GLI EX BAMBINI SALVATI PER CASO

L’eco tagliente delle gutturali, l’odore amaro della polvere da sparo, quello dolciastro del sangue. Ma anche una bambola o un fazzoletto: spiragli di luce nei ricordi. Testimoni di un orrore che li ha segnati per sempre, vittime della “terza guerra”, quella più dimenticata: la vendetta terribile contro i civili italiani

L’eco tagliente delle gutturali, l’odore amaro della polvere da sparo, quello dolciastro del sangue. Ma anche una bambola o un fazzoletto: spiragli di luce nei ricordi. Testimoni di un orrore che li ha segnati per sempre, vittime della “terza guerra”, quella più dimenticata: la vendetta terribile contro i civili italiani

Per anni Alessandro non è riuscito a usare le sue mani. Le guardava spesso, ma come se non gli appartenessero. Non riusciva neppure ad accarezzare la moglie. Con quelle mani, una sera di agosto del 1944, Alessandro aveva trasportato i corpi dei suoi amici uccisi dai nazisti. Dodici adolescenti più o meno coetanei, con cui doveva giocare a bocce. Li ritrova riversi a terra, sulla piazza di Borgo Ticino, sotto un lenzuolo. Se li carica in spalla, sul carro e sulla scala, e li porta al cimitero. «Con queste mani, proprio con queste mani», ripete dopo tanti anni.
Alessandro è uno dei ragazzini sopravvissuti a una guerra dimenticata, la “terza guerra” dei nazifascisti contro i civili italiani tra il ’43 e il ’45. Quindicimila vittime. Dopo un lunghissimo silenzio i loro famigliari hanno deciso di raccontare. Trame che hanno il passo dell’epica, da leggersi con la cautela dovuta quando si attraversano intimità sconvolgenti. Racconti preziosi per restituire un capitolo di storia altrimenti minacciato dall’amnesia collettiva.
Pier Vittorio Buffa, giornalista di lunga esperienza già autore di vari saggi storici, è andato sui luoghi degli eccidi insieme ai figli, ai nipoti, ai fratelli e ai cugini delle vittime. Il frutto del suo lavoro è Io ho visto, raccolta di trenta testimonianze di chi conserva nello sguardo l’assassinio del padre e della madre, talvolta di intere famiglie, e anche di chi ha creduto di morire, condannato a una vita da reduce. «Parole che non si possono perdere», dice Buffa, che ha creato anche il sito www.iohovisto.it
per includervi nuove testimonianze.
Un’operazione necessaria anche per restituire giustizia a chi non l’ha mai avuta. Per cinquant’anni ha pesato l’occultamento per ragione di Stato dei quasi settecento fascicoli chiusi nell’ “armadio della vergogna” (dalla celebre inchiesta di Franco Giustolisi) e in seguito le condanne sono arrivate troppo tardi. Talvolta i processi si sono conclusi con un’archiviazione, come è capitato di recente alla procura di Stoccarda che ha discolpato diciassette SS operativi a Sant’Anna di Stazzema.
Ogni testimonianza è infelice a modo suo, ma quasi sempre c’è un motivo che ricorre. La scarica della mitragliatrice e l’eco tagliente delle gutturali. L’odore amaro della polvere da sparo e quello dolciastro del sangue. L’istinto insopprimibile di fuga, raggelato dalla vista del fuggiasco tramortito dalle pallottole. Il corpo materno che fa da scudo, e cadendo sul figlio ne garantisce la salvezza sotto il mucchio dei cadaveri. Ma tra i tanti fili comuni che affondano nel dolore affiora ogni tanto anche lo sguardo frivolo, il dettaglio inatteso come il fazzoletto colorato o la bambola o il vestito bello della festa, il particolare tenero che Paola Medri Buffa chiama «lo spiraglio di luce», ed è quello che ti permette di ricominciare. E di raccontarci cosa realmente accadde, nelle piazze e nei casolari dimenticati di settant’anni fa.

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