I figli e le armi

A mio figlio non avevo detto nulla, fino a circa un anno fa, perché non sapevo come fare. Avevo paura che la pigliasse molto male e, anche, che potesse sentirsi diverso dagli altri. Avevo anche cambiato casa proprio per venir via da un paese piccolo, dove tutti sapevano. Invece qua nessuno sapeva nulla. Però càera sempre un poà di mistero. Qualcosa evidentemente capiva, o meglio, intuiva. Quando ci fu l’omicidio Biagi, e ancora io non gli avevo detto niente, mi chiese: «Ma le Brigate Rosse di una volta erano come queste di adesso?». Alessandro, non aveva mai accettato che facessi volontariato in carcere. Ogni volta che dovevo andare, lui stava malissimo. Fisicamente male. Ho cercato di parlarne in tutti i modi, gli chiedevo cosa gli desse fastidio, e una volta mi disse di aver paura che non mi facessero uscire più.

Poi parlandone con le compagne di allora, capii che il problema non era solo mio, così abbiamo organizzato un gruppo di ex, sia uomini che donne, con alcune psicologhe che lavoravano proprio sul “mistero”. Quel mistero che da parte dei ragazzini, ci dicevano, viene percepito come un buco nero e provoca tanta insicurezza, perché è qualcosa che allontana.

Alla fine per dirglielo colsi l’occasione della sua resistenza e paura al mio volontariato in carcere e chiamando a raccolta tutte le mie energie gli dissi: «Non possono non farmi uscire perché io ci sono già  stata in carcere». Gli ho spiegato a grandissime linee come era stata la cosa e lui ha proprio fatto un fuoco di fila di domande. La prima è stata rispetto al padre, se anche lui era stato in carcere, e la seconda era se avevo ucciso qualcuno. Lì io ho esitato perché non volevo ricominciare a mentire nel momento in cui avevo appena detto la verità , però è anche vero che io non ho ucciso nessuno. Ho risposto: «No, non ho ucciso nessuno». Come fargli capire che comunque, moralmente, avevo condiviso quella storia? Era difficile. Man mano che crescerà  si approfondirà  il discorso.

(…) Quando ci sono stati i fatti di Genova, la televisione era accesa ventiquattràore su ventiquattro, Alessandro mi ha chiesto se quello che io avevo fatto era così e io a spiegare che a grandi linee comunque è partita così, che càera un movimento… Adesso lui sta leggendo un libro sui ragazzi ai tempi della guerra, è una parte di storia che gli interessa molto e quindi mi fa tantissime domande. Però non mi chiede più il mio ruolo, e le psicologhe dicono che noi non dobbiamo assolutamente anticiparli, saranno loro a farci le domande quando ne sentiranno il bisogno. Nei giorni successivi a quando ci siamo parlati, càera stato come un gioco a indovinare dei miei amici “chi sì e chi no”, chi aveva una storia simile e chi invece non càentrava nulla con quella storia. Era anche stato divertente e questa cosa gli aveva dato sicurezza: non eravamo solo io e il suo papà .

(…) Quando scelsi la lotta armata ruppi anche con lui, il mio compagno di sempre. Lui diceva, e aveva ragione, che la mia era una scelta di amicizia. Nel senso che avevo un legame molto forte con alcune compagne del collettivo del Policlinico, Donatella e Fred, ed era una scelta che avevamo portato all’estremo tutte e tre. Il movimento era completamente finito e avevamo deciso di portare fino in fondo le nostre scelte radicali, fino “all’ultima spiaggia”.

(…) Adesso non lo ricordiamo più ma allora càera l’articolo 90. Un allora di anni, non di mesi. L’articolo 90 è il 41bis di adesso: non ci si poteva scrivere da carcere a carcere, i colloqui avvenivano solo con i familiari e attraverso il vetro, niente pacchi, niente libri. Davano le mutande contate, le canottiere contate, i vestiti contati e le scarpe contate. Una biro blu, non pastelli, non matite, non orecchini, nulla. Mi ricordo che alle orecchie portavamo il filo da cucire colorato, per contrastare il grigiore. Non avevamo fornelli. Facevamo il caffé usando la carta del sacchetto del pane che veniva consegnato la mattina per fare una torcia e con quella riscaldare il latte nel tetrapack.

Le celle erano singole, tutto era singolo. Per 23 ore uno stava solo. E però avevamo la nostra vita in finestra. Devo essermi presa lì la mia tremenda cervicale, perché stavamo giorno e notte in finestra. Era l’unico modo per parlare, almeno con le vicine di finestra, oppure, sgolandoci, anche da sezione a sezione. Quello è il ricordo più netto: noi attaccate alle finestre. Per parlarci invece di nascosto càera “radio carcere”, parlavamo attraverso i tubi del bidé o del cesso delle celle confinanti. Poi per protestare facevamo la battitura con le scarpe, perché non avevamo padelle. La battitura è un momento di lotta del carcere e allora si batteva con le scarpe, e ci toglievano le scarpe, si batteva con le scope e ci toglievano le scope, non avevamo più nulla. Con la scopa, quando me la lasciavano, ero poi riuscita ad aprire lo spioncino, che altrimenti solo la guardiana apriva, ma io ero riuscita a far scattare la molla e quindi a farlo rimanere aperto per fare corrente. Mi avevano minacciata, ma pian piano sullo spioncino cominciarono a mollare perché càerano 40 gradi nelle celle e qualcuna sveniva. Alla fine ottenemmo di tenerlo aperto, ma al decimo svenimento.

Ho fatto quasi quattro anni.

Uno dei ricordi “belli” di Voghera è che la maggioranza delle donne decisero di rimettersi in gioco, capendo che fuori non càera più niente, cambiando anche i linguaggi nel parlare con l’esterno, facendo anche passare in secondo piano le differenze tra le varie appartenenze, cosa che invece càera stata moltissimo prima e perdurava in carceri tipo quello di Messina. Questa è stata una cosa molto bella e importante e ne va dato atto. Credo che molte di noi dovrebbero andare a ritrovare quello che era stato positivo in quel momento proprio per riuscire a riparlarsi tra tutte.

Nel ritrovare quello che univa queste donne aldilà  delle differenze ideologiche e politiche un ruolo fondamentale lo ebbero Silvana Marelli e una compagna della Walter Alasia. Liberarsi da quelle gabbie ideologiche, da quei muri di parole vuote che ci impedivano di comunicare l’una con l’altra, non fu facile, ma alla fine ci ha permesso di creare tra di noi dei rapporti autentici. Superare alcuni linguaggi meramente ideologici volle dire anche ritrovare un rapporto con l’esterno.

(…) Ci siamo visti da poco in molti, perché è morta una nostra compagna che si chiamava Sonia Benedetti. Era di Firenze, aveva avuto Valentina quando era in carcere. Ed era di nuovo impegnata. Nonostante che da un anno lottasse contro una malattia che alla fine làha distrutta, fino alla fine lei è stata nel collettivo della Valle… All’ultima manifestazione per la pace fatta a Torino si era fatta portare in sedia a rotelle dalla figlia e dagli amici. Quegli stessi ragazzi a cui lei aveva saputo parlare e che nel giorno del suo funerale làhanno accompagnata con la loro bandiera. Lei era riuscita a trasmettere alla figlia e a quei ragazzi la sua idea di libertà  senza retorica e senza paura del proprio passato.

Questo per dirti che da quella esperienza è uscita una forza non una debolezza.

(“Una città ”, settembre 2003)

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