Gramsci e le primavere arabe

Molti intellettuali arabi e musulmani hanno usato categorie gramsciane per guardare alle rivolte con altri occhi. Il risultato è sorprendente

Molti intellettuali arabi e musulmani hanno usato categorie gramsciane per guardare alle rivolte con altri occhi. Il risultato è sorprendente

L’interesse degli intellettuali arabi e musulmani per il pensiero di Antonio Gramsci non è un fenomeno nuovo. Gramsci ha fornito, infatti, alcune cruciali categorie concettuali per analizzare le drammatiche trasformazioni politiche, sociali ed economiche che hanno investito le società arabe, in particolare quella egiziana, negli ultimi decenni. Oggi, in particolare, Gramsci ci permette di guardare alle rivolte arabe degli ultimi mesi con occhi nuovi.
Nel suo classico Overstating the Arab State (1996), lo studioso egiziano Nazih Ayubi spiegava come i regimi arabi fossero fragili poiché, pur avendo sviluppato raffinate strutture per la sistematica repressione del dissenso, non erano stati in grado di creare efficaci strumenti per la produzione del consenso, quelli che Althusser chiamava gli apparati ideologici dello stato. Servendosi di categorie gramsciane, Ayubi sosteneva che le élite al potere nei regimi arabi avevano sviluppato la dimensione del dominio, senza veramente riuscire a esercitare una direzione intellettuale e morale. 
Questa strutturale debolezza dei regimi arabi aveva consentito a movimenti islamisti come i Fratelli Musulmani di sviluppare progetti contro-egemonici, per esempio in paesi come l’Egitto e la Giordania, utilizzando il linguaggio e i simboli dell’Islam per articolare l’islamismo come ideologia politica.
In Making Islam Democratic (2007), lo studioso iraniano Asef Bayat, poi seguito dall’egiziano Hazem Kandil, aveva interpretato le strategie dei Fratelli Musulmani egiziani come una gramsciana guerra di posizione volta a conquistare le “casematte” della società civile. I Fratelli Musulmani erano infatti riusciti a creare una rete di ospedali, scuole e attività caritatevoli grazie alle quali erano stati in grado di costruire una comunità morale e ideologica, ma anche un settore privato islamista.
Negli ultimi decenni, i movimenti islamisti sono stati in grado di attuare pervasivi processi di re-islamizzazione in numerosi paesi musulmani, anche non arabi, come la Turchia, la Malesia e il Pakistan. In alcune società arabe, come quella egiziana e giordana, i Fratelli Musulmani sono inoltre riusciti a costruire un “blocco storico”, rivolgendosi a due ceti sociali profondamente diversi ma uniti dalla frustrazione nei confronti dei regimi: la nuova borghesia islamista e il sottoproletariato urbano. La leadership dei Fratelli Musulmani, che è espressione di una borghesia islamista la cui ascesa è da leggere nel contesto delle trasformazioni economiche neoliberiste degli ultimi trent’anni, ha infatti individuato nel sottoproletariato urbano una massa di manovra. 
Sulla base delle riflessioni di Gramsci sui modelli di partito, gli islamisti appaiono come coloro che additano alle masse un’età dell’oro nella quale tutte le tensioni e le contraddizioni si risolveranno, in questo caso grazie all’Islam. Gli islamisti, adottando il mito, nell’accezione di Sorel, della società islamica da instaurare, hanno oscurato la realtà storica delle relazioni di produzione, spostando il conflitto dal campo degli assetti socio-economici a quello della cultura in senso lato. 
Il progetto contro-egemonico islamista non mette, infatti, realmente in discussione le relazioni socio-economiche sulle quali si basano le società arabe. L’obiettivo dei Fratelli Musulmani, e delle nuove e dinamiche classi medie di cui sono espressione, è quello di divenire classe dirigente, non di trasformare le relazioni di produzione, nonostante i populistici appelli alla giustizia sociale. Secondo Ayubi, la reazione del regime di Mubarak nei confronti del movimento islamista è stata una gramsciana “rivoluzione passiva”. Il regime ha infatti adottato un’articolata strategia di cooptazione e repressione, sostenendo il processo di islamizzazione a patto che esso non provocasse alcun reale mutamento dello status quo.
In questo senso, si sono verificate convergenze tra la guerra di posizione dei Fratelli Musulmani e la rivoluzione passiva attuata dal regime; ha dunque ragione Samir Amin a considerare i Fratelli Musulmani come una forza tendenzialmente reazionaria.
Negli ultimi mesi, le rivolte arabe hanno portato alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, oltre a una serie di sollevazioni popolari; ma si è trattato, almeno finora, di vere rivoluzioni? Le deposizioni di Ben Ali e di Mubarak somigliano più a colpi di stato attuati dai regimi con lo scopo di frenare le rivoluzioni, non di attuarle. In Egitto, i militari sembrano aver compreso che, per impedire una reale trasformazione degli assetti socio-economici della società egiziana, è ora necessario allearsi con i Fratelli Musulmani in modo da costituire un blocco d’ordine. 
I militari e i Fratelli Musulmani rappresentano settori diversi della borghesia egiziana, ma sono entrambi uniti nel voler impedire una reale partecipazione delle masse popolari alla gestione della res publica. 
I Fratelli Musulmani hanno, per anni, domandato a gran voce la democrazia. La democrazia avrebbe infatti consentito al movimento islamista di sviluppare compiutamente la propria guerra di posizione all’interno del processo democratico. Ora, tuttavia, i Fratelli Musulmani possono negoziare direttamente con l’ancien régime, e non è detto che la democratizzazione rimanga una priorità per gli islamisti. Sebbene il movimento islamista non abbia svolto un ruolo da protagonista assoluto nelle mobilitazioni di piazza contro Mubarak, esso può tuttora contare su una pervasiva rete di istituzioni. I Fratelli Musulmani si candidano a gestire un ruolo di rilievo nel prossimo futuro; tuttavia, sono profondamente frammentati al proprio interno. Se alcuni islamisti guardano con interesse al modello del partito islamista turco Akp, altri hanno una concezione più intransigente e radicale. 
I movimenti di piazza che hanno protestato contro i regimi, in Egitto e altrove, pagano adesso la propria impreparazione organizzativa e ideologica. Il loro carattere fluido e spontaneo rischia di tradursi in uno svantaggio nel momento in cui si rende necessario articolare una nuova sfida contro-egemonica, in grado di proporre una reale alternativa.
Nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Karl Marx analizzò come le grandiose rivoluzioni popolari del 1848, che avevano acceso le speranze dei democratici e dei socialisti di tutta Europa, avessero spianato la strada all’autoritarismo di Luigi Bonaparte, poi Napoleone III. La deposizione del re dei francesi, Luigi Filippo, aveva innescato una dura lotta tra i diversi gruppi di interesse della borghesia francese. Le masse popolari parigine che, in un primo momento, avevano giocato un ruolo importante nella rivolta contro la monarchia orleanista, furono poi marginalizzate. La fragile seconda repubblica, che durò dalla rivolta del febbraio 1848 fino al dicembre del 1851, non fece altro che preparare il terreno per il regime autoritario e bonapartista di Napoleone III. 
Analogamente, il problema principale delle rivolte arabe è l’assenza di un moderno principe, un soggetto politico che sia in grado di forgiare una nuova volontà collettiva e di contrastare il tentativo del blocco d’ordine di depoliticizzare le masse che si erano mobilitate nei mesi scorsi. Molti dei giovani di piazza Tahrir soffrono, come diceva Gramsci a proposito degli intellettuali del Risorgimento italiano, di un superficiale cosmopolitismo, che li rende incapaci di essere autenticamente “nazional-popolari”. Questi giovani hanno spesso studiato in università prestigiose, come la American University of Cairo, sono a proprio agio nei social media, ma hanno rapporti tenui sia con il sottoproletariato che vive nelle poverissime ashawwiyyat (slums) cairote sia con la popolazione rurale. 
L’islamizzazione del sottoproletariato è stata anche resa possibile, nei decenni scorsi, proprio dalla distanza tra le élite intellettuali laiche, sia liberali sia socialiste e comuniste, e le masse dei diseredati. 
Gramsci riteneva invece fondamentale per la formazione di un’autentica volontà nazionalpopolare l’ingresso simultaneo delle masse nella vita politica, grazie al ruolo di direzione intellettuale e morale del moderno principe. 
Un’analisi gramsciana rivela, dunque, la crisi egemonica che investe sia i regimi sia il movimento islamista, ma anche la difficoltà di articolare nuovi progetti. Come afferma Gramsci: «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Le violenze dei militari, le tensioni interreligiose e le ondate di violenza salafita rientrano proprio tra i fenomeni morbosi di questo delicato interregno.
Il principale contributo di Gramsci al marxismo e, più in generale, alla teoria politica consiste nell’aver decostruito le interpretazioni che riducevano il marxismo a un meccanicismo positivistico. La rivoluzione, in sostanza, non sarebbe avvenuta secondo Gramsci automaticamente a causa delle insanabili contraddizioni delcapitalismo ma grazie all’articolazione politica di un nuovo progetto egemonico. Questo spingeva Laclau e Mouffe (Hegemony and Socialist Strategy, 2001) a individuare nel concetto gramsciano di egemonia «la categoria centrale dell’analisi politica» tout court.
Ritenere che le rivolte arabe abbiano innescato processi che automaticamente porteranno alla nascita di società più giuste e democratiche è dunque illusorio. Tocca agli arabi tornare a essere artefici del proprio destino tramite l’articolazione di nuove egemonie, riguadagnandosi finalmente la libertà che è stata loro negata.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password