Ornette Cole­man, genio fuori da ogni schema

Icone. Aveva 85 l’artista texano, uno dei padri del free jazz, morto ieri per un attacco cardiaco. Una lunga carriera che si è sviluppata tutta sotto il segno dell’innovazione

Per capire come si è affac­ciata alla mente di Ornette Cole­man l’idea di una musica libera, di un jazz libero, idea che poi avrebbe preso forma e gli avrebbe fatto con­se­guire la patente di inven­tore del free-jazz, uno dei vari inven­tori a dire il vero, ma il più nomi­nato per via del titolo del suo disco in dop­pio quar­tetto del 1960, Free Jazz appunto, è inte­res­sante leg­gere quello che ha detto in una inter­vi­sta al cri­tico A. B. Spell­man. L’anno è il 1948 e il diciot­tenne sax con­tral­ti­sta suona nell’orchestra da ballo di Red Con­nors in un locale per soli bian­chi di Fort Worth, la città del Texas dove è nato.

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«Una sera stavo suo­nando Star­dust… e mi pigliava male: sen­tivo che sulle stesse armo­nie avrei potuto suo­nare tante di quelle note… La gente pen­sava solo a bal­lare e io, allora, non so cosa mi ha preso, ho comin­ciato a suo­nare quello che mi pareva sulle armo­nie, senza nem­meno sfio­rare la melo­dia… Ho comin­ciato allora a esplo­rare altre pos­si­bi­lità di suo­nare senza seguire binari pre­fis­sati in ter­mini di sequenze armo­ni­che o accordi».

Da quello che si argui­sce quella sera Cole­man improv­vi­sava sem­pli­ce­mente sulle armo­nie del brano come ave­vano fatto legioni di jaz­zi­sti prima di lui. Ma è sin­to­ma­tico che lui dica «non so cosa mi ha preso» e «suo­nare senza seguire binari pre­fis­sati». Pro­ba­bile che il demone di uscire dagli schemi del jazz disci­pli­nare avesse già comin­ciato a pos­se­derlo. Verso la fine degli anni ’50, dopo varie tour­née negli Sta­tes con orche­stre di rhythm’n’blues e dopo un impiego a Los Ange­les come addetto all’ascensore, periodo quest’ultimo durante il quale stu­dia teo­ria e comin­cia a for­mu­lare il suo per­so­nale idioma jaz­zi­stico, il demone è entrato com­ple­ta­mente in lui e ci si è tro­vato comodo. Escono dischi i cui titoli sono tutto un pro­gramma: Tomor­row is the Que­stion, The Shape of Jazz to Come. 

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Adesso che è morto per un attacco car­diaco ci riman­gono dav­vero pochi padri viventi del free jazz. Cecil Tay­lor è il più impor­tante, è un po’ male in arnese e nelle ulti­mis­sime esi­bi­zioni ha mostrato un curioso neo-moderatismo e poca voglia di sfre­nate esplo­ra­zioni «senza rete» sulla tastiera. Invece Cole­man, anche lui mal­fermo sulle gambe, negli ultimi con­certi che abbiamo ascol­tato è sem­pre stato viva­cis­simo e avan­za­tis­simo musi­cal­mente. Ma a suo tempo Cecil Tay­lor sì che aveva anti­ci­pato le scelte rivo­lu­zio­na­rie di Cole­man. Già a par­tire dal 1954 la sua musica infran­geva le regole tonali e si dispie­gava secondo distri­bu­zioni delle parti nel ritmo asso­lu­ta­mente irre­go­lari. Anzi, la rot­tura di Tay­lor con le strut­ture del jazz cano­nico era più radi­cale di quella ornet­tiana di là da venire.

Ma tor­niamo al 1959. Ago­sto. Cole­man e il trom­bet­ti­sta Don Cherry, ormai suo part­ner in impor­tanti lavori come la regi­stra­zione dell’album Tomor­row is the Que­stion tra il gen­naio e il marzo di quell’anno – basta ascol­tare la bal­lad Lor­raine, con i cali­for­niani Red Mit­chell e Shelly Manne al con­trab­basso e alla bat­te­ria per accor­gersi delle pro­pen­sioni pun­til­li­ste avant­garde dei due stru­men­ti­sti a fiato -, fre­quen­tano nell’estate la School of Jazz di Lenox, Mas­sa­chu­setts, diretta da John Lewis, il baroc­cheg­giante lea­der del Modern Jazz Quartet.

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Baroc­cheg­giante ma acuto e di mente aperta. Ecco che cosa dice a una rivi­sta ita­liana dell’epoca, Jazz di ieri e di oggi, di cui si è persa la memo­ria: «Ci sono due gio­vani che ho cono­sciuto in Cali­for­nia, un sas­so­fo­ni­sta con­tralto, Ornette Cole­man, e un trom­bet­ti­sta, Don Cherry. Non ho mai sen­tito niente di simile… Non somi­gliano a nes­sun gruppo ma ancora non mi spiego bene di che cosa si tratti…».

Si tratta della musica che Ornette Cole­man, il pen­sa­tore e l’inventore razio­nale tra i due, ha matu­rato in modo quasi mira­co­loso se si tiene conto di una lunga fru­strante gavetta in giro per l’America con orche­stre com­mer­ciali. Loro due suo­nano seguendo non il giro di accordi ma le libere suc­ces­sioni di linee melo­di­che che si pre­sen­tano alla loro intui­zione. Sulla base di temi fir­mati spesso da Cole­man che sono, in verità, tutt’altro che simili a quelli, non-temi di solito, ato­nali e senza misura, che un Cecil Tay­lor aveva da tempo fatto ascol­tare. Sono vere can­zoni, se vogliamo, la cele­bre Lonely Woman ne è un esem­pio (quante volte la suo­nerà Ornette e in quanti modi sem­pre nuovi, sem­pre emo­zio­nanti, sem­pre alla sco­perta di qual­cosa, della vita nuova in musica!).

Il gusto di Cole­man per la melo­dia, anche can­ta­bile, è pre­sente nelle sue opere del tempo sia nelle parti tema­ti­che, ben archi­tet­tate e con­chiuse, sia nelle parti dei suoi assoli, ovvia­mente assai più «infor­mali». Chiaro che que­sto gusto è stret­ta­memte coniu­gato alle impen­nate o alle devia­zioni impre­vi­ste della suc­ces­sione di melo­die (ten­den­zial­mente molto con­se­quen­ziale) e all’abbinamento di suoni «spor­chi», mate­rici, molto fre­quenti, con suoni più lim­pidi e per­sino dolci. Ma è que­sta la rivo­lu­zione di Cole­man, lui è il meno radi­cale dal punto di vista strut­tu­rale tra i grandi del free jazz.

Quando tro­viamo un Ornette Cole­man estremo, sen­si­bile a tutte le espe­rienze delle avan­guar­die anche «colte» del ‘900? Quando, nel corso degli anni ’60 ma un po’ sem­pre nella sua car­riera, imbrac­cia il vio­lino o sof­fia nella poc­ket trum­pet. Ecco allora i puri rumo­ri­smi, ecco le note iso­late appese al vuoto, ecco le sequenze che pos­sono far impal­li­dire i più audaci improv­vi­sa­tori totali dell’Europa, i Derek Bai­ley, gli Evan Par­ker, i Peter Brö­tz­mann. Invece la sua pas­sione per la melo­dia can­ta­bile, ma sta­volta intrisa di blues e di funk, torna in primo piano nei lavori rea­liz­zati nella fase «free funk», la sua fase elet­trica che lo mette in com­pa­gnia, ma non molto in sin­to­nia quanto a modi sti­li­stici, con Miles Davis.

Sono gli anni ’70 e ’80, sono gli anni di album memo­ra­bili con il gruppo Prime Time, Dan­cing in Your Heads (1976), Body Meta (1976), Of Human Fee­lings(1982). Certo, qui le parti di improv­vi­sa­zione ampia sono limi­tate, Cole­man si limita a gio­care pas­sio­nal­mente con gli sche­le­trici schemi di base. Ma il pathos è enorme, basta ascol­tare Voice Poe­try, il brano che apre Body Meta, per goderne.

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