Raàºl-cardinale: prove di svolta?

Giovedì scorso il leader cubano si è incontrato con il cardinale Jaime Ortega, arcivescovo dell’Avana. La posizione equilibrata della chiesa di Cuba di fronte alla violenta campagna mediatica negli Usa e in Europa, rende forse possibile un ruolo di mediazione che potrebbe portare a novità  interessanti. Non solo rispetto agli oppositori in carcere e alle Damas de blanco

Giovedì scorso il leader cubano si è incontrato con il cardinale Jaime Ortega, arcivescovo dell’Avana. La posizione equilibrata della chiesa di Cuba di fronte alla violenta campagna mediatica negli Usa e in Europa, rende forse possibile un ruolo di mediazione che potrebbe portare a novità  interessanti. Non solo rispetto agli oppositori in carcere e alle Damas de blanco L’AVANA
La buona novella era stata data di persona dal cardinale Jaime Ortega. Di fronte alla stampa internazionale, l’arcivescovo dell’Avana ha annunciato domenica 2 maggio che la mediazione della chiesa cattolica aveva avuto ascolto e che il governo aveva autorizzato le Damas de blanco, madri e parenti dei 53 oppositori ancora in carcere sui 75 condannati nel 2003, a manifestare per la liberazione dei figli e mariti senza richiedere un’autorizzazione preventiva. Non solo, i vertici governativi avevano chiesto al cardinale di fare lui stesso l’annuncio pubblico.
Una «svolta nei rapporti tra chiesa cattolica e governo cubano», ha commentato Orlando Márquez, direttore di Palabra nueva, la rivista dell’arcivescovado dell’Avana. Un giudizio confermato dalla riunione al vertice, avvenuta giovedì scorso, tra lo stesso Ortega, l’arcivescovo di Santiago e presidente della Conferenza episcopale cubana Dionisio García e Raúl Castro, dedicata a discutere «seriamente» della questione dei prigionieri politici. «Si è trattato di una riunione foriera di positive novità, per cercare di risolvere vecchi problemi e ottenere un miglioramento della situazione di tutti i prigionieri» (quelli che Amnesty definisce di coscienza e non solo i 26 malati), ha dichiarato l’arcivescovo dell’Avana nel corso di una successiva conferenza stampa. Ancor più ottimista il cardinale García: lui confida che il dialogo avrà un seguito, perché anche il governo ha dimostrato «la volontà di risolvere il problema». «Credo – ha affermato – che sia iniziato un processo che avrà sviluppi e che vi saranno passi avanti».
Anche le Damas de blanco, come i rispettivi mariti e figli in carcere, sono definite «mercenarie» dal governo cubano. Un marchio di infamia, ancor prima che una messa al bando politica. Sono accusate di essere al soldo degli Stati uniti, l’arcinemico di sempre. Un nemico che anche sotto la presidenza Obama non ha abbandonato il vizio di ingerirsi negli affari interni cubani né di usare fondi governativi o para-governativi a fini «destabilizzanti» e per cambiare il regime politico dell’isola. Alcune leader delle Damas hanno ammesso di ricevere soldi da ong Usa, che possono essere ricollegate o al governo statunitense o ai contras di Miami. Ma, affermano, in una società «che impoverisce i propri cittadini e usa tale povertà come fattore di controllo» sociale e politico, non si sentono né in colpa, né imbarazzate nel ricevere tali aiuti.
La comunicazione tra i due fronti è dunque impossibile. E la campagna di «ripudio popolare» contro le marce delle Damas era aumentata (e si era fatta anche, in qualche caso, violenta) in concomitanza dell’offensiva mediatica, nordamericana ed europea, contro Cuba dopo la morte per sciopero della fame, il 23 febbraio, del muratore Orlando Zapata, «prigioniero di coscienza» per Amnesty, «delinquente comune» per il governo.
Non vi è dubbio che la concessione del permesso di manifestare alle Damas e l’annuncio pubblico del cardinale rappresentino «un salto di qualità» nei rapporti tra Stato e chiesa cattolica cubana. E fanno pensare che posa essere imminente la liberazione dei prigionieri di coscienza malati. Ieri vi è stato l’annuncio che alcuni di loro saranno ricoverati in ospedale.
Il fatto che il governo abbia accettato di dialogare su questo tema testimoniano «l’apertura di un credito politico reciproco», in precedenza mai raggiunto, afferma Márquez. Il partito comunista, continua, dimostra di riconoscere la chiesa come un interlocutore della società civile cubana, una istituzione che «non si batte per fini propri, politici ed economici, ma si fa portavoce di esigenze della popolazione». E in cambio, la chiesa riconosce la volontà di dialogo, e dunque di riforme, da parte del governo cubano.
Márquez non ha una risposta certa sul perché di tale cambiamento. Probabilmente conta il fatto che, nell’intervista uscita uscita sul numero di aprile di Palabra nueva, il cardinale abbia assunto una posizione coraggiosa e per alcuni versi innovativa, apprezzata dai vertici cubani. Ortega infatti ha messo in chiaro che «la tragica morte di un prigioniero – Zapata – per sciopero della fame ha dato luogo a una guerra verbale dei media di Stati uniti, Spagna e altri paesi…che contribuisce a esacerbare gli animi» e dunque «ha propositi di destabilizzazione» del regime cubano. Questa campagna mediatica, secondo Ortega, ha avuto come conseguenza «un arroccamento difensivo» del potere cubano. La «missione della chiesa le impedisce di schierarsi con una della due parti», al contrario, la spinge a cercare una mediazione «favorendo il dialogo tra le parti». Stessa formula viene proposta come base delle relazioni Usa-Cuba: con il tempo, afferma Ortega, «si è alterata la proposta» di aperture formulata da Obama nella sua campagna elettorale e il nuovo presidente, una volta in carica, ha ripreso in sostanza la pratica di scontro attuata dai suoi predecessori.
Il cardinale, riferendosi al dibattito in corso sulla stampa cubana, ha constato che esiste «una sorta di consenso nazionale» sul fatto che siano necessari «cambiamenti rapidi» da parte del governo per «rimediare alla situazione» di crisi profonda che affligge il paese. Ma ha anche messo in chiaro che questi cambiamenti devono essere discussi e decisi dai cubani, senza ingerenze, o peggio, manovre destabilizzanti dall’esterno.
A metà giugno giungerà a Cuba il «ministro degli esteri» del Vaticano, monsignor Dominique Mamberti, che terrà una «lectio magistralis» nell’aula magna dell’università dell’Avana, in cui toccherà temi di natura sociale. In precedenza, questo importante palcoscenico era stato riservato solo a papa Wojtyla, nel corso della sua memorabile visita a Cuba nel gennaio del ’98.
Chiedo al direttore di Palabra Nueva se con il processo di dialogo con la chiesa cubana e con aperture come quella riservata alla visita di Mamberti, il governo dell’Avana cerchi contatti con la diplomazia del Vaticano, assai attiva e ascoltata in tema di diritti umani. Márquez preferisce glissare su un argomento che coinvolge le alte sfere. E’ evidente che per ora la chiesa cubana non vuole coinvolgere direttamente il Vaticano. Ma è anche chiaro che la diplomazia dell’Avana è impegnata a tempo pieno ad affrontare la «campagna mediatica anti-cubana» che negli ultimi tempi ha avuto un’accelerazione. E che una mediazione della Santa sede sarebbe ben accolta.
Alla vigilia del vertice Ue-America latina e Carabi della settimana scorsa a Madrid, una sessantina di intellettuali e artisti iberici e di lingua spagnola – l’immancabiler scrittore peruviano Vargas Llosa e il regista spagnolo Almodovar tra gli altri – hanno firmato una «Piattaforma di spagnoli per la democratizzazione di Cuba» , una sorta di manifesto contro «la dittatura castrista».
L’Avana ha risposto chiamando a raccolta l’intellighenzia cubana e internazionale. Poeti cubani, come Miguel Barnet e Pablo Armando Fernández, e spagnoli, come la figlia di Rafael Alberti; intellettuali come l’historiador dell’Avana Eusebio Leal; cineasti come Alfredo Guevara, il direttore del Festival del nuovo cine latino-americano, e giovani intellettuali si sono schierati per rispondere all’«aggressione mediatica e neocoloniale» .
La questione dei prigionieri di coscienza ha però aperto una breccia anche fra gli artisti amici di Cuba rivoluzionaria, come il cantante Carlos Varela, o addirittura figli e sostenitori della rivoluzione come Silvio Rodríguez e Pablo Milanés. Che hanno chiesto un gesto di apertura – la liberazione dei prigionieri di coscienza -, ma senza schierarsi con i dissidenti-
Il tempo però rischia di aggravare la situazione all’interno dell’isola. Questo è il timore di artisti impegnati come Rodríguez o del vertice della chiesa cubana che chiedono – direttamente il primo, come «portavoce» dei sentimenti dei cubani il secondo – riforme interne alla rivoluzione.
«Indignato e offeso» dalla presa di posizione della «Piattaforma» spagnola, Silvio ha messo in chiaro che «anche noi cubani vogliamo cambiamenti, però attuati con il consenso dei cubani. Queste trasformazioni avranno luogo, prima o poi, e l’unica politica capace di accelerare questo processo è la fine del bloqueo», l’anacronistico e intollerabile (e fallimentare rispetto agli obiettivi del regime change) embargo Usa che dura da mezzo secolo.

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