Che la memo­ria non sia breve

Ven­ti­cin­que aprile settant’anni dopo. Il filo rosso della memo­ria è il tenue rac­cordo che ha attra­ver­sato que­sti sette decenni rima­nendo uguale a se stesso

Ven­ti­cin­que aprile settant’anni dopo. Il filo rosso della memo­ria è il tenue rac­cordo che ha attra­ver­sato que­sti sette decenni rima­nendo uguale a se stesso. Ma intorno tutto o quasi è cam­biato o sta cam­biando. Que­sto vale per il con­te­sto euro­peo come per lo stesso con­te­sto ita­liano. Non si tratta sol­tanto di un ovvio e natu­rale cam­bia­mento gene­ra­zio­nale, che pure ha il suo peso, ma di qual­cosa di più pro­fondo che segnala muta­menti di punti di vista, muta­menti di pro­spet­tive poli­ti­che, muta­menti di ana­lisi sto­ri­che, in una parola muta­menti di cultura.

In que­sto pro­cesso c’è qual­cosa che va al di là dell’esito natu­rale del tra­scor­rere del tempo. Che ogni gene­ra­zione e al limite ogni indi­vi­duo inter­pre­tino il 25 aprile a modo loro, muo­vendo dall’unico dato certo comune della con­clu­sione della lotta di libe­ra­zione dal nazi­fa­sci­smo, è un fatto ovvio e dif­fi­cil­mente con­te­sta­bile. Ciò che non era pre­ve­di­bile e che rap­pre­senta il fatto nuovo con il quale ci tro­viamo a fare i conti è la pre­senza in que­sto set­tan­te­simo anni­ver­sa­rio di quelli che siamo ten­tati di chia­mare strappi della sto­ria. Chi ha vis­suto que­sti settant’anni non può certo avere inte­rio­riz­zato una visione idil­liaca ma quanto meno lineare del per­corso di que­sti decenni.

Al di là dei rituali cele­bra­tivi, se oggi tor­niamo a riflet­tere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la sod­di­sfa­zione di ciò che abbiamo con­se­guito ma soprat­tutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato rea­liz­zato. Il 25 aprile del 1945 la ricon­qui­sta della libertà sot­to­li­neando lo scam­pato peri­colo dal rischio che l’umanità aveva corso di soc­com­bere alla bar­ba­rie del nazi­fa­sci­smo, sem­brò aprire la pro­spet­tiva di una uscita dalla crisi rela­ti­va­mente indo­lore. La capa­cità della rico­stru­zione in Ita­lia fu un esem­pio di quanto una popo­la­zione aperta alla spe­ranza è in grado di rea­liz­zare. Ripren­dersi la vita dopo le sof­fe­renze e le umi­lia­zioni della dit­ta­tura e della guerra era una parola d’ordine e una ragione suf­fi­ciente per rial­zare la schiena e segna­lare la volontà di tor­nare a contare.

Allora, settant’anni fa la quiete dopo la tem­pe­sta ali­mentò l’impressione che le grandi cesure dei decenni pre­ce­denti si stes­sero chiu­dendo. Un dif­fuso ma gene­rico euro­pei­smo sem­brò annun­ciare la paci­fi­ca­zione e rimar­gi­nare le ferite di un con­ti­nente che era stato dila­niato da una lunga guerra che aveva dato sfogo a lotte inte­stine di nazio­na­li­smi con­trap­po­sti e di sistemi poli­tici incompatibili.

Ma il mondo non poteva tor­nare ad essere quello di prima del 1939. Troppi equi­li­bri erano sal­tati e la ricerca di nuovi punti di rife­ri­mento den­tro e fuori dell’Europa mise in evi­denza il ridi­men­sio­na­mento della vec­chia Europa, inco­min­ciato già con la prima guerra mon­diale, l’ascesa degli Stati uniti d’America, il nuovo ruolo nella stessa Europa e a livello mon­diale dell’Unione Sovie­tica, l’accelerazione della deco­lo­niz­za­zione desti­nata a dare il colpo di gra­zia al pri­mato mon­diale dell’Europa. Non era sol­tanto un equi­li­brio geo­po­li­tico, ma gli stessi popoli libe­rati dal nazi­fa­sci­smo si tro­va­vano a dovere rico­struire le basi della con­vi­venza civile.

Pochi tra i paesi libe­rati pote­rono ripri­sti­nare le isti­tu­zioni e lo sta­tuto poli­tico sospesi dall’occupazione delle potenze dell’Asse. La mag­gior parte dei paesi libe­rati si trovò ad ela­bo­rare nuovi sta­tuti poli­tici; la crisi dell’Europa sfo­ciata nella guerra non era stata sol­tanto crisi di ege­mo­nia e delle rela­zioni fra i popoli, era stata anche crisi di un modello poli­tico, tra i gua­sti di una demo­cra­zia in disfa­ci­mento e le ten­ta­zioni auto­ri­ta­rie e cor­po­ra­tive di com­pa­gini sta­tuali più o meno improv­vi­sate che cer­ca­vano di sup­plire al defi­cit di tra­di­zioni demo­cra­ti­che con la scor­cia­toia della dema­go­gia corporativa.

La guerra sep­pellì sotto le sue mace­rie que­sta Europa inver­te­brata (ram­men­tata, piena di con­trad­di­zioni e priva di fidu­cia in se stessa). Nelle diverse parti dell’Europa i movi­menti di Resi­stenza rap­pre­sen­ta­rono la pro­te­sta e la rispo­sta ai dilemmi in cui la guerra e le occu­pa­zioni pre­ci­pi­ta­rono i rispet­tivi paesi.

I settant’anni tra­scorsi ci hanno inse­gnato che gli ele­menti di paci­fi­ca­zione intra­vi­sti, o forse solo auspi­cati, nel 1945 erano più insta­bili e più prov­vi­sori di quanto si sarebbe potuto spe­rare. Breve è stata la memo­ria degli indi­vi­dui per rea­liz­zare i bene­fici e le poten­zia­lità nella tre­gua dei con­flitti. Lo sce­na­rio che oggi si pre­senta in Europa e nel mondo ci induce a pen­sare che il ricordo del 25 aprile non si può esau­rire in un richiamo cele­bra­tivo o tanto meno nostal­gico; esso è piut­to­sto un per­ma­nente cam­pa­nello d’allarme, un appello a stare all’erta per­ché le insi­die con­tro la pace e con­tro i valori per i quali si è com­bat­tuto nella Resi­stenza tor­nano a frap­porsi sul cam­mino dell’umanità.

Se ci era­vamo illusi che il fasci­smo fosse stato debel­lato per sem­pre, il riaf­fio­rare a più livelli e in diverse parti d’Europa di movi­menti di estrema destra sol­le­cita una nuova “chia­mata alle armi”; il fatto che esso si pre­senti in forme diverse dal fasci­smo sto­rico non esime dal rico­no­scerne le ascen­denze e la peri­co­lo­sità, anche se non ha alle spalle il rife­ri­mento di una isti­tu­zione sta­tuale per­ché la sua peri­co­lo­sità risiede pro­prio nella sua dif­fu­sione come fasci­smo quotidiano.

Si è affie­vo­lita la sen­si­bi­lità al raz­zi­smo che la crisi economico-sociale ha rivi­ta­liz­zato spesso masche­rando latenti con­flitti di classe con fat­tori più facil­mente per­ce­pi­bili anche ad una sen­si­bi­lità popo­lare. Negli scon­tri tra popoli le riven­di­ca­zioni iden­ti­ta­rie hanno rie­su­mato forme di intol­le­ranza reli­giosa al limite di un nuovo asso­lu­ti­smo. Nuovi con­flitti di ege­mo­nie che spesso rical­cano le orme di una vec­chia geo­po­li­tica ten­dono a ripro­durre tra gli stati gerar­chie che sem­brano supe­rate: alcuni stati tor­nano ad essere più sovrani di altri.

In que­sto con­te­sto il 25 aprile non può essere solo la festa della libe­ra­zione. Deve essere l’occasione di una vigile rifles­sione sul suo signi­fi­cato sto­rico di tappa di un cam­mino che non è ter­mi­nato ma che dal giorno della libe­ra­zione trae la spinta per affron­tare gli osta­coli che ancora si frap­pon­gono al con­so­li­da­mento di una società demo­cra­tica sem­pre più compiuta.

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