Quelle parole dell’uomo con il mitra

Più che una chiamata alle armi, è l’indicazione di un possibile punto di svolta, al termine di una lunga e involuta analisi. La repressione subita dai militanti No Tav, dicono due dirigenti del fu Partito comunista politico-militare (associazione sovversiva ma non terroristica, secondo l’ultimo verdetto della Cassazione) rientra in un progetto reazionario più generale, all’interno della mai sopita «guerra di classe».

Più che una chiamata alle armi, è l’indicazione di un possibile punto di svolta, al termine di una lunga e involuta analisi. La repressione subita dai militanti No Tav, dicono due dirigenti del fu Partito comunista politico-militare (associazione sovversiva ma non terroristica, secondo l’ultimo verdetto della Cassazione) rientra in un progetto reazionario più generale, all’interno della mai sopita «guerra di classe».

E dunque gli antagonisti all’Alta velocità che stanno subendo perquisizioni, detenzioni e perfino accuse di eversione, si trovano davanti a un bivio: «Compiere un altro salto in avanti politico-organizzativo, assumendone anche le conseguenze, o arretrare». Così scrivono, dal carcere in cui sono rinchiusi, Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi, considerati due capi di quel gruppo armato smantellato nel 2007 e ribattezzato «nuove Br», sebbene con le Br (anche le più recenti, quelle che uccisero D’Antona e Biagi) avesse poco o nulla a che fare. Che vedono di buon occhio certe forme di radicalizzazione delle proteste No Tav. Anche all’interno delle prigioni, come risposta alla «militarizzazione aggravata con conseguenti minacce penali, fino a quella (per ora solo agitata) di imputazione terroristica-eversiva». Perciò, proseguono i due sovversivi, «apprezziamo molto la generale tenuta militante in sede processuale e, particolarmente, l’atto di revoca degli avvocati di alcuni/e compagni/e». È un’antica tradizione, quella di togliere il mandato ai difensori di fiducia e d’ufficio. Che risale, questa sì, alle Brigate rosse degli anni Settanta, quando volevano dimostrare che la lotta armata non si poteva processare. Che qualche militante No Tav abbia fatto una mossa simile (per altro smentita dagli investigatori), scrivono Davanzo e Sisi, «crea simpatiche consonanze con la nostra dimensione di prigionieri rivoluzionari e dei nostri processi politici». Perché le lotte contro l’Alta velocità rientrano in quelle «resistenze, talvolta coraggiose e determinate, che si ritrovano in difficoltà di fronte ad attacchi repressivi pesanti, ma anche articolati e selettivi, che mirano alla intimidazione, disgregazione e abbandono della lotta». Di qui l’appello a prendere piena coscienza della situazione e trarne le conseguenze: «Solo rispondendo con nuovi salti di qualità, approfondendo lo scontro, quindi non solo sul piano della lotta specifica ma maturando, via via, condizioni e termini per disporsi sul piano di lotta strategica, solo in questo modo si può evitare di avvitarsi nella difesa antirepressiva». Condannati rispettivamente a 10 e 9 anni di carcere, Sisi e Davanzo hanno intitolato il loro documento «Contro la repressione, nuova determinazione». Quando gli investigatori della Digos andarono ad arrestarlo, trovarono un kalashnikov nascosto nell’orto di casa di Sisi. Davanzo invece era considerato l’ideologo del gruppo inquisito dalla Procura di Milano, e appena gli misero le manette ai polsi si dichiarò «prigioniero politico». Invitava i compagni «a imparare a lottare sui vari piani, fino al massimo livello di sintesi, l’unione del politico col militare»; senza rinnegare la lotta armata, ma non disdegnando, a differenza dei brigatisti, il contatto con le realtà antagoniste e altre forme di lotta non clandestine. Come oggi i No Tav.

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Quelle parole dell’uomo con il mitra

Più che una chiamata alle armi, è l’indicazione di un possibile punto di svolta, al termine di una lunga e involuta analisi. La repressione subita dai militanti No Tav, dicono due dirigenti del fu Partito comunista politico-militare (associazione sovversiva ma non terroristica, secondo l’ultimo verdetto della Cassazione) rientra in un progetto reazionario più generale, all’interno della mai sopita «guerra di classe».

Più che una chiamata alle armi, è l’indicazione di un possibile punto di svolta, al termine di una lunga e involuta analisi. La repressione subita dai militanti No Tav, dicono due dirigenti del fu Partito comunista politico-militare (associazione sovversiva ma non terroristica, secondo l’ultimo verdetto della Cassazione) rientra in un progetto reazionario più generale, all’interno della mai sopita «guerra di classe».

E dunque gli antagonisti all’Alta velocità che stanno subendo perquisizioni, detenzioni e perfino accuse di eversione, si trovano davanti a un bivio: «Compiere un altro salto in avanti politico-organizzativo, assumendone anche le conseguenze, o arretrare». Così scrivono, dal carcere in cui sono rinchiusi, Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi, considerati due capi di quel gruppo armato smantellato nel 2007 e ribattezzato «nuove Br», sebbene con le Br (anche le più recenti, quelle che uccisero D’Antona e Biagi) avesse poco o nulla a che fare. Che vedono di buon occhio certe forme di radicalizzazione delle proteste No Tav. Anche all’interno delle prigioni, come risposta alla «militarizzazione aggravata con conseguenti minacce penali, fino a quella (per ora solo agitata) di imputazione terroristica-eversiva». Perciò, proseguono i due sovversivi, «apprezziamo molto la generale tenuta militante in sede processuale e, particolarmente, l’atto di revoca degli avvocati di alcuni/e compagni/e». È un’antica tradizione, quella di togliere il mandato ai difensori di fiducia e d’ufficio. Che risale, questa sì, alle Brigate rosse degli anni Settanta, quando volevano dimostrare che la lotta armata non si poteva processare. Che qualche militante No Tav abbia fatto una mossa simile (per altro smentita dagli investigatori), scrivono Davanzo e Sisi, «crea simpatiche consonanze con la nostra dimensione di prigionieri rivoluzionari e dei nostri processi politici». Perché le lotte contro l’Alta velocità rientrano in quelle «resistenze, talvolta coraggiose e determinate, che si ritrovano in difficoltà di fronte ad attacchi repressivi pesanti, ma anche articolati e selettivi, che mirano alla intimidazione, disgregazione e abbandono della lotta». Di qui l’appello a prendere piena coscienza della situazione e trarne le conseguenze: «Solo rispondendo con nuovi salti di qualità, approfondendo lo scontro, quindi non solo sul piano della lotta specifica ma maturando, via via, condizioni e termini per disporsi sul piano di lotta strategica, solo in questo modo si può evitare di avvitarsi nella difesa antirepressiva». Condannati rispettivamente a 10 e 9 anni di carcere, Sisi e Davanzo hanno intitolato il loro documento «Contro la repressione, nuova determinazione». Quando gli investigatori della Digos andarono ad arrestarlo, trovarono un kalashnikov nascosto nell’orto di casa di Sisi. Davanzo invece era considerato l’ideologo del gruppo inquisito dalla Procura di Milano, e appena gli misero le manette ai polsi si dichiarò «prigioniero politico». Invitava i compagni «a imparare a lottare sui vari piani, fino al massimo livello di sintesi, l’unione del politico col militare»; senza rinnegare la lotta armata, ma non disdegnando, a differenza dei brigatisti, il contatto con le realtà antagoniste e altre forme di lotta non clandestine. Come oggi i No Tav.

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