Kiš: io distruggo, quindi esisto

«Per l’artista bruciare un’opera è il supremo atto creativo»

«Per l’artista bruciare un’opera è il supremo atto creativo»

Abusando forse di un pensiero di Malraux, che avrebbe potuto essere un’epigrafe ideale per questi appunti, cercherò di portare alla luce una verità all’apparenza bizzarra. Le riflessioni di Malraux avevano un senso completamente diverso, ma una volta tolte dal loro contesto possono fungere per me da punto di partenza per alcune considerazioni intime su un altro problema: quello dell’artista, della creazione.
Malraux scrive che morire è passività, mentre il suicidio è un’opera. E che la morte in certi istanti è una suprema affermazione della vita.
Applicate all’artista, al creatore, queste parole suonano come la parafrasi di un imperativo categorico: «Se non sei un artista, se non sei un poeta, brucia i tuoi manoscritti e taci. Sì, se morire è passività, il rogo è un’opera. Bruciare i propri manoscritti, in certi istanti è una suprema affermazione dell’attività creatrice». È così che il pensiero di Malraux ha trovato un’eco in me — deformato dal mio punto di vista introverso, trasformato, trasferito in un altro campo, ma sempre attuale e preciso. Ho allora riflettuto sulle sue altre possibili variazioni. Qualcuno avrà in effetti potuto leggerlo come un argomento a favore del suicidio reale; è vero, un pensiero che dimostra la creatività dell’autodistruzione è pericoloso. Tuttavia, e dallo stesso punto di vista, il punto di vista dell’autodistruzione letteraria non enuncia forse una verità? Nessuno, che abbia un giorno gettato i propri manoscritti nel fuoco potrà trovare assurda o stravagante questa formulazione.
L’atto di distruggere con il fuoco accompagna ineluttabilmente ogni creazione. Si tratta di uno slancio o di una caduta? Di una manifestazione di depressione o di un atto creativo? Che cosa si nasconde dietro questa forma di autodistruzione sadica e allo stesso tempo sentimentale? Trovarsi davanti alle ceneri dei propri pensieri, davanti al proprio stesso rogo, come il Grande inquisitore, e guardare le fiamme nelle quali si consuma una parte di noi stessi. Sono, i roghi dello spirito — per quanto contraddittorio e assurdo ciò possa sembrare —, intervalli di lucidità nell’impeto creativo, folgorazioni dell’artista, istanti di ispirazione suprema e, allo stesso tempo, effetti della depressione e della follia; ma sempre momenti sublimi di creazione. Sono porti da cui si prende il largo diretti verso mari lontani. Un modo per liberare la mongolfiera dal suo peso superfluo e permetterle di spingersi ancora più in alto: verso la stratosfera, il nuovo, l’ignoto, il mai visto. Sono incroci di strade possibili, regolamenti di conti con se stessi e con il mondo. Con il mondo in noi e intorno a noi. Una morte e una nascita. Così come la vita porta in sé il germe della morte, la morte porta in sé il germe di una nuova vita. È l’eterno ritmo del mondo. La dialettica della creazione. A una poesia bruciata ne seguirà un’altra, migliore, oppure non ce ne sarà più nessuna. (…). Non avere la forza, a un certo punto, di accendere il rogo sotto i nostri piedi è un segno di passività. Significa morire. Ci sono istanti in cui la morte è la piu grande affermazione della vita.
Di colpo, allora, ho capito il vecchio Taras Bul’ba, che era sempre stato per me un personaggio incomprensibile e problematico: «Sono io che ti ho messo al mondo, sono io che ti ucciderò!». La sua amara e disperata voluttà mentre uccide il sangue del suo sangue, mentre osserva pensoso il cadavere del proprio figlio. «Sono io che ti ho messo al mondo, sono io che ti ucciderò!».
C’e una strana voluttà nell’amarezza dell’autodistruzione. Lo stesso Gogol’ deve averlo sentito, mentre riattizzava la propria follia al calore del rogo delle Anime morte. Che mescolanza infernale: la compassione e il sadismo, le lacrime e il riso, la caduta e il trionfo. Chi non ha mai sperimentato questo atto creatore di autodistruzione? I poeti hanno bruciato le loro poesie «nell’eccitazione crescente della fragile vita, nei turbini profondi e nel fuoco dell’inferno» (Adi). I pittori hanno distrutto le loro tele, gli scultori hanno mandato in frantumi i loro busti in momenti di disperata impotenza (Michelangelo, van Gogh, Manet, Modigliani) come Oscar Wilde, l’artista che ha fuso il bronzo della Tristezza eterna per dar forma al suo monumento alla Voluttà effimera. Von Kleist brucia il manoscritto del suo Roberto il Guiscardo, Dostoevskij brucia i suoi Demoni, Joyce la prima versione del suo Ritratto dell’artista da giovane, mentre Kafka chiede all’amico Brod di distruggere tutti i suoi manoscritti. Marx abbandona coraggiosamente le ambizioni poetiche della giovinezza quando capisce un bel giorno di essere sulla strada sbagliata.
Questo tema non è forse mai stato così attuale quanto ai giorni nostri, nel nostro Paese. Anche condividendo l’idea di Diderot e di Heine che la poesia fiorisce con piu vigore dopo una rivoluzione, un richiamo all’autocritica non è superfluo, ed è anzi, credo, indispensabile. In questo contesto non posso dunque non citare un brano un po’ più lungo di John Ruskin, che rappresentò per me, come la citazione di Malraux, una rivelazione: «Qualcosa di buono! Tutto deve essere buono, o non può esserci niente di buono. Se sperano (i poeti) di scrivere meglio un giorno, perché ci infastidiscono già oggi? Sarebbe preferibile che bruciassero tutto ciò che hanno scritto in attesa di giorni migliori».
Troviamo un esempio di un simile autore, allo stesso tempo onesto e ambizioso, nella Peste di Camus. Si tratta di quel povero Grand che per tutta la sua vita ha composto una sola frase, la prima di un testo futuro, e che prima di morire grida: «La bruci!».
«Il dottore esitò, ma Grand ripetè l’ordine con un accento sì terribile e con una tale sofferenza nella voce, che Rieux buttò i fogli nel fuoco quasi spento. La stanza s’illuminò rapidamente e un breve calore la riscaldò». Anche in agonia, Grand porta in sé una potenzialità creatrice che in quell’istante giunge a maturità. La fiamma del manoscritto bruciato rischiara la grandezza della sua anima. È in quel momento che ci convinciamo del fatto che Grand fosse un creatore e pensiamo che, se la peste non lo avesse portato via, il suo romanzo (o qualsiasi altra cosa stesse scrivendo) sarebbe stato scritto. (…).
Ecco perche bisogna ascoltare Andric quando consiglia, nei suoi Appunti per lo scrittore, di guardare a un manoscritto generato nel dolore non con «l’amore cieco dei genitori, ma freddamente e con crudele severità, senza pietà né per esso né per se stessi, senza risparmiare né le proprie forze né il proprio tempo». Bisogna riscaldare la propria anima a un simile rogo, temprare il proprio spirito a questo fuoco dell’inferno ed esclamare poi, come Flaubert quando annuncia a un amico di essersi «sgravato» del suo romanzo: «Vedi, vecchio mio, mi sono comportato da eroe».
(traduzione di Monica Fiorini)
© Danilo Kiš Estate – Lettera internazionale

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