Il quartiere al tempo dell’autonomia

Quand nous chanterons le temps des cerises, 
Et gai rossignol, et merle moqueur 
Seront tous en fàªte! 
Les belles auront la folie en tàªte 
(J.B. Clément: Le Temps des Cerises) 

Garbatella. Serata di primavera all’ombra del Palladium. A scambiare frasi e immagini, verbi suggeriti dalla memoria, espressioni segnate dal tempo eppure coniugate al presente, nomi di compagni e biografie smarrite. Sul cartellone del teatro del quartiere staccano ora appuntamenti da terza università . Per buona parte degli anni settanta, al “cinema del bar Foschi” era invece tutto un festival di strampalate pellicole a luci rosse, piene di Emanuelle Nere o di Calde estati di Fanny, magari intervallate ogni tanto da puntate di Dario Fo che dava Mistero Buffo o con Victor Cavallo che annunciava già , dopo averle improvvisate al banco di qualche bettola, le incursioni anarcosorcosituazioniste di Scarface che “è dibartolomei e maschio”, “vota comunista e nasconde baader nei vicoli di Roma”, “è romanista frocio e porta fiori di sguardi alla tomba di maccarelli in viale tormarancio”. 
Nello càha messo venticinque anni per tornare dall’esilio di Francia e l’impatto emotivo d’un posto del genere lo prende appieno. Segue le curve disegnate da Innocenzo Sabbatini, i vuoti e i pieni della sua archittettura, il timpano e gli archi ritagliati nel muro, uno sguscio in mattoni e le colonne dell’entrata che mirano in alto l’altana coi finestroni. Su carta scivolano schizzi di matita e il tamburo del palazzone stacca in mezzo a linee di strade che da qui diramano a stella mentre, tra occhiate in giro e parole ritrovate, prendono vita storie e fatti d’una lunga stagione chiamata autonomia. 

“In una piazza come questa la prima volta che càho messo piede avevo sedici anni, l’ultima una decina di più. Di qui, per via Cravero, scendevano i cortei che dal mio liceo a Tormarancia sàandavano a infilare nella metro B qui in fondo a piazza Pantera. Imboccavamo tutti senza pagare. Nel ‘70 questo posto làho scoperto da studente medio per quell’insurrezione di maggio contro la Nato. C’era una bufera di gente e càho ancora negli occhi le corse nei sentieri dei lotti, le resistenze alle guardie, i primi gas respirati. La sensazione, magari esagerata, era quella d’un quartiere intero che lottava assieme a te, che manifestava, che se la rischiava. E che mandava pure a quel paese quei quattro rompipalle del Pci della Villetta che con tutto il casino che càera si preoccupavano solo di prendere di petto i loro iscritti, invitandoli a lasciar perdere, minacciandoli di fare i conti in sezione se non avessero mollato gli scontri. C’era un’aria particolare per la Garbatella e per un sacco di tempo, di quello scoppio di liberazione, se ne conservarono tracce perfino nei giochi dei bambini. Dalla Circonvallazione per via Caffaro e via Ferrati veniva sferragliando il tramvetto che svoltava sto curvone e saliva su per via Passino. All’altezza del mercato era sempre costretto a rallentare e, quando d’inverno su Roma cadde una nevicata memorabile, proprio quel punto si trasformò in zona d’agguati. I ragazzini costruivano munizioni di palle di neve, poi sbucavano dalle scalette del mercato con le sciarpe a coprisse la faccia e l’assaltavano al grido Giap, Giap, Ho chi Minh. A regazzì ma che te strilli? Gli diceva qualcuno più grande di loro. E che ne soà, facevano tutti, strillo quello che me pare e poi ce sta bene, è un grido de battaglia. Quell’anno là  certi slogan finirono pure in curva allo stadio e sul ritmo di ce nàest quàun dèbut si battevano le mani con i nomi di Amarildo, Ciccio Cordova, Scaratti e Del Sol al posto di Mao e Lin Piao.” 

La sede di Lotta continua, allora, non era ancora la sede di Lotta continua. C’era sulla porta un simbolo con falce e martello e un mappamondo stilizzato fatto a fette da paralleli e meridiani che, nell’intenzione del disegnatore, dava subito l’idea di una Internazionale di tipo nuovo. Il partito senza confini aveva però una sigla difficile anche se storica, si chiamava Psiup, e avrebbe finito presto per trovarsi spiazzato da questioni di quorum e di contabilità  elettorale. 

“Quella sede di via Passino se la prese subito il Gruppo comunista Garbatella e diventerà  in seguito la sede romana del Gruppo Gramsci. Il Gramsci a sua volta finirà  poi, dopo un paio d’anni, per decidere l’autoscioglimento nel movimento. Fu l’occupazione di Mirafiori del à73 a dare un’accelerazione operaista a tutta la riflessione sull’organizzazione e quella è un poà la data d’inizio dell’autonomia. Ho visto, in una ricostruzione teatrale sul caso Moro fatta da Marco Baliani, una versione di quella scelta. L’attore ne parla come se a Garbatella fosse stata messa ai voti, addirittura per alzata di mano, l’entrata in clandestinità  e quello scioglimento fosse il principio della fine. Per quanto mi riguarda ho altri ricordi, le bierre allora non esistevano, o perlomeno qui non erano un problema e certi passaggi non me li ricordo con drammaticità . Certo la scelta dell’autonomia non era una cosa da boyscout e per qualcuno la virata fu da stordimento. Vittorio molla subito, altri la prendono come un’invezione milanese e non l’accettano, Aldo poi non sopportava l’idea di avere a che fare con i Volsci, gli stavano sul cazzo, e piano piano prese a defilarsi, qualcuno, mi pare Greg e Lanfranco, addirittura prese il treno e andò su a Milano a Via Disciplini alla sede di Rosso per capire che aria tirava ma lì tàincrociò Iacopo Fo che tranquillo disse loro che càera poco da capire e che lui preferiva andare al cinema a vedere Paper Moon. Insomma una bella confusione ma, tornando a Garbatella, molti di noi, più legati alle situazioni, ai collettivi di scuola o a qualche comitato operaio e di quartiere, andarono avanti e continuarono a frequentare per un poà quello scantinato. E pure l’arrivo di Lc che si ritrovò quel posto aggratis trasformandolo in sede di partito non cambiò quel clima di garbatellara fratellanza che càera in giro. Insomma noi autonomi del quartiere eravamo molto visibili, ci incontravamo, avevamo punti di riferimento comuni con altri rivoluzionari, magari càera concorrenza sulla radicalità  delle cose ma è unàestremismo da palcoscenico dire che mentre il Manifesto candidava Valpreda o Lc faceva i mercatini rossi noi pensavamo solo a scomparire dalla circolazione.” 

Nel racconto Corpo di Stato quell’assemblea del 73 è un fatto emblematico, carico di pathos, forse unàespediente narrativo per dire della normalità , in quegli anni, di trovarsi a compiere certe scelte. E càè un ragazzo descritto con affetto e fortissima simpatia, dagli occhi sorridenti, i capelli arruffati e mossi, i modi gentili e sempre segnati da generosità  estrema. L’autore lo vede al centro della scena e lo ferma, con sconcerto, mentre solleva la mano nel segno della p38 dando il proprio nome per un arruolamento nel partito armato. 

“Unàesagerazione appunto. Spero solo dettata da esigenze di teatro e non dal solito gioco della memoria che viene distorta, quasi forzata, per renderla compatibile con i fatti accaduti dopo. Quel ragazzo comunque è Claudio. Claudio Pallone. Un compagno di Garbatella tra i più noti allora. Con Giancarlo De Simoni che abitava ai palazzi storti di San Quintino frequentava il Borromini ed erano quelli più riconosciuti, al tempo del Gramsci e anche dopo nell’area di Rosso, tra gli studenti e i giovani della zona. Mi viene di metterli assieme anche se le loro vicende sono diverse. Claudio è morto ad un posto di blocco dei carabinieri dopo una rapina in banca e nella stessa storia càè rimasto pure Arnaldo, un personaggio straordinario, sbucato tra noi da un altro mondo e da un’altra epoca e che meriterebbe un racconto a sé. Anche Giancarlo non càè più, stroncato da un tumore dopo che sàera trasferito in Australia. La sua scomparsa màha raggiunto a Parigi quasi per caso e non me l’aspettavo proprio. Quella di Giancarlo era un’intelligenza esplosiva, di forte coinvolgimento, di spessore e genio dadasurrealista. La prima volta che si presentò in sede chiese la parola come compagno di Mani Tese. Questa era un’organizzazione di cristiani di base e lui non si fece problemi a insistere così, soà un compagno di Mani Tese, mentre intorno fioccavano battutacce e sghignazzi. Dell’autonomia lui ha poi seguito il filone trasversalista, quello vicino a Bifo e ai bolognesi. Claudio invece era energia pura, passionalità  diretta e desiderio di comunismo immediato. Lo chiamavamo Ernesto, suo secondo nome, perché aveva dentro radici e umori sudamericani, una tenerezza forte, un’ansia di fare segnata da l’inguaribile voglia di scazzottare l’ingiustizia. La sua era una carica antica che partiva da lontano, alimentata anche da storie di famiglia, da battaglie passate, da parenti che erano stati arditi del popolo e che avevano combattuto in Spagna, o più semplicemente, dal fatto che la madre aveva fatto l’università  in Argentina ai tempi del Che. La sua autonomia era insofferente alle riunioni, era molto di piazza e, quando occorreva, azione armata, gesto individuale oppure riappropriazione collettiva. Dall’assalto a Consorti fino ai cortei di sabato per i cinema gratis non càè tappa d’avvicinamento al settantasette che non l’abbia visto presente. Càaveva le sue botte d’improvvisazione e ancora me lo rivedo quella prima volta al negozio dei dischi, mentre tutti arraffavano a casaccio, puntare calmo allo scomparto blues e jazz, fare il pieno e poi, una volta fuori, mettersi a distribuire i 33 giri manco fossero volantini. A me è toccato un John Renbourn d’annata e me lo sono portato appresso nei mille posti dove sono capitato. Giancarlo invece era un’altra cosa. I loro erano due modi diversi di intendere la sovversione, seguivano percorsi e coraggi diversi, anche se sapevano come ritrovarsi in tante occasioni. C’è una foto, se ricordo bene, che mi pare li fissa bene sotto al rettorato durante l’assalto al camion di Lama. Claudio lancia oggetti. Giancarlo sembra quasi prendere quel Dodge rosso del sindacato a colpi di citazioni di Mayakovsky. Claudio è in prima fila. Giancarlo più defilato ma non molla. D’altronde, dagli indiani metropolitani ai militanti più inquadrati, da Lc a gruppi residui, all’Università  càera un sacco di gente. Non erano mica solo gli autonomi a vedersela con la stronzaggine di quel pci e di quel sindacato.” 

Lama, non Lama, non l`ama nessuno. La scritta sul muro della facoltà  di Fisica non si presenta proprio come un biglietto di San Valentino e del resto il megasegretario della Cgil proprio di giovedì grasso è convinto di disoccupare l`Università . Il capo del sindacato non capisce le battute, nessuno gliele spiega, non fuma canne ma la pipa e, probabilmente, all`ombra della Minerva pensa solo di svoltare una giornata normale santificando, fuori casa, la centralità  della “svolta dell`Eur“. Dal canto suo il partito che si è fatto Stato prepara la scadenza del 17 febbraio con “un`intensa mobilitazione politica“. Così scrive l`Unità  esaltando una spedizione di iscritti di San Lorenzo che attacchinano, strappano manifesti, cancellano scritte ostili nelle strade intorno e rimuovono alcuni picchetti ai cancelli della Sapienza. Praga 68, Roma 77? Eà la domanda che gira su tutti i volantini. Chi ha messo in piedi il comizio ha però poca voglia di dibattere. “Non inseguite chimere“ attacca subito il segretario senatore. “Chi rompe i vetri non danneggia Malfatti ma sè stesso“ gracida il microfono. “Qualcuno ci accusa di voler normalizzare. Normalizzare? Il luddismo è..“ La voce traballa, s`alzano i fischi, e volano palloncini d`acqua verso il camion scoperchiato. “La violenza non costruisce nulla di buono“ insiste il Lama della via Emilia. Pagheremo caro, pagheremo tutto, risponde la platea irrispettosa. “Il nichilismo autodistruttivo fa il gioco del nemico“ sostiene il leader. Sa-cri-fi-ci sa-cri-fi-ci, 35 lire 50 mila ore è questo il contratto che vogliano avere: approva serio il movimento ribelle. Viva il compagno bettinocraxi terrore dei padroni terrore dei fascisti che scappano in taxi, ritmano allora i duri d’un gruppo titolato al neosegretario psi spalleggiati in coro dagli estremisti di lotta criceta. 

“Comunque, una giornata bella tosta quella di Lama. E a distanza di anni ancora mi provoca sensazioni contrastanti. Quel giorno, pochi cazzi, noi, parlo per me ma penso sia così per un sacco d’altri compagni, noi abbiamo ucciso il padre. Lama all’Università  venne con tutto il servizio d’ordine schierato. C’erano gli edili con le loro mani tozze e le unghie consumate dal lavoro. C’erano gli operai in tuta della Tiburtina. E poi tutta una sfilza di funzionari con l’ombrello, iscritti di sezione belli inquadrati, segretari mobilitati a palla contro di noi. Noi eravamo una folla ma tutto sommato disarmati, senza niente di preorganizzato. Anche perché era quasi impossibile passare i filtri ai cancelli. Solo gli indiani a un certo punto avevano tirato su un fantoccio che vagamente sembrava Lama e ci danzavano intorno a presa per il culo di chi stava dall’altra parte. Dicevano cazzate tipo sa-cri-fi-ci sa-cri-fi-ci o, a cantilena, facevano piccì piccì piccini picciò – piccì piccì piccini picciò. L’altri rosicavano, imbufalivano scuri e ci rispondevano: fascisti carogne tornate nelle fogne. Ma, sullo sfondo, la cosa che ci faceva più storcere era tutto il lavoro di ripulitura delle squadre di sbianchettatori del sindacato. Volevano cancellare qualsiasi traccia dell’occupazione. Erano venuti a riportare l’ordine e la prima preoccupazione era appunto quella di passare una bella mano di biancomedò su tutte le scritte. Il camion l’avevano messo nello spiazzo tra Legge e la scalinata del rettorato col muso rivolto verso Lettere. Noi stavamo tra Chimica e Lettere intorno al fontanone e quel lavoro di censura non ci sfuggiva. Anzi era fatto con ostentazione. C’era una bocca disegnata sul Rettorato con una scritta Risate Rosse e pure quella dava fastidio. Fatto staà che così ci montò dentro una rabbia insopprimibile, lunga, impossibile da tenere. Ci strillavano di tutto e poi a un certo punto ti caricarono la fila degli indiani e qualcuno di loro ci puntò a idrante un estintore. Per loro fu la fine. Per quanto più organizzati e inquadrati non ce la fecero a reggerci. Furono loro a cominciare, a spingerci via, a passare alle spranghe. Io càho ancora sul braccio una cicatrice rimediata per parare un colpo diretto a una compagna. Ma furono sempre loro a essere travolti via, rincorsi verso l’uscita del Policlinico, buttati via dall’Università . Una giornata dura, te làho detto, e come la rivedo, avverto sempre la stessa sensazione strana. Da una parte càè il film con la crudezza dell’accaduto, il fatto di ritrovarmi a fare a mattonate contro il segretario della sezione dove ero cresciuto, a inseguire un amico iscritto alla cgil, a scontrarmi con mio fratello che mi stava davanti e a strillargli in faccia pci boia. Dall’altra mi prende ancora la percezione dell’inevitabilità  di quella giornata. Eà andata così. C’è poco da smozzicare le cose. Eà andata così e amen. Con la testa di oggi non so se lo rifarei ma, con tutta la strada che ho messo sotto le scarpe, ormai non mi chiedo più perché è successa ‘sta cosa di Lama ma come poteva non accadere ciò che allora accadde.” 

Sui muri di Garbatella a trentanni dal 77 càè chi ha ripreso a colorare i muri con frasi e slogan di quella stagione. Un Godere Operaio apparso a SantàEurosia rimbalza, qualche lotto più a valle, in un Felce e Mirtillo mentre sul muro della chiesa qualcuno rivendica il diritto ad occupare il Paradiso. Nessuna apologia della compagna P38 in giro ma, a leggere alcuni articoli sulla cronaca romana dei quotidiani, per qualcuno anche scrivere Dite a Lama che L’amo è roba da scandalo e da denuncia. 

“Eà ovvio che l’aspetto creativo del à77, per quanto aggressivo o feroce, è più facile da recuperare rispetto al discorso della violenza ma spesso càera chi rosicava di brutto anche di fronte ai sbeffeggiamenti d’un corteo, di fronte alla carnevalata d’una messa in mezzo. La Maciocchi nel suo libro Duemila anni di felicità  a un certo punto descrive lo stato maggiore delle botteghe oscure che vede sfilare con disgusto un corteo allegro sotto il balcone della direzione pci. Cosàhanno da ridere, sbotta Amendola, sono provocatori e fascisti, mentre, con il consenso del Berlinguer segretario assoluto, càè Pecchioli che se ne esce con un secco: li faremo finire tutti in galera. Ecco, forse anche quella della Maciocchi è unàesagerazione teatrale ma tra Potere e dissacrazione ironica non càè mai stato gran feeling. Comunque le scritte per il quartiere avevano un sapore particolare. Ad un certo punto qualcuno cominciò a cambiare la toponomastica. Piazza Sauli divenne Piazza una Bomba, Largo Ansaldo si chiamò Largo all’Autonomia, Via Magnaghi si ritrovò battezzata Via la Polizia. C’era chi ammoniva Comunione e Liberazione e chi invocava Godzilla e Gamera contro la trama nera. Con la vernice si inventavano gli appuntamenti più improbabili come la famosa Caccia all’Autonomo lanciata dal fantomatico Raggruppamento Gallo Citrone. Era una di quelle giornate dada che piacevano molto a Giancarlo dove il rastrellamento invocato da funzionari di partito o da questurini assatanati veniva realizzato dagli stessi ricercati. Sta cosa se l’era inventata Enrichetto, uno di Donna Olimpia, Giancarlo l’aveva preparata e Claudio ovviamente si trovò tra i protagonisti di questo gioco dell’assurdo. Era lui, in giro per i lotti con un cartello a sandwich con la scritta Pericoloso Sedicente Autonomo, la preda da cioccare per una marea di predatori improvvisati a zonzo nel quartiere. Un gioco. Un gioco che di lì a poco però divenne fatto di cronaca. Era il giorno dopo l’uccisione di Giorgiana Masi e il movimento, per sfuggire ai divieti, aveva convocato alcune manifestazioni decentrate. Una partiva da Testaccio e puntava su Garbatella. Proprio qui in Piazza Bartolomeo Romano un gruppo si stacca e lancia bocce contro la stazione dei carabinieri. Dalla caserma escono dei militari con le armi e sparano. Non succede nulla però e il corteo riprende fino a Piazza Sauli. Sta per sciogliersi quando arriva una carica molto mirata. Claudio stava tranquillo vicino all’angolo della chiesa e quasi sfottente nella sua situazione da disarmato. Non aveva nulla addosso ma evidentemente aveva il suo volto, i suoi connotati noti, i tratti di un viso autonomo e conosciuto. Fatto sta che un gippone lo punta e scarica una specie di robocop che comincia ad inseguirlo. Claudio corre forte per via Comboni e sta per infilarsi nel lotto 24, quello dei villini palladiani di De Renzi, quando sàaccorge che hanno preso una ragazza che conosce. Ha un attimo di esitazione e il madama ne approfitta lanciandogli a boomerang il manganello tra le gambe. Eà fregato. Con una smorfia cade a terra e subito gli sono addosso. Io me l’ero già  perso di vista e dicono che più del dolore fisico fu lo stupore a ferirlo dentro. Dicono pure che mentre lo portavano dentro sorrideva agli insulti che gli piovevano addosso e più delle botte lo colpiva lo sguardo di Lucilla ammanettata vicino a lui. Quella comunque fu l’ultima uscita del settantasette per le strade di Garbatella. Il quartiere ha isolato i teppisti provocatori: scriveva così l’Unità  del giorno dopo. Manco una parola sul fatto che stavamo lì perché la polizia di Cossiga aveva ucciso Giorgiana Masi. Niente. Forse, a distanza di anni, càera ancora chi pensava ai conti lasciati in sospeso dalla rivolta di quell’altro maggio, quella del à70 contro la Nato. Non lo so. Ad ogni modo so solo che allora presi vernice e pennello, caracollai a zonzo per le vie di questo quartiere e mandai a quel roscio argentino un saluto scanzonato scritto a lettere rosse su un muro sbrecciato dei lotti. Eà un secolo che non ci passo ma sono sicuro che se la cerco quella scritta te la trovo ancora là .” 

testo di Claudio D’Aguanno pubblicato su MaGMA (Magazzini Generali Memorie Autonome – Roma XI) giugno 2007

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