L’«ingabbiatore» di Marcinelle sparisce con i suoi segreti

Morto l’uomo che conosceva la verità  sulla strage Più che la paura poté la fame. Lo doveva sapere anche il governo italiano che nel marzo 1946 aveva stipulato un accordo con il Belgio: per un tot di uomini mandati in miniera, tante tonnellate di carbone sarebbero giunte in Italia.

Morto l’uomo che conosceva la verità  sulla strage Più che la paura poté la fame. Lo doveva sapere anche il governo italiano che nel marzo 1946 aveva stipulato un accordo con il Belgio: per un tot di uomini mandati in miniera, tante tonnellate di carbone sarebbero giunte in Italia. Lavoro da schiavi, lavoro a cottimo. Antonio Iannetta era arrivato a Marcinelle da Bojano il 14 novembre 1952, a 28 anni, con la moglie Maddalena e due figli, Carmela e Donato. Come tutti, aveva fatto le visite mediche sotto la stazione di Milano e da lì con i suoi compagni aveva preso un treno per Charleroi per scendere in miniera il giorno dopo. In paese non c’era da mangiare, dunque anche per lui più che la paura poté la fame. Pazienza se si alloggiava nelle ex baracche dei prigionieri di guerra, pazienza se la miniera del Bois du Cazier con le sue strutture in legno era la meno sicura del Belgio.
Che Iannetta non parli né italiano né francese ma solo il suo dialetto molisano, non è un inutile dettaglio, perché dopo aver fatto il perforatore e il manovale, gli viene chiesto di occuparsi dell’ingabbiamento. Compito delicato: inserire nell’ascensore il vagonetto pieno di carbone e nel contempo spingere fuori, dall’altra parte, quello vuoto; quando l’operazione è compiuta, informare il tiratore di superficie, con tre colpi di campanella o per telefono, che l’ascensore può risalire. Da qualche mese Iannetta è ingabbiatore a 975 metri sotto terra quando la mattina dell’8 agosto 1956, alle 7, scende con altri 273 minatori per il solito turno di otto ore. Lavora alla «cache» con un anziano compagno belga, Gaston Vaussort. Dopo mezz’ora, un carrello rimane incastrato, ma l’ascensore parte, non si sa bene perché, tranciando, due o tre metri più in alto, le condutture dell’olio, i tubi dell’aria compressa e i cavi dell’alta tensione. Il fuoco divampa in un attimo. Vaussort corre da una parte, Iannetta fugge dall’altra, raggiunge un ascensore e arriva in superficie urlando che la miniera è in fiamme: i soccorsi saranno lenti e inadeguati. Le mogli e i figli hanno visto una nuvola densa che oscurava il cielo quel giorno insolitamente azzurro, sono corsi subito al cancello della miniera aspettando giorni e giorni, finché due settimane dopo un soccorritore italiano esce dal pozzo gridando: «Tutti cadaveri». 262 morti, 136 dei quali italiani. Tra le vittime c’è anche Vaussort, che aveva cercato riparo dalla parte sbagliata.
Iannetta è morto a Toronto l’11 febbraio scorso, a 87 anni. Era l’unica persona che avrebbe potuto raccontare esattamente come andarono le cose, perché i processi non hanno chiarito nulla, ma era malato di Alzheimer da tre anni e la memoria chissà in quale miniera del suo cervello era sepolta. Il minatore timido e impaurito, come viene ricordato ancora oggi dai suoi compagni, sparì pochi mesi dopo l’incidente, in novembre. Aveva cambiato sette versioni nel suo racconto. Ma il processo era ancora in corso, quando ottenne il permesso dalle autorità belghe di andarsene in Canada, che era il suo sogno di ragazzo povero. Solo nel ’76, per il ventennale della tragedia, sarebbe riemerso, intervistato a Toronto dalla tv belga: parlava ancora la sua strana lingua incomprensibile, che forse gli serviva per mascherare la verità. Balbettava e piangeva.
Il 25 settembre 2000, Nino Di Pietrantonio, il figlio di una vittima di Marcinelle, ostinato più di altri, bussa alla porta di una casetta a schiera di Bellwoods Avenue a Toronto. Gli apre un vecchietto pelato con la camicia azzurra chiusa al collo fino all’ultimo bottone. È Iannetta, circondato dai suoi nipotini. Nino si sente dire varie cose che lo sconvolgono: in quei giorni dell’estate 1956 un ingegnere aveva chiesto al minatore molisano di provocare un piccolo incidente, in modo da convincere l’amministrazione a chiudere quella maledetta miniera, ma il piccolo incidente divenne una «catastròfa». Nino si sente dire che era stato un intervento diplomatico a permettergli di fuggire e che Iannetta ancora percepiva un’entrata mensile extra-pensione senza riuscire a capire perché. Nino si sente dire che gli ingegneri, il giorno dopo, avrebbero offerto a Iannetta una casa in regalo. In regalo perché? Qualcuno insinua che in realtà il viaggio senza ritorno in Canada sarebbe stato un compenso all’uomo che si era assunto tutte le responsabilità, non sue, dell’incidente. Nino si sente dire che nelle bare non ci sono i resti dei cadaveri ma solo sassi, perché i cadaveri non erano recuperabili. Nino scrive ai vari presidenti della Repubblica, ai presidenti delle Camere, persino a papa Wojtyla. Vorrebbe capire. Ma adesso è davvero troppo tardi. Alle vittime dell’8 agosto si è aggiunta la morte per vecchiaia dei testimoni che per decenni hanno combattuto contro la silicosi. Non solo Iannetta. È morto in ottobre anche Geremia Iezzi, il minatore abruzzese che ebbe due fratelli, Camillo e Rocco, vittime della «catastròfa». Quella mattina Geremia doveva fare il suo turno in miniera, ma aveva un impegno per il negozio che gestiva con sua moglie, e chiese a suo fratello Camillo: «Fammi un piacere, scendi tu al mio posto».

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