La notte del Duce

LUGLIO ’43/2 QUELLA RISSA AL CAFFÈ MENTRE IL GRAN CONSIGLIO RINNEGA IL FASCISMO

La riunione fatale per Mussolini iniziò alle cinque e finì alle due del mattino in pochi capirono cosa stava accadendo 

LUGLIO ’43/2 QUELLA RISSA AL CAFFÈ MENTRE IL GRAN CONSIGLIO RINNEGA IL FASCISMO

La riunione fatale per Mussolini iniziò alle cinque e finì alle due del mattino in pochi capirono cosa stava accadendo 

Sabato 24 luglio, pomeriggio. «Entriamo nella trappola?» Sono le parole che Benito Mussolini bisbiglia varcando il portone di palazzo Venezia. Non è una domanda, è l’unica certezza che occupi il suo animo incline al peggio. Sono le 17,15. Il Duce indossa la divisa della milizia. I gerarchi del Gran Consiglio si trovano lì già da un quarto d’ora.
Quasi tutti nascondono una pistola. Dino Grandi – del contenuto del cui ordine del giorno “consiliare” si parla già da settimane fra “chi conosce le cose” – ha in tasca due bombe: non è sicuro di uscire incolume dal Palazzo. La mattina si è confessato e ha preso la comunione.
Un saluto di rito del segretario del partito, Carlo Scorza. Subito dopo prende la parola il dittatore. Non sta bene per via dell’ulcera, antico malanno. Un esordio breve, il suo, centrato su due temi: la polemica contro Sua Maestà, coinvolto in ogni intrigo militare, e un attacco a Pietro Badoglio, complice di qualsiasi trama. Qualche accenno ai rovesci militari, con l’aria di sfatare luoghi comuni. La sconfitta di El Alamein va in realtà addebitata al maresciallo Rommel, comunque «mirabile combattente ». Quanto all’ordine di resa, decretato dopo la rotta di Pantelleria, non si poteva fare nulla di diverso: solo Stalin e il Mikado possono imporre ai soldati di resistere fino alla morte. Ora il
dilemma è: arrendersi a discrezione o combattere ad oltranza. L’Inghilterra è lì che vuole assicurarsi per sempre i suoi cinque pasti. E i tedeschi? A loro ci lega un patto, e «pacta sunt servanda» .
In breve si arriva al culmine dell’incontro. Per Giuseppe Bottai, ciò che ha appena detto il Duce poggia su una sola constatazione: «La dittatura ha perso la guerra. Così crolla ogni nostra illusione».
Mussolini è immobile, quasi in disparte. Resta così anche mentre Dino Grandi parla dell’ordine del giorno che ha preparato per sottoporlo all’assemblea. Si tratta, in assoluto, di quanto di più duro e reciso si sia ascoltato nei raduni di partito in ventun anni di Era fascista. Certe sue affermazioni appaiono scultoree, e molti tratti del discorso sembrano l’esordio al potere d’un successore. Di fatto, secondo Grandi, la Corona è stata menomata delle sue prerogative. Per contro, la figura del dittatore soggiace a un penoso stereotipo immaginato da Achille Starace. Mussolini perciò deve togliersi dal berretto «quella “doppia greca” che si è goffamente attribuita, deve tornare il Duce d’una volta». Intanto, occorre sollecitare la Maestà del Re ad assumere il comando delle forze armate.
«Decisamente la fortuna mi ha voltato le spalle». Ecco – secondo il Paolo Monelli di Roma 1943 – il mormorio con il quale Mussolini commenta questa requisitoria. Tutto in sudore, ha la camicia sbottonata sotto la divisa.
L’intervento di Galeazzo Ciano, il “genero di Stato”, è tutto un attacco alla Germania, alla sua slealtà, alla sua abitudine a informarci delle sue iniziative soltanto a cose fatte. Non parlino ora di tradimento da parte nostra. Sono loro, Hitler e Ribbentrop, a tradirci. Per sistema.
Vale a stento la pena di notate come il successivo intervento, dovuto a Roberto Farinacci – che molti ormai chiamano “Herr Gauleiter Farinacci” – sia di segno opposto: un inno alla Germania, cui è doveroso confermare la nostra alleanza.
Il dittatore – o quasi ex tale – non ne può proprio più. Suggerisce a Carlo Scorza di rinviare la seduta all’indomani. Si sente male: non può affaticarsi. «Se in momenti gravi per la mia salute, il mio bravo medico non mi avesse curato a dovere, forse adesso voi non stareste tutti qui a discutere su di me», è una sua amara confidenza.
La proposta di sospensione viene bocciata. Grandi, protagonista ormai di un’ora storica, decreta: si esce da qui solo dopo che il mio ordine del giorno sia stato messo ai voti. Alla fine ci si limita a concedersi in rinfresco in una sala adiacente.
«C’è puzza di tradimento»: è l’osservazione che viene attribuita a Guido Buffarini Guidi. A molti pare pleonastica.
Il tradimento, o quel che sia, è in pieno corso . Grandi è in un altro locale a raccogliere le firme per il suo ordine del giorno. Lo sottoscrivono in tanti, più d’uno perché non ne prevede le conseguenze. A volte, specie nei frangenti cruciali, la stupidità non conosce limiti.
All’appello – un lampante invito rivolto a Mussolini di lasciare l’esecutivo e rimettere il mandato al Re – rispondono sì, oltre allo stesso Grandi, Federzoni, De Vecchi, Ciano, Bottai. Gottardi, Bignardi, De Stefani, Alfieri, Rossoni, Marinelli, Albini, e qualche altro. A bocciare l’o.d.g. sono Scorza, Bigini, (ministro dell’Educazione), Tringali Casanova, (presidente del Tribunale Speciale), Frattari, Buffarini Guidi e il comandante della milizia, Enzo Galbiati, si astengono Suardo (presidente del Senato) e il teutonico Farinacci.
La seduta è durata una decina di ore. Fino alle 2 e quaranta, notte inoltrata. Ma già a prima sera, il finale si dà per scontato in certi luoghi di ritrovo, con un lieve oscillare di versioni: Mussolini è stato messo in minoranza. È già partito per il suo rifugio di vacanze, la Rocca delle Caminate. È in seria difficoltà, ma vedrete che ritorna. In questo clima, qualche osservatore cultural-mondano ambienta una scena destinata a diventare proverbiale. Si svolge in un luogo raffinato, al romano caffè Aragno, covo di intellettuali quasi sempre oppressi dalla noia. A un certo punto, scoppia un piccolo tumulto. Un “seniore” della milizia, in divisa e armato, apostrofa duramente uno dei presenti che, rivolto a un proprio conoscente – il poeta Vincenzo Cardarelli – gli ha chiesto: «E lei che ne pensa?». «È vietato darsi del lei», grida il Seniore. Voi non lo sapete?».
L’episodio degenera. C’è chi difende il graduato del regime, chi spalleggia l’inesperto di pronomi. Mario Pannunzio, giornalista anche lui, e già prestigioso, finisce per rompere una sedia sulla testa del Seniore. Il tafferuglio s’allarga, fra poltrone rovesciate e bicchieri che volano. In quel momento entra da Aragno il redattore d’un quotidiano, il siculo Corrado Sofia. Grida a perdifiato: «Hanno deposto Mussolini, comanda di nuovo il Re». In un angolo, un signore dall’aria blasé commenta (sotto il fascismo il latino, per tacito decreto, è molto in auge): «Sic transit gloria mundi».
(2. Continua)

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