Etty Hillesum, ritrovare la vita nella voragine dell’Olocausto

Un forte messaggio di speranza da una vittima dello sterminio

Un forte messaggio di speranza da una vittima dello sterminio

Giustamente, Alessandro Barban (priore dei Benedettini camaldolesi) e Antonio Carlo Dall’Acqua cominciano il loro libro su Etty Hillesum, intitolato Osare Dio (Cittadella Editrice, pp. 284, 17,80), con una fotografia scattata nel 1931. È il ritratto di una famiglia ebrea composta da padre, madre e tre figli, che vive in Olanda, ma potrebbe essere quello di centinaia di migliaia di altre famiglie ebree borghesi di tutta Europa. Sappiamo che il padre, Louis Hillesum, è un professore di latino e greco, schivo, interessato principalmente ai suoi studi; che la madre Riva (Rebecca) è di origine russa, è emigrata in Olanda a seguito di un pogrom, e ha un carattere difficile, venato di follia; che i due ragazzi, il quindicenne Jaap e l’undicenne Mischa (diventeranno: uno medico e l’altro raffinato pianista) hanno grossi problemi psichici; e che Etty, la ragazza bruna diciassettenne che con gli occhi intensi fissa l’obiettivo, ha un cattivo rapporto con entrambi i genitori e attraversa l’«età ingrata» in cui lottiamo con noi stessi. Tutto questo, però, ha una relativa importanza. Quello che conta, nel ritratto fotografico in cui gli Hillesum esibiscono con fiducia il loro decoro borghese, è la sua «normalità»: l’omogeneità a milioni — stavolta — di famiglie europee non ebree, più o meno agiate, più o meno felici. Dovevano passare 12 anni, infatti, e gli Hillesum, in quel momento ignari, insieme ad altri sei milioni di ebrei ignari e innocenti, sarebbero stati spazzati via dalla faccia della terra.
Il percorso spirituale di Etty Hillesum, da molti considerata una delle anime più alte del Novecento, non può prescindere dalla tragedia del popolo ebraico. Probabilmente non si sarebbe realizzato in quella forma, o addirittura sarebbe rimasto inespresso — un «facile idillio» con Dio coltivato dietro una scrivania, in una comoda stanza con tanti libri e sempre dei bei fiori, e fuori i quieti canali di Amsterdam — se la sua vita non fosse stata «scaraventata nel dolore». Lo conosciamo attraverso un esiguo numero di Lettere (pubblicate da Adelphi), scritte principalmente dal campo di smistamento di Westerbork nel corso di un anno (dal 14 agosto del ’42 al 7 settembre del ’43: data della partenza di Etty e dei suoi per Auschwitz), e da uno sterminato Diario di oltre 800 pagine fitte (pubblicato pure quello, integralmente adesso, da Adelphi), che va dall’8 marzo del 1941 al 12 ottobre del 1942: 17 mesi, un tempo brevissimo (come osservano Barban e Dall’Acqua), nel quale il bruco diventa farfalla e si compie una trasformazione incredibile.
L’8 marzo del ’41 segna un momento fondamentale nell’esistenza di Etty Hillesum: l’incontro con Julius Spier. Spier, ebreo tedesco cinquantaquattrenne rifugiatosi in Olanda dopo aver lasciato la moglie e due figli, fidanzato con una giovane ragazza, Hertha (emigrata nel ’38 in Inghilterra), è uno psicochirologo (uno psicanalista che muove, per la sua analisi, dallo studio della mano), seguito nella sua formazione e apprezzato da Jung. Non è un bell’uomo: è tozzo, corpulento, ma ha una bocca estremamente sensuale e due occhi che «trapassano il tempo». Fino a quel momento, prima di conoscerlo, Etty ha vissuto disordinatamente: si è laureata senza entusiasmo in giurisprudenza; ha avuto esperienze sessuali e sentimentali che l’hanno lasciata insoddisfatta (attualmente ha una relazione fissa con Han Wegerif, un signore di ben 62 anni); ha disperso i suoi talenti. Ora, in certi momenti, sente che le sue idee sono «troppo vaghe, pendono come vestiti troppo larghi» dal suo corpo; in altri, vorrebbe «sparire, dissolversi, fondersi armoniosamente con terra e cielo»; soffre per il caos che regna in se stessa; cerca un uomo da possedere per tutta la vita, e nel medesimo tempo sa che quel possesso assoluto non è il possesso dell’Assoluto; invoca Dio che intuisce essere dentro di sé, ma ha l’impressione che sia una sorgente coperta di pietra e sabbia.
Spier, che ad Amsterdam ha un certo successo, è l’uomo del destino. I suoi metodi terapeutici, a dir la verità, sono (come sottolineano Barban e Dall’Acqua) piuttosto strani e a dir poco discutibili. Si basano (oltre alla lettura della mano) sulla convinzione che corpo e anima sono strettamente congiunti e devono vivere in armonia. Perché i suoi pazienti la possano raggiungere, questa armonia, liberandosi delle regressioni e delle paure che li bloccano, Spier fa con loro la lotta. Una lotta vera e propria: fisica, anche violenta. È davvero un metodo strano e, se vogliamo, al limite della deontologia medica: perché quando la paziente è una donna, è inevitabile o quasi che dalla lotta, dal contatto convulso dei corpi, si passi ad altri gesti, magari a carezze spinte. È esattamente quello che accade a Etty, che molto presto è attratta da Spier («La sua bocca all’improvviso era così selvaggia e demoniaca, e sbocciava con sensualità… La carne, volevo solo la carne») e si innamora. Ma anche Julius — che è un uomo colto, religioso, sensibile, e onesto nel suo desiderio di far emergere in ogni individuo la parte più profonda e vera del suo essere — si innamora di Etty. Così fra i due si crea una situazione estremamente complessa e contraddittoria, fatta di pulsioni erotiche e inibizioni, slanci sentimentali e sensi di colpa (Spier non vuole lasciare la sua fidanzata, Etty continua a fare l’amore con Han, addirittura rimane incinta e abortisce), nella quale, sostanzialmente, quest’uomo e questa giovane donna che potrebbe essere sua figlia pongono loro stessi come un ostacolo (forse necessario) al raggiungimento di un amore diverso, al quale tuttavia tendono ciecamente come a qualcosa di misterioso, ancora oscuro, indefinito.
Intanto, la situazione degli ebrei precipita. Nel giugno del ’42 vengono promulgate anche in Olanda le leggi di Norimberga: iniziano le persecuzioni, le deportazioni. Gli ebrei devono essere annientati, sparire. Ed ecco che Dio chiama. Scende nel cuore di Etty: dove già dimora. Un giorno, all’improvviso, Etty si trova (non decide di farlo) inginocchiata al centro della stanza. Un giorno legge il brano della Lettera di Paolo ai Corinzi sulla carità e sente che quelle parole sono «come verghe» sul duro del suo cuore. Di nuovo cade in ginocchio. Le minacce e il terrore crescono, le barbarie si accumulano. E, pian piano, le pietre e la sabbia si sollevano dal cuore di Etty, e quella sorgente nascosta zampilla con una potenza inaudita.
È l’amore di Dio: che Etty riconosce in ogni uomo, a cominciare dai suoi carnefici, e nella vita. Una vita che, pur in questo abisso di disperazione, non riesce a non considerare piena di significato e meravigliosamente bella. Una sera, è nel suo letto e, attraverso la finestra, guarda il cielo e gli alberi. E scrive: «La guerra, i campi di concentramento… tutto questo esiste, lo so, eppure, in un momento di abbandono, io mi ritrovo nel petto nudo della vita e le sue braccia mi circondano così dolci e protettive, e il battito del suo cuore non so ancora descriverlo: così lento e regolare e così dolce, quasi smorzato, mai così fedele, come se non dovesse arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso». In un’altra pagina scrive: «Trovo bella la vita e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore». Più avanti ancora scrive: «Una cosa è certa: si deve contribuire ad aumentare la scorta d’amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all’odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo inospitale e invivibile».
Adesso gli eventi incalzano. Etty potrebbe nascondersi, fuggire. Non lo fa. Prima come impiegata del Consiglio ebraico, poi come prigioniera destinata allo sterminio, entra nel campo di Westerbork. Quello che vede con i suoi occhi, quello che ascolta con le sue orecchie, è l’orrore: fame, miseria fisica e mentale, degradazione, umiliazioni di ogni genere, bambini strappati alle culle, mogli separate dai mariti per sempre. E, ogni lunedì, l’arrivo di quel treno composto da carri bestiame che bisogna riempire di esseri innocenti e il martedì parte verso la morte. Etty non si sottrae a nulla. Spier è morto di cancro e il suo amore è ormai tutto per gli altri: per il suo prossimo, sorretto da quella sorgente che continua a zampillare nel suo cuore. Ma Dio è nel cuore di tutti.
«Una cosa, però, diventa sempre più evidente in me», scrive Etty un giorno, ormai di fronte all’inevitabile suo destino, «e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi». Siamo al culmine del cammino spirituale di questa giovane ebrea che leggeva i Salmi e i Vangeli: aiutare Dio. Un’idea pazza e rivoluzionaria, come sottolineano Barban e Dall’Acqua, che capovolge il rapporto dell’uomo col suo Creatore.
Etty Hillesum morì ad Auschwitz nel novembre del ’43. Dal treno, riuscì a gettare una cartolina postale indirizzata alla sua amica Christine van Nooten. C’era scritto: «Abbiamo lasciato il campo cantando».

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