi: siamo oggetto e soggetto delle politiche securitarie degli stati d’emergenza, reclusi e guardiani contemporaneamente.

E l’Italia è il paese dove da più di 40 anni si vive dentro uno “stato di emergenza”. Dall’emergenza per antonomasia che è stata la cosiddetta lotta al terrorismo, che ha prodotto la legislazione speciale ancora oggi vigente, è stato un susseguirsi di emergenze. In questo senso l’Italia è servita da laboratorio durante il processo di integrazione europea delle dinamiche di repressione e controllo sociale.

Basti pensare al reato di devastazione e saccheggio, una legge di matrice fascista introdotta dal codice Rocco nel 1930 e tutt’ora in vigore – siamo l’unico Paese ad avere una legge simile -, e dall’altra parte all’assenza del reato di tortura, come previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Con buona pace di tutte le pagine più nere degli ultimi anni: dalla macelleria messicana del G8 di Genova ai casi di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli, Carlo Giuliani, Franco Mastrogiovanni, Giuseppe Uva e purtroppo di molte altre vittime della violenza delle forze dell’ordine.

Solo opponendoci alle misure emergenziali, affermando la nostra libertà e la nostra necessaria agibilità politica, potremo rafforzare e far crescere le lotte sociali.

Dobbiamo opporci alla barbarie del terrorismo lottando contro i bombardamenti e le leggi speciali che invece alimentano la guerra al terrore.

La guerra non consiste solo in missioni militari e bombardamenti. La guerra è anche quella che subiscono quotidianamente i migranti – quelli che riescono ad arrivare vivi in Europa -, è anche quella di interi contingenti militari schierati come forze occupanti in Val Susa contro il movimento  No Tav, è nelle strade delle città pattugliate dai militari armati, è il divieto di manifestare liberamente, come succede ora a Parigi, a Roma, a Madrid, con la ley mordaza. Lo “stato di eccezione” è uno “stato di guerra”.

* Osservatorio sulla Repressione

** eurodeputata de L’Altra Europa con Tsipras – gruppo GUE/NGL

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Francia, il vicolo cieco dei diritti https://www.micciacorta.it/2015/12/francia-il-vicolo-cieco-dei-diritti/ https://www.micciacorta.it/2015/12/francia-il-vicolo-cieco-dei-diritti/#respond Thu, 31 Dec 2015 10:36:00 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21053 Parigi. La pericolosa svolta securitaria dopo gli attentati

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PARIGI. C’era un campo nel quale François Hollande e la sinistra di governo in Francia non avevano ancora abdicato: quello delle libertà, dei principi. Anche se questi ultimi, pur continuamente ribaditi, entravano spesso in contraddizione con le pratiche dello Stato e delle forze di polizia. La sinistra si richiamava alle libertà, ai diritti umani, all’eredità del 1789. E proclamava con forza, in quest’ambito, la sua opposizione non solo all’estrema destra e al Front national, ma anche alla destra pronta a chiedere sempre più sicurezza in nome della lotta contro la delinquenza o contro il terrorismo. Dalla vittoria elettorale nel maggio 2012, François Hollande e il Partito socialista avevano abbandonato via via tutte le loro promesse. Avevano rinunciato a qualunque forma di resistenza al liberismo economico, applicando le ricette di austerità in precedenza condannate, e aggravando le disuguaglianze. Si erano piegati al diktat di Bruxelles, che in campagna elettorale avevano stigmatizzato. E, tradimento finale, avevano lasciato solo il governo greco, frutto di una grande volontà popolare, di fronte a una Commissione europea e a un governo tedesco chiusi nelle proprie certezze. La politica estera di Hollande è stata essenzialmente caratterizzata dall’uso della forza militare come mezzo di risoluzione dei conflitti. Mai in precedenza, dalla seconda guerra mondiale, un governo francese era stato impegnato in tanti teatri di operazione. Dal Mali all’Iraq, dalla Repubblica centrafricana alla Siria, la Francia, malgrado i mezzi limitati, malgrado i proclami di austerità, trova le risorse necessarie a intervenire in armi. Comportandosi sempre da fedele alleata degli Stati uniti. E quando Parigi ha criticato Washington, è stato per rimproverare al presidente Barack Obama la sua debolezza di fronte a Tehran sul dossier nucleare. Di fronte all’ondata di rifugiati provenienti dalla Siria e dal Medioriente, ingigantitasi nel corso del 2015, la Francia socialista ha dato prova di pavidità, rifiutando di onorare la tradizione di accoglienza e di rispettare il diritto internazionale che obbliga i paesi a proteggere le persone minacciate. E’ tristemente ironico, del resto, che la grande maggioranza dei rifugiati preferisca la Germania, il Regno unito e l’Europa del Nord: è lontano il tempo in cui la Francia era la seconda patria dei rifugiati armeni, degli ebrei centroeuropei, dei polacchi e degli spagnoli. E gli attentati del 13 novembre 2015, dopo quelli contro Charlie Hebdo e il supermercato kosher nel mese di gennaio, hanno portato il governo a rinnegare l’ultimo baluardo, quello della difesa dei diritti umani, dei grandi principi di una democrazia liberale. Mentre la Corte di cassazione, incoraggiata dalle autorità, criminalizzava la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani nota come Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) – facendo della Francia l’unico paese democratico nel quale si applichi una simile misura -, il governo decideva di proclamare lo stato di emergenza, di prorogarlo per tre mesi e infine di progettarne l’ingresso nella Costituzione. Questa legge del 1955, adottata agli inizi di quella che la Francia rifiutava di chiamare «guerra di Algeria», era stata prevista per liquidare l’insurrezione di un popolo. Si sa che cosa accadde. Ma è la prima volta che la legge è estesa a tutto il territorio nazionale (nel 1955, copriva solo i «tre dipartimenti francesi» di Algeria). Se passerà la riforma della Costituzione (che in gennaio sarà presentata al Congresso, Parlamento e Senato in seduta comune, e dovrà ottenere la maggioranza dei tre quinti dei votanti – un risultato impossibile senza il sostegno della destra), «l’eccezione diventerà la regola», come ha titolato il quotidiano Le Monde, e alle forze di polizia e all’amministrazione saranno accordati poteri esorbitanti in materia di arresti, detenzioni domiciliari, perquisizioni, intercettazioni telefoniche di decine di migliaia di cittadini. Sono state già decise 200 assegnazioni agli arresti domiciliari (anche di militanti verdi), ed effettuate oltre tremila perquisizioni – in gran parte senza alcun risultato rispetto all’obiettivo dichiarato, la «lotta contro il terrorismo». I musulmani sono l’obiettivo privilegiato di questi attacchi e il potere sta incoraggiando un’islamofobia della quale il Front national di Marine Le Pen non è affatto l’unico portatore. Da tempo la destra e settori importanti della sinistra e anche dell’estrema destra, con vari pretesti – lotta all’«oscurantismo», laicità, eguaglianza fra i generi – si sono trasformati in cantori di questa nuova forma di razzismo che prende di mira prioritariamente gli immigrati e settori delle classi popolari. Ma è con una misura ben più che simbolica che François Hollande ha chiuso il cerchio delle sue abiure. E’ la misura che intende privare della cittadinanza i cittadini nati francesi ma che dispongono anche di un’altra nazionalità. Così si trasformerebbero di fatto in cittadini di serie B i figli di immigrati, nati francesi sul territorio nazionale, ma che hanno ancora la cittadinanza dei loro genitori. In passato aveva sostenuto questa misura solo il Front national, raggiunto nel 2010 da Nicolas Sarkozy. Si accentuerà senza dubbio la frattura fra le popolazioni «musulmane» e i francesi «per sangue», e si finirà per legittimare il discorso dell’Organizzazione dello Stato islamico (il Daesh) che incita i musulmani a rifiutare una società che li disprezza. Come dichiarava Henri Leclerc, avvocato, presidente d’onore della Lega dei diritti umani (Ldh) e figura emblematica della sinistra giudiziaria (Médiapart, 24 dicembre 2015): «Fatte le debite proporzioni, ricordiamoci che nel 1933 Hitler si era avvalso degli strumenti legislativi creati dai socialdemocratici. Se un giorno avremo un governo di estrema destra, questo potrebbe trovare strumenti per attuare politiche ultra-securitarie e spaventosamente repressive». *ex caporedattore di Le Monde diplomatique, direttore del giornale online Orient XXI (Traduzione di Marinella Correggia)

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Dopo Parigi e lo Stato d’eccezione. Sconfiggere il mostro https://www.micciacorta.it/2015/12/dopo-parigi-e-lo-stato-deccezione-sconfiggere-il-mostro/ https://www.micciacorta.it/2015/12/dopo-parigi-e-lo-stato-deccezione-sconfiggere-il-mostro/#respond Fri, 18 Dec 2015 08:05:24 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21012 Gli attentati di Parigi hanno aperto uno squarcio, doloroso e improvviso, nel velo di rimozione, indifferenza e ottundimento che impedisce ai cittadini europei e occidentali di conoscere e indignarsi per i mille e mille episodi simili che quotidianamente avvengono in Medio Oriente e in Africa

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Una guerra globale è in atto. Non nasce oggi, ma oggi risulta più evidente a tutti. Fors’anche grazie a papa Bergoglio, che ha introdotto nella riflessione pubblica la sua convinzione di una “Terza guerra mondiale” in corso, seppure “a pezzi”. Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre, questa guerra pare finalmente scuotere il mondo e le pubbliche opinioni, mostrando una parte – una piccola parte – dei suoi effetti. Ma continuano a essere occultate o non indagate le sue cause, la cui esatta comprensione è condizione per individuare le possibili e necessarie soluzioni. Cause che non possono essere ridotte a una, essendo un intreccio di ingredienti variamente distribuiti e miscelati nei diversi “pezzi” di questo conflitto mondiale. Della guerra si continuano a dare definizioni spesso parziali e sempre fuorvianti: di civiltà, di religione, di etnie, di supremazia, a nascondere la radice neocoloniale e il fondamento di profonde diseguaglianze. Come ha ricordato l’economista francese Thomas Piketty, l’area che va dall’Egitto all’Iran, passando per la Siria, l’Iraq e la Penisola arabica, con un totale di circa 300 milioni di abitanti, vede il 60-70% del PIL regionale concentrato nelle monarchie petrolifere, che hanno solo il 10% della popolazione. Monarchie che, non per caso, hanno avuto una funzione di ostetrica dello Stato Islamico. Gli immondi appetiti del “complesso militare-industriale” Occorre però leggere e capire i nessi che rendono i “pezzi” un insieme, solo apparentemente disomogeneo. Il filo nero che li lega consiste principalmente negli interessi economici dell’industria bellica e di quella petrolifera e del tessuto finanziario su cui appoggiano, i cui appetiti non si fermano davanti ad alcuno scrupolo morale. E non da oggi. Si tratta, mutatis mutandis, dello stesso coacervo di potere denunciato per la prima volta dal presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower nel discorso d’addio del 17 gennaio 1961: «Nei concili di governo, dobbiamo guardarci le spalle contro l’acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici ed obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme». Parole profetiche sul piano della descrizione, assai meno su quello degli auspici. Nel corso del tempo nessun compromesso sembra essere stato raggiunto per salvaguardare, almeno in parte significativa, libertà e “metodi pacifici”. Nel nuovo secolo, anzi, l’alleanza tra grande finanza e quel complesso di interessi bellici ed energetici ha del tutto esautorato la funzione politica e i governi democratici, perlopiù ridotti a certificatori di decisioni presi da altri e in altre sedi; e basti al proposito ricordare l’enorme influenza che ha, ad esempio, la National Rifle Association sulle elezioni, anche presidenziali, negli Stati Uniti. Il default della democrazia Ecco che allora le scelte di François Hollande e del governo di Manuel Valls, all’indomani della strage operata da Daesh per le strade parigine, non appaiono solo e tanto una reazione emotiva: sono piuttosto una tappa di edificazione dello Stato d’eccezione, una forte accelerazione della compressione delle libertà di dissenso, di critica e di protesta, attraverso un Patriot act declinato alla francese e grazie alle modifiche costituzionali prontamente introdotte in direzione di una post-democrazia; sono una cinica strumentalizzazione politica al fine di sottrarre spazio e voti al Front National di Marine Le Pen, competendo sullo stesso scivoloso terreno intriso dal veleno della xenofobia; sono, assieme e prima di tutto, un’operazione di favoreggiamento, ancora più cinica, del già florido mercato degli armamenti, arrivando persino a rompere i vincoli del Patto di stabilità europeo al fine di dirottare ingenti risorse pubbliche verso i mercanti di morte, gli apparati militari e l’industria della cosiddetta sicurezza. Aprendo la strada agli altri Paesi, Italia per prima. In tal modo la religione dell’austerity, che sino a ieri era parsa indiscutibile e veniva imposta con la massima fermezza non solo alla martoriata Grecia ma a gran parte dei Paesi dell’Unione, per comprimere salari e diritti dei lavoratori, privatizzare i beni comuni e destrutturare i sistemi di welfare, oggi viene seriamente incrinata, con il consenso della governance comunitaria, per il supremo e superiore interesse del business bellico. Così che i popoli si trovano a passare dalla padella dell’impoverimento e delle diseguaglianze, alla brace della guerra e del terrorismo, mentre il “complesso militare-industriale”, ormai compiutamente transnazionalizzato e finanziarizzato, si frega contento le avide e insanguinate mani. Che la ritorsione e spirale militare, con l’intensificazione dei bombardamenti francesi che si uniscono a quelli della coalizione internazionale, abbia l’effetto nascosto e prevalente di alimentare la produzione di armi, più che di colpire davvero lo Stato Islamico, lo mostrano in modo chiaro le cifre: gli 8418 raid aerei compiuti dalla coalizione al 22 novembre 2015 in Iraq e Siria contro Daesh hanno provocato la morte di circa ventimila combattenti islamici (e di circa duemila civili); come a dire una media di soli 2-3 jihadisti uccisi in ogni missione e bombardamento. Un numero evidentemente risibile (dal punto di vista militare, non da quello umano, ovviamente), che poco giustifica gli ingenti mezzi utilizzati e gli alti costi economici. La guerra, proprio come la finanza nel tempo della globalizzazione neoliberista, drena risorse dal basso verso l’alto, dal pubblico verso il privato. Alle radici della guerra globale Ciò detto quanto agli esiti, quanto meno a quelli contingenti. Ma, per capire, occorre sempre riandare anche alle origini. Gli attentati di Parigi hanno aperto uno squarcio, doloroso e improvviso, nel velo di rimozione, indifferenza e ottundimento che impedisce ai cittadini europei e occidentali di conoscere e indignarsi per i mille e mille episodi simili che quotidianamente avvengono in Medio Oriente e in Africa e per quella forma di terrorismo moralmente accettato dalla (in)sensibilità occidentale che è la guerra dei droni e i bombardamenti indiscriminati che provocano per lo più vittime civili. La strage di Parigi, e poi gli attacchi nel Mali e in Tunisia, costituiscono solo l’ultima, prevedibile, tappa di una belligeranza permanente che trova una delle sue radici principali nelle guerre volute da George W. Bush. La destabilizzazione dell’Iraq ha, infatti, creato le condizioni per la crescita di Daesh, sorto grazie al sostegno, alle armi e ai finanziamenti delle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, con il consenso attivo degli Stati Uniti e con la passività dell’Europa. L’Arabia Saudita è il quarto paese nel mondo per spese militari: oltre 80 miliardi di dollari spesi nel 2014, dopo Stati Uniti (610 miliardi), Cina (216) e Russia (84,5), su un totale mondiale che ammonta a 1776 miliardi. Un dato globale, di fonte SIPRI, oltretutto sottostimato e che può essere fuorviante, giacché riguarda solo i sistemi d’arma maggiori e non tiene conto di voci di spesa inserite – o nascoste – in capitoli diversi del bilancio degli Stati. Quale ad esempio, il programma di riarmo nucleare voluto dall’amministrazione Obama, che prevede la spesa di mille miliardi di dollari in 10 anni, di cui 200 già stanziati dal Congresso USA, ascritti al bilancio del Dipartimento per l’Energia. L’intervento militare occidentale in Iraq (costato ai contribuenti americani almeno duemila miliardi di dollari, ma che ha comportato appalti e profitti altrettanto miliardari per le corporation), e il successivo conflitto, hanno sinora prodotto, secondo Iraq Body Count, 224 mila morti, due terzi dei quali civili; nel solo mese di ottobre 2015 sono state uccise 714 persone, di cui 559 civili. I fratelli siamesi e il Vaso di Pandora La spirale guerra-terrorismo-guerra riproduce se stessa all’infinito e sta inverando esattamente quella strategia della “guerra infinita” teorizzata da Bush, dal suo vicepresidente Dick Cheney e dalla sua amministrazione, a tutto beneficio dei propri interessi economici, legati al settore petrolifero e a quello bellico. È facile prevedere che, se l’industria degli armamenti e le lobby da essa dipendenti, continueranno a dettare le scelte politiche a livello mondiale, il terrorismo è destinato a crescere e a insanguinare sempre più anche le strade dell’Occidente, i cui governi portano evidenti responsabilità di questa situazione. Guerra e terrorismo, infatti, sono fratelli siamesi, che si alimentano vicendevolmente a tutto e unico beneficio dei signori della guerra. I promotori e profittatori delle guerre sono stati maledetti dal Papa, cui va riconosciuto essere una delle rare voci dissonanti in questo momento nel mondo. Così come non vanno, però, dimenticate le responsabilità avute dal Vaticano nel processo di dissoluzione dell’ex Jugoslavia, quanto meno nella sua origine, con la separazione unilaterale di quella Slovenia ora impegnata a emulare Viktor Órban nella costruzione di muri e barriere di filo spinato contro i profughi. Con la guerra nei Balcani nei primi anni Novanta del secolo scorso, infatti, si è scoperchiato il Vaso di Pandora degli odii etnici e della strategia di destabilizzazione post-Muro di Berlino. La Terza guerra mondiale, frastagliata ma in atto, è il terribile mostro fuoriuscito da quel Vaso. La guerra è un piano che, ogni giorno che passa, viene reso più pericolosamente inclinato; come da ultimo con l’escalation della tensione voluta dalla Turchia di Erdogan, con l’abbattimento di un caccia russo sui cieli della Siria e con la cinica politica di Hollande, che ha chiamato alla santa alleanza per una recrudescenza della guerra e che è arrivato alla decisione di sospendere parti della Convenzione europea sui diritti umani. Tanto per cambiare, si dimostra che se la prima vittima di ogni guerra è la verità, la seconda sono i diritti umani e le libertà civili. Quel mostro, ora libero di insanguinare il mondo, può essere fermato e reso impotente solo dal basso, da una ripresa dei movimenti a livello planetario per la pace, la giustizia climatica, la convivenza e la giustizia sociale. Editoriale del magazine internazionale Global Rights – Numero 1, dicembre 2015  Il magazine è sfogliabile o scaricabile gratuitamente sul sito globalrights.info 

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Le prime vittime della guerra https://www.micciacorta.it/2015/12/le-prime-vittime-della-guerra/ https://www.micciacorta.it/2015/12/le-prime-vittime-della-guerra/#respond Tue, 01 Dec 2015 12:59:04 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20938 La verità è sempre la prima vittima di ogni guerra. La seconda sono i diritti umani e le libertà civili

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La verità è sempre la prima vittima di ogni guerra. La seconda sono i diritti umani e le libertà civili. La Francia di François Hollande conferma questa regola, già inequivocabilmente dimostrata dagli Stati Uniti del Patriot act, di Guantánamo, di Abu Ghraib, delle extraordinary renditions. Divieto di dissenso Lo Stato d’emergenza, instaurato dopo la strage a Parigi del 13 novembre operata da Daesh, assieme al varo di modifiche alla Costituzione e alla sospensione di parti della Convenzione europea sui diritti umani, viene utilizzato per reprimere il dissenso, prima che il terrorismo. Il terrorismo non viene ovviamente scalfito, ad esempio, dal divieto di manifestare. Alla vigilia della Conferenza mondiale sul clima, invece, 24 militanti ambientalisti sono finiti agli arresti domiciliari. Vi sono state centinaia e centinaia di perquisizioni e a migliaia di persone è stato impedito di entrare nel Paese. Una forma di repressione preventiva degli oppositori che in Italia chi ha una certa età ricorda bene, perché veniva utilizzata dal fascismo a ridosso degli eventi del regime. Anche allora il patriottismo era di rigore, essendo il primo ingrediente necessario di ogni guerra. Naturalmente, i paralleli storici sono suggestivi ma anche scivolosi. Fatto sta che in Francia si sono levate voci da parte di autorevoli intellettuali (l’erba del vicino è sempre più verde, viene da dire, ascoltando il rumoroso silenzio italiano) contro la chiamata alle armi del loro governo: «Daesh è uno dei nostri peggiori nemici: massacra, decapita, stupra, opprime le donne e indottrina i bambini, distrugge patrimoni dell’umanità. Al tempo stesso, la Francia vende al regime saudita, notoriamente sostenitore delle reti jihadiste, elicotteri da combattimento, navi da pattugliamento, centrali nucleari; l’Arabia saudita ha appena ordinato alla Francia tre miliardi di dollari di armamenti; ha pagato la fattura di due navi Mistral, vendute all’Egitto del maresciallo al Sisi che reprime i democratici della primavera araba. In Arabia saudita, non si decapita forse? Non si tagliano le mani? Le donne non vivono in semi-schiavitù? L’aviazione saudita, impegnata in Yemen a fianco del regime, bombarda le popolazioni civili, distruggendo anche tesori dell’architettura. Bombarderemo l’Arabia saudita? Oppure l’indignazione varia a seconda delle alleanze economiche?».   I genitori di Daesh Si tratta di verità certo non nuove, ma che non provocano nessun effetto politico, tanto è forte il condizionamento da parte delle lobby degli armamenti, la miopia o la viltà di molta parte delle classi politiche e dei governi occidentali, cointeressate in quei cinici business, la debolezza dei movimenti globali e, ancor più, europei. L’Arabia Saudita, oltre che una capitale della violazione dei diritti umani e uno dei principali artefici e favoreggiatori dello Stato islamico, è il quarto Paese mondiale per livello della spesa militare (80,5 miliardi di dollari nel 2014), dopo Stati Uniti, Cina e Russia; armi e sistemi d’arma che vedono Francia e Italia tra i principali venditori. Come ha scritto su “la Repubblica” Kamel Daoud, intellettuale e giornalista algerino, ricordando il ruolo del wahabismo, «Daesh ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e il suo apparato religioso-industriale […] L’Arabia Saudita è un Daesh riuscito». L’appello francese si conclude in questo modo: «Quando furono scatenate le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq, le manifestazioni di protesta furono imponenti. Sostenevamo che questi interventi militari avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Dobbiamo unirci con urgenza contro i bombardamenti francesi che accrescono le minacce, e contro le derive liberticide che non risolvono nulla, anzi evitano e negano le cause del disastro. Questa guerra non sarà in nostro nome».   Il doppiopesismo sulle vittime Uno dei primi firmatari di quel testo, il filosofo Etienne Balibar, all’indomani della strage di Parigi, aveva espresso su “Open Democracy” un’altra considerazione importante, a ulteriore dimostrazione che, in questi tempi cupi, le uniche voci capaci di profondità e verità stanno arrivando da poeti e filosofi, oltre che dal Papa: «Siamo in guerra. O meglio, ormai siamo tutti dentro la guerra. Diamo colpi e ne riceviamo. Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, ne paghiamo il prezzo e ne portiamo il lutto. Perché ogni morto è insostituibile». Ogni vita è unica, a prescindere da origini, etnie, convinzioni politiche e religiose, o condizioni sociali. Ma evidentemente non la pensano così le retoriche mediatiche e patriottarde che sembrano aver fatto propria la massima maoista, secondo la quale vi sono morti pesanti come montagne e altre leggere come piume. Quelle pesanti e memorabili sono solo quelle occidentali, a loro volta suddivise in quelle degne di nota in quanto appartenenti a ceti abbienti e quelle da ignorare poiché miserabili. Per rimanere alle ultime vicende, le vittime dell’aereo russo sul Sinai il 31 ottobre, quelle della strage di Beirut del 12 novembre, quelle di Bamako del 20 novembre o quelle dell’attentato a Tunisi del 24 novembre sono anonime e ininfluenti, a malapena se ne conosce il numero. Per non dire dei dodici morti, di cui cinque bambini, uccisi dal raid che il 26 novembre ha colpito la scuola Heten, a Raqqa, città siriana considerata il cuore del Califfato. Vittime che si aggiungono alle centinaia di civili uccisi dai bombardamenti in quella zona; uccisioni ammesse dagli stessi responsabili, i quali assicurano che «la coalizione spende molto tempo per individuare i target, assicurare la massima efficacia e minimizzare le potenziali vittime civili», come ha dichiarato il portavoce del comando militare USA. Come a dire che ogni volta che un aereo sgancia missili sul territorio siriano (o iracheno, o afghano…) sa per certo che ucciderà civili e persone innocenti, anziani e bambini, ma lo fa ugualmente, se pur cercando di limitarne il numero (ma, ad esempio, l’ospedale di Kunduz gestito in Afghanistan dalla ONG Medici senza frontiere è stato bombardato volutamente dai caccia statunitensi il 3 ottobre scorso, provocando 22 vittime).   La comoda coperta del terrorismo Di nuovo, non si può che convenire con Papa Francesco quando ha maledetto chi promuove e lucra sulle guerre. Aggiungeremmo anche coloro che le votano, naturalmente democraticamente. Per una volta, tocca simpatizzare con Matteo Renzi, quando nei giorni scorsi ha evitato di arruolare l’Italia nella “santa alleanza” richiesta da Hollande per intensificare i raid e la guerra: «La posizione italiana è la più forte in prospettiva, le grandi crisi non si risolvono con qualche dichiarazione muscolare, ci vuole la diplomazia». E speriamo che questa dichiarazione del premier corrisponda a una ritrovata fedeltà al tanto bistrattato articolo 11 della Costituzione e non a calcoli contingenti.   Banche e borse armate Vero è che il terrorismo si dimostra, come sempre, una comoda coperta a disposizione di chiunque voglia usarlo per qualsiasi calcolo di bottega: da Hollande per recuperare consensi, reprimere dissensi e competere con il Front National sul suo stesso terreno; al ministro dell’Economia italiano, per mettere la mani avanti rispetto alle previsioni della crescita. Ma, soprattutto, guerre e terrorismo sono una manna per chi produce e commercia in armamenti o in cosiddetta sicurezza e anche per chi in quei settori investe, senza neppure doversi confrontare con scrupoli di coscienza. Vale a dire le “banche armate” (italiane comprese) e gli investitori che evitano di domandarsi dove vadano a finire i propri soldi, bastandogli che tornino aumentati. La prima reazione agli attentati di Parigi del 13 novembre, infatti, è stata quella delle Borse: l’indice Bloomberg che traccia le aziende del settore aerospaziale e della difesa in tutto il mondo è immediatamente partito al rialzo. François Hollande e Manuel Valls hanno semplicemente seguito l’indicazione di marcia, e la promessa di lauti profitti, che gli è stata prontamente mostrata dai mercati finanziari.   System change Maledire politici con l’elmetto e profittatori di guerra , però, non basta. Occorre provare a contrastarli, con tutti i mezzi che questa post-democrazia strisciante per il momento ancora consente. Innanzitutto con l’informazione, la presa di coscienza e la mobilitazione. Sapendo, come ci ribadisce in questi giorni il movimento ambientalista mondiale, che i piccoli correttivi non sono sufficienti: system change not climate change. Ciò è tanto più vero e urgente di fronte alle guerre e alle stragi che tutti i giorni vengono fatte in nostro nome o in nome di un Dio. Non si può limitarsi a condannarle. Occorre, davvero, buttarle finalmente fuori dalla Storia, con la determinazione e la radicalità necessarie. Occorre tornare umani, per cambiare un sistema profondamente disumano.

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