Strani Stati uniti

A chi volete che freghi se 35 mila persone (cifra dei media e della polizia) si incamminano, in una serata piovosa di New York, verso l’epicentro simbolico di ciò che sta sconvolgendo le nostre vite, ossia Wall Street, la finanza? Chi si impressiona se cortei e carovane, carnevali beffardi e vetrine di banche in frantumi, plotoni di poliziotti e bombe accecanti fiammeggiano in circa 150 città  degli Stati uniti, da Los Angeles alla mitica Seattle, da Cincinnati (dove il Fbi arresta quattro persone, definite «anarchici», accusandole di preparare un attentato) a Boston?

A chi volete che freghi se 35 mila persone (cifra dei media e della polizia) si incamminano, in una serata piovosa di New York, verso l’epicentro simbolico di ciò che sta sconvolgendo le nostre vite, ossia Wall Street, la finanza? Chi si impressiona se cortei e carovane, carnevali beffardi e vetrine di banche in frantumi, plotoni di poliziotti e bombe accecanti fiammeggiano in circa 150 città  degli Stati uniti, da Los Angeles alla mitica Seattle, da Cincinnati (dove il Fbi arresta quattro persone, definite «anarchici», accusandole di preparare un attentato) a Boston? E cosa sono queste «coalizioni» confuse in cui si mescolano gli ex campeggiatori del movimento Occupy (sgomberati da mesi dai loro moltissimi Zuccotti Park e dichiarati estinti), parti rilevanti di sindacati, associazioni di migranti (come quelle che s’inventarono con gran successo anni fa «Un dìa sin nosotros», per dimostrare ai razzisti alla Bush quanto vitale sia il loro lavoro), comunità religiose di base, gruppi rock e ciclisti sovversivi? Che è, politica, questa? E che peso può avere proclamare un «general strike», in un paese, gli Stati uniti, in cui lo sciopero generale come lo intendiamo noi, inter-categoriale, virtualmente totale, è proibito per legge, per cui l’ultimo, cittadino, si tenne a Oakland, California, nel 1946, finché i giovanotti di Occupy e i portuali di lì, nel novembre scorso, non ebbero l’audace idea di riprovarci, riuscendovi? Come può impressionarci il fatto che il Primo Maggio sia tornato a fiorire dove «May Day» è un giorno come tutti gli altri perché un secolo e mezzo di lotta dei lavoratori è stata estirpata, tanto dimenticata che ora i siti di Occupy e dintorni diffondono canzoni degli anni trenta e racconti di quel Primo Maggio del 1886, quando più di 300 mila lavoratori in tutto il paese abbandonarono il lavoro in solidarietà con i 120 mila in sciopero per la giornata lavorativa di otto ore: così che le dirette in internet delle manifestazioni, la grafica esplosiva dei ragazzi di Occupy, le loro forme di protesta sorprendenti (per la polizia, più che altro) si mescolano a un tono bello di nostalgia per i tempi in cui l’«uno per cento» non era libero come oggi di imporre il suo arbitrio al «99 per cento», e non pagava in tasse la metà – in percentuale – di un qualunque lavoratore? In fondo, perché dovremmo farci abbagliare da una «America» (termine che correntemente designa gli Stati uniti, anche se l’America comprende Haiti e il Cile, tra gli altri) così differente da quella dell’onda di telefilm in cui i cattivi vengono sempre puniti e i Marines sono in Afghanistan per salvare le bambine? E poi, e soprattutto, non è forse vero che i movimenti sociali, specie quelli disordinati delle città statunitensi, non sanno accumulare «potenza», non riescono ad essere duraturi e organizzati, non sanno «accettare la sfida della rappresentanza», cioè non riescono – o perfino non pensano proprio – a mandare qualcuno di loro a fare il deputato e il senatore, cioè a nuotare nella vasca degli squali, tra lobbisti famelici di appalti e politici che si contendono i voti «moderati» e muovono gli indici dei sondaggi con campagne di marketing contro l’aborto o, se è il caso, contro l’evoluzionismo di quel comunista di Darwin?
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