Oltre il muro lieve del silenzio: Alba e la sua memoria del Lager

La scena centrale del libro, la più scombussolante, non preannunciata da squilli di tromba ma infilata tra le pagine in modo del tutto inapparente, è quella in cui il padre dell’autrice, l’affermato pittore Avigdor Arikha, incontra per strada un tale e a malapena lo saluta, benché fossero stati internati nello stesso campo di concentramento.

La scena centrale del libro, la più scombussolante, non preannunciata da squilli di tromba ma infilata tra le pagine in modo del tutto inapparente, è quella in cui il padre dell’autrice, l’affermato pittore Avigdor Arikha, incontra per strada un tale e a malapena lo saluta, benché fossero stati internati nello stesso campo di concentramento. La figlia adolescente che lo accompagna, incapace di comprendere, gli rinfaccia lo strano comportamento, ne vuole sapere la ragione, quasi lo assale. «Non abbiamo niente in comune», risponde il padre. «E l’essere stati insieme nel Lager non è un’esperienza che accomuna?». Avigdor non risponde e il lettore non può che interrogarsi allo stesso modo della figlia, Alba Arikha, autrice e protagonista di Te lo dirò un’altra volta (Bollati Boringhieri), un po’ diario, un po’ libro di memorie adolescenziali e familiari, un po’ resoconto di un lungo duello tra padre e figlia, l’uno e l’altra di carattere similmente irruente.
Motivo del duello sono, ovviamente, le ripetute ribellioni della ragazzina Alba alle severe regole di casa ma, ancora di più, la pretesa di conoscere vicende che il padre, ebreo di lingua tedesca originario della Romania, costretto, quand’era un bambino di dodici anni, a una terribile marcia nell’inverno ucraino verso il campo di concentramento, non vuole a nessun costo ricordare. Il Te lo dirò un’altra volta del titolo è la risposta che quasi sempre tocca ad Alba ogni volta che tenta di affrontare il discorso.
Solo con grande fatica e perseveranza — l’ostinazione degli adolescenti — ella riesce un po’ alla volta a mettere insieme brandelli di informazioni letteralmente estorte al padre e ad altri taciturni parenti, ricostruendo alla fine la storia della famiglia, di ciò che è rimasto della famiglia, così simile a quella di innumerevoli altre spazzate via, sparite, smembrate, decimate nell’Olocausto. Storia, però, anche diversa: non solo il bambino Avigdor disegnava quel che vedeva, testimoniando le atrocità a suo grandissimo, probabilmente inconsapevole, rischio e pericolo, ma dipingeva anche con un pennello che si era fabbricato con i suoi capelli. Ne fu colpito un ufficiale tedesco della Croce Rossa che riuscì a farlo uscire dal campo assieme alla sorellina: il padre era già morto, la madre restò nel Lager fino alla liberazione ritrovando i figli soltanto quattordici anni dopo.
Te lo dirò un’altra volta non è l’ennesimo libro sull’Olocausto bensì, alla fine, la storia di una famiglia chiusa nel silenzio. Per aprirsi, non basta essere artisti, né basta che in casa entrino ed escano personaggi come Samuel Beckett o Henri Cartier-Bresson: le sofferenze, le umiliazioni patite e la grande, infinita, rabbia sigillano la bocca nell’illusione che in questo modo si riesca a cancellarne anche il ricordo. È successo non soltanto ai sopravvissuti dei campi di concentramento ma anche agli uomini che sono stati in guerra: tacciono sull’orrore attraversato, probabilmente perché nel tempo si è trasformato in vergogna di sé che ai figli, ai nipoti preferiscono risparmiare.
In casa del pittore deportato da bambino è Alba, l’adolescente sfrontata e ribelle che riesce a rompere la cappa del non detto, e con tono lieve, a volte perfino ironico, qui ci narra come è andata, come mezze parole, brandelli di frasi, spezzoni di discorsi, simili a tessere di un mosaico, un po’ alla volta si sono ricomposti ricostruendo l’intero tragico passato familiare.
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Il libro di Alba Arikha, «Te lo dirò un’altra volta», Bollati Boringhieri, pp. 214, 16,50

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