Tra i ragazzi con le bocche cucite “Vogliamo solo essere liberi ci sigilleremo anche le palpebre”

Il reportage Viaggio nel Cie di Roma. Quattro espulsi dopo la protesta
Il reportage Viaggio nel Cie di Roma. Quattro espulsi dopo la protesta

ROMA. IL FILO che gli serra le labbra è verde, come il colore del suo maglione. Un piccolo grumo di sangue si è già fatto crosta, sotto il suo naso. È mutilato e quasi muto. A ogni parola sente uno strappo, una fitta che gli arriva al cervello. Si chiama Tahari. Un suo amico ha usato lo spago giallo, un altro quello nero della coperta. Nella stanza delle bocche cucite me li ritrovo davanti tutti insieme i prigionieri di quest’Italia che li ha nascosti a un passo da noi. Lui, Tahari, l’altra sera ha preso un pezzo di ferro e l’ha affilato come si fa con i coltelli, poi ha cominciato a incidere su una parte e sull’altra delle sue labbra.
DOVE ha trovato la carne più molle ha cominciato a spingere, verso giù, sempre più giù. Un punto dopo l’altro, piano piano. Un buco piccolo, poi un buco un po’ più grande, poi più grande ancora. Fino a quando dalla sua bocca di sangue non n’è uscito più. Non ha gridato mai, non ha versato una sola lacrima di dolore. «Pensavo a mia madre mentre me la chiudevo», racconta mentre mi trascina nella camerata dove ci sono i suoi compagni, il blocco numero 12 dopo il varco G. Spago verde, spago giallo, spago nero. Li ho tutti intorno questi «stranieri» con le labbra gonfie di rabbia che uno dopo l’altro mi ricordano dei loro figli e delle loro mogli, dei padri che hanno lasciato uno o dieci anni fa a Fes o a Gabes, di Lampedusa e del mare che si è ingoiato fratelli e sorelle. Un ragazzo mi dice del suo cane che da sette giorni — da quando l’hanno preso senza documenti all’Arco di Travertino — è abbandonato in giro per Roma, un altro della fidanzata che l’ha visto dal balcone con le uova in mano — al Prenestino — e poi non l’ha visto più perché i poliziotti l’hanno rinchiuso qui. Gli amici che si sono perduti, le paure che non finiscono mai.
Dimmi Thari, dimmi perché ti sei cucito la bocca? «Perché non ce la faccio più a stare qui, per tre volte ho fatto lo sciopero della fame e per tre volte è stato tutto inutile: voglio la libertà, voglio essere libero».
Un volto, uno sguardo, una parola, le labbra deturpate: provateci voi a dimenticare le facce che ho visto ieri mattina a Ponte Galeria, provateci voi a venire in questo recinto e a non vergognarvi di cosa siamo stiamo facendo a questi ragazzi che vengono dall’altra parte del mondo. Prego, accomodatevi in questo carcere che per pudore nessuno vuole chiamare carcere e dove uno di loro ha preso la molla dell’accendino e se l’è conficcata lì fra i denti e la lingua intrecciando la lana della sua felpa, l’altro che ha scelto un chiodo o una spilla per ferirsi, il gancetto di un quaderno, un fermaglio, una molletta. Venite a vederli, per favore. Bianchi. Neri. Metà bianchi e metà neri. Magrebini, bosniaci, georgiani, serbi, palestinesi, ucraini, tunisini, romeni, egiziani, marocchini, senegalesi.
Sono in piedi. O sulle brande. Sono sdraiati al sole fra sbarre e vetri blindati di una galera in mezzo alla campagna romana.
Chi sei tu? «Sono Tahari Said, sono nato il 2 marzo del 1988 a La Goulette che è il porto di Tunisi e stasera mi cucio anche le palpebre così i miei occhi non si apriranno più davanti a questo schifo». Thari è un mucchio d’ossa, gli vedo le scapole che sporgono dal maglione, ha due gambe che sembrano fil di ferro, trema di freddo e forse anche di paura, mi porta in un cortile per raccontarmi la sua storia che è quella dei suoi 83 compagni e compagne — 29 donne e 54 uomini — che oggi sono sequestrati in questa fortezza al quale hanno dato il
nome di Cie, centro di identificazione e di espulsione, pochi chilometri da una Roma che è «zona franca», non è Italia e non è Europa, è una sacca sprofondata nel niente, isolata dal filo spinato, cinquantadue militari che fanno la ronda fuori e tanti poliziotti che fanno la guardia dentro.
Sono entrato nella prigione di Ponte Galeria verso le 11 del mattino di ieri, giornata con il cielo azzurro d’inverno, il cancello che si apre, la funzionaria della questura di Roma che spiega, un bravo medico che spiega, il direttore dell’Auxilium (la cooperativa sociale che ha in appalto i servizi di ristorazione fisica e psicologica del Centro) che spiega, tutti che spiegano tutto ma che non possono spiegare niente di questo luogo che c’è e non c’è, che è illegale nella sua legalità, che è spietato nella sua umana quotidianità. È tutto pulito, ordinato, niente di fatiscente o di lercio come a Lampedusa quando ne arrivano duemila tutti in una volta sola con i barconi, tutto organizzato, sistemato, strutturato, la mensa, l’infermeria, la sala colloqui, gli addobbi natalizi, l’albero con le palle colorate. Una bellissima prigione.
Varco A, varco B, varco C, a destra le femmine e a sinistra i maschi, un corridoio, un altro corridoio ed ecco le sbarre, le inferriate, i vetri blindati dei varchi G e H ed eccoli lì ragazzi tunisini e marocchini che si sono cuciti la bocca. A mezzogiorno sono 17 quelli che non possono aprire le labbra. All’una, quattro li portano via, espulsi e rimpatriati per legge e punizione. Dove? «Noi non lo sappiamo», mi risponde Mohamed Rmdida, tunisino di Sfax, l’imam, quello che secondo alcuni avrebbe fomentato la rivolta a Ponte Galeria. Ha indosso la sua lunga tunica e le sue labbra sono chiuse. Non parla, tira fuori una lettera: «Io sono vero e non deleqnuente. Oh fatto mia carcerazione due anni e 6 mese e dopo bortato me qui. Io mandato vaglia mio paize 20 agosto 2013 e ancquora non partito. Voglio torna indietro mia vaglia».
Siamo nella camerata numero 12, quella delle bocche cucite. Otto letti. Due vetri rotti e coperti dal cartone, un pezzo di pane su una branda, tre rotoli di carta igienica su un’altra, dentifrici, spazzolini, brioche, saponi, fazzolettini di carta, tre corani, un pacchetto di sigarette, quattro asciugamani stesi, un paio di mutande a righe, calze, pantofole, un giubbotto azzurro con la scritta Nsk, pantaloni di lana grezza che si asciugano al vento. È partita da questa camerata l’insurrezione di Ponte Galeria, mutilazioni e sciopero della fame, spago verde, spago giallo, spago nero. Sul muro dello stanzone una scritta in malfermo italiano. «Amo mie mamma». Sul muro fuori il volto di un uomo con baffi e occhiali a lenti spesse, un’altra scritta. «Comandante pericoloso». Ieri, 23 dicembre 2013, meno del quaranta per cento dei disperati rinchiusi nel Centro di identificazione di espulsione di Roma sono incensurati. «Di solito sono anche l’ottanta per cento i pregiudicati ma io li devo curare e non voglio sapere perché erano finiti in carcere», ci dice Maurizio Lo Piccolo, il dottore che ha in cura i disperati che passano da questa fortezza che è tra la capitale e l’aeroporto di Fiumicino, megasale cinematografiche e la caserma del reparto mobile della polizia di Stato. Il mare è lì ma è lontano. Non arriva neanche il suo profumo.
Ci sono solo torrette, soldati, uomini in divisa, garitte. E quattro deputi del Pd — Pina Picierno, Emanuele Fiano, Micaela Campana, Stella Bianchi — che chiedono di vedere quello che nessuno vuole vedere in un’Italia che si volta sempre dall’altra parte.
Come ti chiami, perché ti sei cucito la bocca? «Mi chiamo Menu Rmari, ho 38 anni, sono bosniaco e sono chiuso qui dal 1 settembre e nessuno mi dice niente». Spago giallo. Come ti chiami? «Mohamedh Armah, 26 anni, sono di Sfax, ho tre figli nati in Italia e non vogliono che siano italiani». Spago nero. Come ti chiami? «Sono Youssef El Raah, ho 31 anni, sono palestinese e sono in Italia da 11 anni ma mi dicono che non posso lavorare perché non ho il permesso, non ho il permesso perché non ho i documenti». Spago verde.
Tutti con il loro chiodo e con il loro ferro, ago e filo per non parlare più. Poi ci sono gli altri con la testa fasciata da una benda bianca. Come Ben Nayr, il marocchino che il 3 ottobre si è salvato fra i gorghi dell’Isola
dei Conigli mentre altri 366 affogavano a un miglio dalla costa. Ben ha sbattuto la sua testa con il muro fino a farsi sanguinare. Dietro di lui gli altri, quelli che stanotte hanno promesso di cucirsi gli occhi.

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