LE TERRE ESTREME FINO AL DELTA

Alla scoperta del Po/23. Piove a secchiate, le rondini volano come pazze e il Po si dilata come la Neva a Pietroburgo. Accanto al pontile il nostro “Gatto” è strattonato dal vento Il Fiume o si ama o si odia. Non ci sono mezze misure. Questa parte è conosciuta come la “Guyana francese”, senza alberi perché qui fanno fuori anche le piante

Alla scoperta del Po/23. Piove a secchiate, le rondini volano come pazze e il Po si dilata come la Neva a Pietroburgo. Accanto al pontile il nostro “Gatto” è strattonato dal vento Il Fiume o si ama o si odia. Non ci sono mezze misure. Questa parte è conosciuta come la “Guyana francese”, senza alberi perché qui fanno fuori anche le piante

Bassure maledette del Polesine. Veleggiamo verso il Delta con in bocca non solo il sapore amaro della fine del viaggio, ma anche tutti i possibili pregiudizi su queste terre estreme, sinonimo di scalogna, malaria e alluvione. “Qui è la Guyana Francese” mi ha detto alla vigilia dell’avventura un romano trapiantato in Veneto. «Un posto da ergastolani. Non trovi un albero neanche a pagare, perché qui le piante le fanno fuori. Ho conosciuto uno che ha sterminato 400 sambucari perché gli facevano la guazza sul mais».
L’avevo trovato a Casina Badoer, dalle parti di Adria, in un B&B dalle pareti dipinte con le stelle dello zodiaco. Era scatenato, mitragliava anatemi. Ce l’aveva perfino con le zanzare autoctone, che definiva “più maligne delle altre”. Non sapevo come contenerlo. «Siccome seguo un corso di ipnosi — diceva — chiamerò il mio guru perché ipnotizzi tutta quest’area, perché non si può andare avanti così… Qui è una torma di sfigati che gira a vuoto in una palude».
«Già la Bassa padovana è deprivata — si infervorava — ma qui è peggio, sono anche sfigati, e come se non bastasse attirano le sfighe. Negli anni ‘40 c’era una marchesa che ne aveva fatta di cotte e di crude, e dove è arrivata? Indovina. A Taglio di Po. E in pochi anni lo ha retrocesso al Medioevo». Io ascoltavo in silenzio, mi tornava in mente che spesso erano i padani medesimi a rifiutare il Po. Gianni Brera era arrivato al punto di rinnegarlo, definendolo “padre iracondo e ubriacone”. Non c’è via di mezzo: il Po si ama o si odia.
Arriviamo all’imbarcadero di Stienta col temporale. C’è una festa e la ciurma del “Gatto” è invitata a partecipare. La nostra vela è ormeggiata a “berba d’gatt”, a barba di gatto, une legatura incrociata in uso a Boretto, e intanto la pioggia sventaglia la superficie zincata della grande autostrada liquida sotto uno strato di nubi di piombo. Il tavolo imbandito è spostato sotto la veranda del pontone galleggiante che fa da sede agli “Amici del Po”. Sotto la tettoia trionfano il vino e paninazzi col salame all’aglio delle terre rovigotte. Fuori volano ombrelloni, adulti e bambini rincorrono aquiloni acchiappafulmini come in un film di Frankenstein.
Gianni Mazzali, anni 76, campione di pesca allo storione, mi riempie il piatto di tortelli e demolisce in un attimo gli anatemi di Gianni Brera sul Po e i pregiudizi italioti sul Polesine. «A me — racconta — il fiume mi ha educato e mi ha fatto da padre. Da piccolo stavo tutto il giorno a Po. Eravamo sette fratelli e non tornavo a casa neanche per pranzo. Nel ‘45 mangiavo con i soldati, sempre lì, sul fiume».
Piove a secchiate, le rondini volano come pazze a pelo d’acqua e il fiume sembra dilatarsi come la Neva a Pietroburgo.
Accanto al pontile traslucido, il “Gatto Chiorbone” oscilla strattonato dal vento. «Quando venivano i bombardieri — incalza il pescatore — non andavo mica in rifugio. Un giorno ne è venuto giù uno, sono corso a vedere e per entrare nella carlinga ho spostato i morti. Avevano orologi, soldi, ma a me non interessavano e son tornato a casa con due fasce di cartucce. D’inverno accendevo il tritolo per scaldarmi le mani. Il tritolo se
non ci metti l’innesco non fa niente, puoi anche buttarlo per terra… Lo so, tanti miei amici hanno perso un occhio o una mano. Ma a me è andata bene».
Tra uno scroscio e l’altro imbarchiamo Andrea Goltara, veneziano esperto d’acque dolci che ha vegliato sul nostro viaggio dall’inizio. Intabarrati sottocoperta restiamo ad ascoltare le sue storie di ghiaie rubate e golene cemen-tificate, mentre l’epico Fabio
Fiori ci timona nella pioggia verso Pontelagoscuro. «Francia e Germania stanno rinaturalizzando i fiumi. Solo l’Italia fa il contrario». Più di ogni altra cosa mi rimane impressa questa idea: «Si è capito che il fiume ha bisogno del suo “espace de liberté” per essere governabile. L’ecologia può innestarsi anche sulle conquiste della rivoluzione francese ».
In una camerata della locanda “I Quarti” di Polesella, quella notte scopro che Valentina dorme con un coltello sotto il cuscino. E mentre Alex russa come un reggimento di cosacchi in transito su un ponte di barche, Fabio silenziosissimo fila all’alba con Andrea per rientrare a Rimini, e ci lascia soli — Valentina, Alex e me — per il grande epilogo. Un sole sfolgorante cancella le malinconie polesane e il “Gatto” si dilegua col vento in poppa intessendo strambate sul fiume selvaggio.
La chiesa di Santa Maria del Traghetto a Punta Crociara segna l’inizio del Delta, e poiché in un delta è cosa buona e giusta perdersi, molliamo senza pensarci la corrente maggiore del Po di Venezia per imboccare il ramo di Goro. Ci chiama con argomenti validi: un arcipelago di dune fossili, un bel ponte di barche e, alla fine, il faro del Bacucco, solitario su una duna in faccia alla Dalmazia.
In mezzo a gorghi di fiori di pioppo, il “Gatto” si infila silenziosamente nei rami morti del fiume. Pescatori ci fanno segno che rischiamo di impantanarci, ma il brivido vale la candela. Dopo il castello di Mesola e il ponte della Romea, attracchiamo ai margini del bosco di Santa Giustina, perfetto
per accamparsi. Un campo-base tutto nostro. Vado a far la spesa in bicicletta sull’argine, senza incontrare nessuno per chilometri, poi scende un tramonto color pesca e una Luna quasi piena sale dal mare. Rane, grilli, vento leggero da Ovest.
Notte di velluto, senza rugiada. Oltre l’argine, pochissime luci. Ceniamo seduti sui parabordi, col lume a petrolio e una cassetta per tavolino. Tonno, pomodori, cipolla, pane e acciughe. E birre, ovviamente. Alle 23 il Po smette di mormorare. La marea ha fermato la corrente. D’ora in
avanti comanda la Luna.
(23 — continua)

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