Bologna invasa da 100mila giovani del Movimento per un convegno sulla repressione, 1977

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Oltre la fine dell’innocenza

Bologna invasa da 100mila giovani del Movimento per un convegno sulla repressione, 1977

Bologna invasa da 100mila giovani del Movimento per un convegno sulla repressione, 1977

Ita­lia, 1969–1972: di armi ne par­lano in molti. Mino­ranze, certo, ma signi­fi­ca­tive e per nulla esi­gue. La que­stione tiene banco nel vasto movi­mento rivo­lu­zio­na­rio che, nato nelle uni­ver­sità del 1968, si è a sor­presa esteso l’anno suc­ces­sivo nelle fab­bri­che. È argo­mento cen­trale nella discus­sione e nella ela­bo­ra­zione dei prin­ci­pali gruppi della sini­stra extra­par­la­men­tare.
Non si tratta di un gene­rico dibat­tito sulla legit­ti­mità o meno dell’uso della vio­lenza. Quella, almeno sulla carta, è rico­no­sciuta da tutti: costi­tui­sce il vero e prin­ci­pale discri­mine con la sini­stra isti­tu­zio­nale. Si tratta invece di un ben più con­creto que­stio­nare sulla neces­sità di un imme­diato ricorso alle armi. Subito, non in un indi­stinto futuro rivoluzionario.

Ita­lia, 1980–1987: quelle armi, a par­tire dai primi ’70, qual­cuno le ha impu­gnate dav­vero. Una mino­ranza anche que­sta, ancor più che nel decen­nio pre­ce­dente, ma non tra­scu­ra­bile. Nep­pure in ter­mini nume­rici: una decina di migliaia di per­sone armate o fian­cheg­gianti, un’area con­ti­gua dop­pia o tri­pla, un bacino di sim­pa­tiz­zanti che Sabino Acqua­viva sti­mava sulle 300mila per­sone. Se il movi­mento rivo­lu­zio­na­rio dei primi ’70 aveva dato vita al con­flitto sociale più aspro e pro­lun­gato in un paese avan­zato nel dopo­guerra, quello armato (che ne costi­tui­sce la coda) ha segnato nella stessa area la prin­ci­pale espe­rienza di lotta armata dopo l’Irlanda del nord, caso molto spe­ci­fico e non comparabile.

I conti con una generazione

Alla fine del 1980 e poi per tutto l’anno suc­ces­sivo i feri­menti, le ucci­sioni si ripe­tono ancora a sca­denza quo­ti­diana, ma è già chiaro che si tratta di una fase ter­mi­nale. La par­tita è chiusa. Si affac­cia così, pur in mesi tra­ver­sati da vio­lenze d’ogni sorta da parte sia delle orga­niz­za­zioni armate che dello Stato, un que­sito fino a pochi mesi prima inim­ma­gi­na­bile: come uscire dall’emergenza. Come chiu­dere il conto con una intera gene­ra­zione poli­tica e con un ciclo che ha visto vio­lare su tutti i fronti le regole fon­danti dello Stato demo­cra­tico. Il tema si impone sem­pre più via via che la scon­fitta dei gruppi armati si pro­fila come totale e irre­ver­si­bile. La discus­sione, sen­tita da tutti come dram­ma­tica e deter­mi­nante, segnerà l’intero decen­nio ’80.

All’inizio e alla fine di quella sto­ria, oggetto ormai di una biblio­gra­fia masto­don­tica, sono dedi­cati due libri arri­vati insieme nelle libre­rie. La lotta è armata. Sini­stra rivo­lu­zio­na­ria e vio­lenza poli­tica in Ita­lia (1969–1972), di Gabriele Donato (Deri­veAp­prodi, pp. 380, euro 23) e La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal ter­ro­ri­smo 1980–1987, di Monica Gal­fré (Laterza, pp. 252, euro 22). Entrambi ottimi. entrambi utili non solo per com­pren­dere la genesi e l’epilogo del feno­meno armato ma anche, forse soprat­tutto, per il qua­dro della sto­ria ita­liana recente che resti­tui­scono.
Donato riporta e ana­lizza il dibat­tito di allora sull’uso imme­diato della armi lavo­rando sui docu­menti e sui testi invece che su una memo­ria­li­stica gio­co­forza infe­dele. Dimo­stra così, tra l’altro, l’inconsistenza della tesi, spesso ela­bo­rata a poste­riori, secondo cui la scelta armata sarebbe dipesa dalla strage di piazza Fon­tana, con annessa «fine dell’innocenza». Il lavoro di Donato dimo­stra invece che quella pos­si­bi­lità ini­zia, sì, a essere con­si­de­rata rea­li­sti­ca­mente alla fine dell’autunno del ’69, ma molto più in con­se­guenza dell’esito dell’autunno caldo che non della strage del 12 dicem­bre.
Nella pri­ma­vera di quello stesso anno, nelle grandi fab­bri­che e soprat­tutto alla Fiat, le lotte ope­raie auto­nome ave­vano messo fuori gioco i sin­da­cati, tagliati fuori da un ciclo con­flit­tuale che non ave­vano pre­vi­sto, voluto e tanto meno gestito. Nel corso dell’autunno, con­tra­ria­mente alle attese della sini­stra rivo­lu­zio­na­ria, i sin­da­cati ave­vano saputo rin­no­varsi pro­fon­da­mente sino a recu­pe­rare e anzi aumen­tare il con­trollo sulla mobi­li­ta­zione ope­raia. E’ que­sto recu­pero da parte del sin­da­cato, a fronte di un livello altis­simo di forza ope­raia nelle fab­bri­che, che con­vince i gruppi più radi­cali (il Col­let­tivo poli­tico metro­po­li­tano di Milano da cui nasce­ranno le Br, Potere ope­raio, il Gap di Fel­tri­nelli e Lotta con­ti­nua) della neces­sità di spo­stare lo scon­tro sul piano poli­tico, quello della guerra con­tro lo Stato, gra­zie all’azione for­te­mente sog­get­tiva dell’avanguardia armata. e dun­que affi­dan­dosi alle armi, pena una scon­fitta ope­raia di por­tata sto­rica. Le bombe del 12 dicem­bre com­ple­tano l’opera, con­vin­cendo molti, nella sini­stra rivo­lu­zio­na­ria ma anche in quella isti­tu­zio­nale, della pos­si­bi­lità immi­nente di una dra­stica svolta auto­ri­ta­ria.
Secondo alcuni, come Gap e Cpm, la con­trof­fen­siva si svi­lup­perà col golpe, secondo Po, invece, imboc­cherà una via oppo­sta, inglo­bando «i rifor­mi­sti» nelle mag­gio­ranze di governo. Ma il punto di par­tenza, l’obbligo di por­tare il con­flitto armato fuori dalle fab­bri­che è comune. Le ipo­tesi stra­te­gi­che che si svi­lup­pano di qui sono diverse, spesso oppo­ste. Vanno dal par­tito clan­de­stino e del tutto svin­co­lato dalle lotte di massa delle Br a una sorta di dop­pio livello teo­riz­zata da Po fino a una sorta di «inter­nità armata» ai con­flitto sociali su cui punta in alcune fasi Lc.

Fuori dall’emergenza
Donato non fa sconti ai teo­riz­za­tori del con­flitto armato. Ne evi­den­zia i limiti, i mador­nali errori, le pre­sun­zioni, a volte i vaneg­gia­menti. Però non riduce mai quel dibat­tito all’immagine cari­ca­tu­rale e demente che viene da decenni dipinta. Quei temi erano del tutto interni alla logica del movi­mento comu­ni­sta del secolo e si misu­ra­vano, senza riu­scire a risol­verlo, con un dilemma reale. La temuta scon­fitta ope­raia, in effetti, si è poi pun­tual­mente veri­fi­cata. In forme più schiac­cianti di quanto nes­suno potesse allora pre­ve­dere.
Il libro di Monica Gal­fré, altret­tanto denso anche se neces­sa­ria­mente meno spe­ci­fico, tira invece le somme di una fase di gran­dis­sime spe­ranze e poten­zia­lità. Parte dalla sin­go­la­rità di una situa­zione nella quale, all’inizio degli ’80, il mas­simo di repres­sione (con tanto di tor­ture e vio­la­zioni gravi dei diritti costi­tu­zio­nali) si accom­pa­gna ai primi sprazzi di «desi­stenza», alla presa di coscienza di dover pre­sto uscire dall’emergenza.

Pro­se­gue det­ta­gliando una discus­sione a tutto campo quale oggi sarebbe let­te­ral­mente inim­ma­gi­na­bile sulla fun­zione della pena, la riforma car­ce­ra­ria, la neces­sità di coniu­gare le neces­sità della sicu­rezza con quelle dell’umanità, l’urgenza di ripor­tare la magi­stra­tura nei con­fini del pro­prio ruolo, ampia­mente var­cati nel corso dell’emergenza.

È un dibat­tito a cui par­te­ci­pano tutti, par­titi, gior­nali, Chiesa, magi­stra­tura, e in cui le posi­zioni mutano nel tempo, come nel caso del Pci, ini­zial­mente con­tra­rio poi favo­re­vole alla legge sulla dis­so­cia­zione. Il per­corso della legge in que­stione sino alla sof­ferta appro­va­zione (in ver­sione però molto diversa da quella ori­gi­nale) e in gene­rale il per­corso delle aree omo­ge­nee sono la colonna ver­te­brale della nar­ra­zione, ma non la esau­ri­scono affatto. Intorno a quella legge si arti­co­lava una quan­tità di temi molto più ampi gene­rali e profondi.

Non è vero che quella sta­gione è pas­sata senza lasciare trac­cia: il rap­porto con la pena deten­tiva è cam­biato allora, la parola «riso­cia­liz­za­zione» ha smesso di essere un bal­bet­tìo privo di senso e, sia pur per vie tra­verse e ipo­crite. lo Stato ha cer­cato nel decen­nio seguente una via per chiu­dere l’emergenza ma senza doverla rin­ne­gare o anche solo ripensare.

Riper­cor­rendo oggi quelle discus­sioni è dif­fi­cile evi­tare un para­gone scon­for­tante con la mise­ria delle rifles­sioni del pre­sente. Ma forse pro­prio quel dibat­tito, se ci fosse stato il corag­gio di por­tarlo fino sino in fondo invece di affi­darsi all’eterna ipo­cri­sia del potere ita­liano, rap­pre­sentò l’ultima occa­sione per evi­tare la dege­ne­ra­zione in cui, subito dopo, l’Italia post-emergenziale è precipitata.

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