Una partigiana in guerra. La storia di Rita Rosani

Memoria. “Non era una donna era un bandito – Rita Rosani, una ragazza in guerra” di Livio Isaak Sirovich per Cierre Edizioni

Senza il rac­conto delle vite «sem­plici» la grande nar­ra­zione rischia di diven­tare falsa coscienza. È la prima, pavlo­viana rifles­sione che viene da fare dopo la let­tura del libro di Livio Isaak Siro­vich Non era una donna era un ban­dito – Rita Rosani, una ragazza in guerra (Cierre Edi­zioni, pp. 540, euro 18). Rita, meda­glia d’oro della Resi­stenza, fu tru­ci­data, a 23 anni, il 17 set­tem­bre 1944 sul Monte Comune a nord di Verona in un vio­lento scon­tro a fuoco tra alcuni par­ti­giani e un bat­ta­glione di sol­dati fasci­sti e nazisti.

Il titolo del libro allude al dia­logo tra un sol­dato fasci­sta e il suo coman­dante dopo l’uccisione della gio­vane par­ti­giana. «E adesso come farà, signor tenente, che ha ucciso una donna?». E la rispo­sta del capo fasci­sta, poi assolto dopo la guerra per insuf­fi­cienza di prove in uno dei tanti pro­cessi bene­voli verso i gerar­chi, è lapi­da­ria: «Non era una donna, era un ban­dito». Il rac­conto degli ebrei, tale era Rita Rosani-Rosenzweig, in quel cro­giolo di scon­tri e com­pli­ca­zioni che era il con­fine tra Trie­ste e il mondo slavo, è quanto mai dram­ma­tico e pieno di sacri­fici incre­di­bili. Tanti autori hanno rac­con­tato la tra­ge­dia di que­gli ebrei di con­fine ma Siro­vich pre­fe­ri­sce ricor­dare la sem­pli­cità di Nata­lia Ginz­burg nel Les­sico fami­gliare: «Chi da anni fre­quen­tava gli ebrei cen­troeu­ro­pei in fuga dall’Austria, dalla Ger­ma­nia ecce­tera, poteva forse essere pre­pa­rato a un futuro incerto, eppure la Sto­ria bussò con tale vio­lenza anche alla porta degli ebrei trie­stini, con il cal­cio del fucile delle leggi raz­zi­ste ita­liane, che tutti ne rima­sero come tramortiti».

Dun­que Rita, nata in fami­glia che aveva attra­ver­sato gli stati dell’Europa cen­trale, vive nella Trie­ste fasci­sta il suo romanzo di for­ma­zione come tante coe­ta­neea, ma pre­sto si scon­trerà, soprat­tutto dopo le leggi raz­ziali, con l’odio feroce verso gli ebrei. «A que­sti falsi ita­liani, a que­sti falsi vivi inde­gni del nostro odio, ma ben degni del nostro disprezzo»: così, sul bol­let­tino della sezione raz­zi­sta del Guf di Trie­ste, i fasci­sti espri­me­vano la loro rab­bia verso la comu­nità ebraica dove pure non man­ca­vano tanti ebrei che ave­vano abbrac­ciato anni prima la causa fasci­sta. Per­ciò a Rita e ai suoi amici «si ruppe den­tro qual­cosa» ma non la capa­cità di amare la vita e il futuro. Scrive al fidan­zato, Gia­como Nad­ler, con­fi­nato in Cala­bria e poi in Abruzzo: «In bici­cletta non si pos­sono più por­tare i cal­zon­cini corti. Se tu sapessi quante multe hanno dato dome­nica alle signo­rine che non hanno voluto obbe­dire agli ordini pre­fet­tizi».
Scor­rono così anni atroci, soprat­tutto per i gio­vani ebrei, espulsi dalle scuole, ghet­tiz­zati e divisi fero­ce­mente da amici con cui ave­vano vis­suto e stu­diato fino a poco tempo prima delle leggi raz­ziali. Poi l’incontro con un altro uomo della sua vita, e il pas­sag­gio di Rita alla mili­zia par­ti­giana. Nelle sue incer­tezze e con­trad­di­zioni, pro­prio per­ché fu una ragazza qual­siasi, Rita rimane una figura gigantesca.

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