Simone Veil, l’«immortale» con la Shoah tatuata sul braccio si racconta

Personaggio di grande spessore e dal destino eccezionale, protagonista di primissimo piano della politica internazionale, Simone Veil si racconta per la prima volta: dal campo di sterminio di Auschwitz appena adolescente alla presidenza del Parlamento europeo, al Consiglio Costituzionale e infine accolta fra gli «immortali» dell’Académie Franà§aise.

Personaggio di grande spessore e dal destino eccezionale, protagonista di primissimo piano della politica internazionale, Simone Veil si racconta per la prima volta: dal campo di sterminio di Auschwitz appena adolescente alla presidenza del Parlamento europeo, al Consiglio Costituzionale e infine accolta fra gli «immortali» dell’Académie Franà§aise.

In Una vita, fresco di stampa per Fazi editore (269 pp., 18 euro), che in Francia ha venduto ben 600 mila copie, la donna più amata dai francesi, secondo un sondaggio di pochi mesi orsono, parla senza riserve di Sarkozy, Mitterrand, Chirac, Jospin e Nelson Mandela, fra gli altri; ma anche dell’infanzia a Nizza e della deportazione, senza dimenticare la prostituta Stenia, che le salvò la vita dicendole: «Sei troppo bella per morire qui». E, «fatto incedibile, questa donna, che ho in seguito avuto occasione di incrociare, non mi ha mai chiesto nulla in cambio».

Seppure «centrista» in politica, ancora oggi sfugge a ogni classificazione: da giovanissimo magistrato dell’amministrazione penitenziaria lottò per la dignità dei detenuti, e delle donne algerine in particolare.

Da allora il suo femminismo andò via via facendosi più militante, e nel 1974 entrò a pieno titolo nella vita politica francese, allorché le fu affidato dal governo di Chirac il ministero della Sanità.
Ottenne nello stesso anno la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza: «Da anni ero sensibile al problema dell’aborto, sia come donna sia come magistrato. Ero sconvolta dai drammi di cui venivo a conoscenza, e mi lasciava sconcertata l’atteggiamento reazionario di alcuni giudici, che perseguivano i medici che avevano praticato aborti». Infine il 26 novembre, fra non poco clamore – «barbarie organizzata», «eutanasia del piacere» urlavano i detrattori – e in seguito a un memorabile discorso all’Assemblea nazionale, che allora contava soltanto nove deputate, dopo tre giorni e due notti di discussioni non sempre pacate fu adottato il tanto auspicato testo.

Ma, oltre alla difesa della causa delle donne, Simone Veil nutriva anche altre ambizioni, e fra queste l’Europa: del vecchio continente può affermare di aver vissuto tutto, dagli anni più bui alle tanto attese riunificazioni. Investita della Presidenza del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale nel 1979, da fervente militante della riconciliazione europea, si è adoperata per ampliare il ruolo politico dell’Assemblea, fino ad allora autorizzata soltanto ad approvare il budget della Comunità economica europea, e ha dato nuova visibilità al Parlamento, in particolare nel campo della difesa dei diritti umani. Lasciò la Presidenza nel 1984, ma rimase attiva in seno alle istituzioni europee, e alla Tribuna delle Nazioni Unite interpellò nel 1988 a viva voce i Paesi che non avevano ancora ratificato la Convenzione dei diritti umani.

Se colpisce del volume la dignità, il coraggio e la volontà di ricominciare di questa donna-icona, emerge al tempo stesso che l’esperienza di Auschwitz l’ha segnata per sempre, e questo traspare in ogni pagina del libro: per la famiglia decimata dal furore nazista, certo. Ma anche perché «al ritorno, avrei fatto a meno di certi sguardi sfuggenti…». In tanti si meravigliavano: «sono tornate? Allora non era così terribile!» Ma col senno poi comprendiamo – grazie all’autrice – che «macchiata dalla vergogna del governo collaborazionista di Vichy, la Francia voleva dimenticare, e che i sopravvissuti erano la prova della colpa».

Intorno al 1950, nel corso di un ricevimento un funzionario francese «indicando il mio avambraccio sinistro con su tatuato il mio numero di deportata, 78651, il segno indelebile dell’ingresso nel lager di Auschwitz-Birkenau», le chiese con un sorriso se fosse il numero del suo soprabito in guardaroba! Dopo di ciò, «per anni, ho privilegiato le maniche lunghe». E il numero 78651 appare sulla sua spada di «immortale» dell’Académie française.

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