Giovanna Bemporad, la poetessa che componeva di notte

Di Giovanna Bemporad si ricorderà  soprattutto la voce. Voce poetica pura, la sua, assoluta; ma anche la sua propria voce, intendo, quella voce così flebile, quasi strozzata nel dialogare appassionato e così espressiva e potente quando leggeva in pubblico le sue liriche e le traduzioni da Goethe o da Omero. Era il suo pezzo forte recitare in pubblico, tra amici, le poesie. Era travolgente.

Di Giovanna Bemporad si ricorderà  soprattutto la voce. Voce poetica pura, la sua, assoluta; ma anche la sua propria voce, intendo, quella voce così flebile, quasi strozzata nel dialogare appassionato e così espressiva e potente quando leggeva in pubblico le sue liriche e le traduzioni da Goethe o da Omero. Era il suo pezzo forte recitare in pubblico, tra amici, le poesie. Era travolgente. Tirava notte declamando versi e poi si fermava a parlare sino all’alba con giovanissimi autori, sia a Roma, dove abitava all’Eur, che a Milano, dove aveva un piccolo appartamento. Del resto scriveva e traduceva quasi solo di notte.
La poetessa Giovanna Bemporad, scomparsa l’altra notte, era nata a Ferrara nel 1928 da una famiglia di origine ebraica. Talmente assorbita negli studi da renderli irregolari, la Bemporad esordì ancora adolescente con una tradizione in endecasillabi dall’Eneide di Virgilio. Fu la rivelazione di una voce lirica potente e di una scelta estetica dalla quale non si spostò mai: la passione per la metrica e quella per i classici.
Venne la guerra, e durante quegli anni la Bemporad conobbe a Casarsa Pier Paolo Pasolini. Fu un sodalizio ideale tra due tormentati, che la Bemporad si portò sempre dentro. Echi delle dialettali Poesie a Casarsa di Pasolini si ritrovano del resto anche in quella esplosione di lirismo intimo che sono gli Esercizi pubblicati da Garzanti nel 1948, prima e, in un certo senso, unica, raccolta di poesie di Giovanna. Raccolta che lei andò rielaborando dagli anni Ottanta sino a un paio di stagioni fa. Gli Esercizi sono un esempio di poesia pura, simbolista, di scavo quasi ascetico, i cui riferimenti vanno cercati tra Cardarelli, Ungaretti e Valery. E a conferma di questa tensione all’assoluto che era, per Bemporad, la poesia, venne in quegli anni anche la traduzione degli «Inni alla notte» di Novalis e anche von Hofmannsthal.
Nel 1957 sposò Giulio Cesare Orlando, senatore democristiano (fu anche ministro), con Giuseppe Ungaretti come testimone di nozze. Dagli anni Sessanta la grande ossessione della sua vita divenne però la traduzione, in endecasillabi, dell’Odissea. Uscirono alcuni canti tradotti in due successive edizioni, nel 1968 e nel 1970, per le edizioni Eri e nel 1990 per la casa editrice Le Lettere, che pubblicò una stesura «definitiva», ma non completa, della sua traduzione. Il maniacale e ferreo perfezionismo nella scelta delle parole, la ricerca di un suono congruo tra originale e parola tradotta, le impediva di essere soddisfatta di qualsiasi, pur eccelsa, conclusione. Con l’Odissea in endecasillabi vinse, nel 1993, il Premio Nazionale per la Traduzione letteraria (Einaudi ne pubblicò anche un’edizione scolastica nel 2003). Nel 2004 la casa editrice Archivi del ‘900, con Scheiwiller, pubblicò il suo carteggio con Camillo Sbarbaro (con uno scritto di Gina Lagorio). Lei, a quel tempo, si stava dedicando all’ultima traduzione della sua vita, quella dal Cantico dei Cantici, il più lirico tra i libri dell’Antico Testamento, pubblicata dalla Morcelliana nel 2006.
La sua fu una religione dell’endecasillabo che, come scrisse Alfonso Berardinelli, veniva «da un luogo e da un tempo indefinibili». Forse quel luogo è l’immagine della Grecia arcaica che abbiamo oggi e di cui lei era vestale.
La sua è stata la poesia pura più alta dopo l’Ermetismo, poesia come esperienza di scaturigine delle cose. Un’esperienza virtuosistica che la assorbiva completamente e la rendeva, allo stesso tempo, noncurante per le cose del mondo. La sua siderale distanza dall’attualità, da qualsiasi forma di costruzione del consenso verso gli autori, dai media, da tutto, la rendeva disponibile a uno spontaneo, quasi ingenuo amore verso i giovani scrittori, che pure la riamavano. Il «tempo contro cui non c’è riparo», come scrisse lei negli Esercizi, si è portato via un angelo della poesia.

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