Affinità e divergenze tra la sini­stra inglese e quella italiana

Laburisti e Pd. Da Londra arrivano idee e riflessioni utili per una sensibile riforma del capitalismo

Nella com­pe­ti­zione interna per la nuova guida del par­tito labu­ri­sta bri­tan­nico affio­rano con­trad­di­zioni e debo­lezze evi­denti, ma anche ele­menti di inte­resse, in gene­rale e per la malan­data sini­stra italiana.

Jeremy Cor­byn pare in grado di com­pe­tere per vin­cere, il che, vista la pro­ve­nienza net­ta­mente socia­li­sta del per­so­nag­gio, ha susci­tato molte riflessioni.

Da un lato avviene il rilan­cio di pro­grammi per un’assennata ma sen­si­bile riforma del capi­ta­li­smo, evi­den­te­mente impor­tante fra chi par­te­cipa alle pri­ma­rie laburiste.

Dall’altro c’è chi teme si tratti di una oscil­la­zione pura­mente iden­ti­ta­ria e reat­tiva, inca­pace di con­qui­stare l’opinione pub­blica inglese per vin­cere le pros­sime ele­zioni, che per arri­dere al Labour dovreb­bero, secondo alcuni cal­coli, spo­stare il 10–12 per­cento dei voti dai con­ser­va­tori ai labu­ri­sti. Non a caso par­liamo qui di inglesi e non di bri­tan­nici, per­ché invece in Sco­zia il voto popo­lare ha già mani­fe­stato il suo grande con­senso per il socia­li­smo nazio­nale demo­cra­tico dello Snp: una cri­tica alle incer­tezze del Labour (che ci ha perso una cin­quan­tina di seggi) e un rifiuto del modello neo­li­be­rale del Regno Unito. Altri fanno però notare che pur essendo le chan­ces di vit­to­ria elet­to­rale di Cor­byn ridotte, il favore di cui gode è più sag­gio di quanto sembri.

Le ele­zioni distano cin­que anni, e nel frat­tempo il par­tito potrebbe uti­liz­zarne un paio con Cor­byn per rive­dere quella parte essen­ziale della pro­pria cul­tura politica.

Ad esem­pio la rein­tro­du­zione della vec­chia «clause 4» (abo­lita dal New Labour) ma in modo nuovo: non più la socia­liz­za­zione dei mezzi di pro­du­zione ma soprat­tutto la cen­tra­lità di alcuni ser­vizi pub­blici e infra­strut­tu­rali (dalle fer­ro­vie alle ero­ga­zioni di base) la cui pri­va­tiz­za­zione è stata chia­ra­mente un insuccesso.

Alla base di tutto due con­si­de­ra­zioni. La prima: la stra­te­gia di Ed Mil­li­band, posi­tiva per avere rein­tro­dotto il tema della dise­gua­glianza, è stata capace di aumen­tare il con­senso Labour (men­tre la coa­li­zione di governo nel com­plesso non cre­sceva) ma non di vin­cere. Ciò, per molti, poi­ché i poli­to­logi avreb­bero con­vinto EdM che con una linea pru­dente non sarebbe mai sceso sotto il 35%.

Cosic­ché non si è rite­nuto di difen­dere la bontà delle misure pro-domanda adot­tate da Gor­don Brown prima delle pre­ce­denti ele­zioni, e anzi la loro per­si­stente necessità.

I tories hanno così potuto addos­sare, dinanzi alle classi medie, la colpa delle pro­prie misure auste­ri­ta­rie alla pre­ce­dente (pre­sunta) «irre­spon­sa­bi­lità» labu­ri­sta. Insomma, una vicenda non troppo diversa dalla pru­dente gestione del «van­tag­gio» di Ber­sani, anche poi se nel Pd è avve­nuto l’inverso della «rea­zione Corbyn».

Ciò con­duce alla seconda con­si­de­ra­zione: comun­que si giu­di­chi Cor­byn, si con­ferma quanto rimanga forte nel Labour l’identità del lavoro. Il sin­da­cato e milioni di iscritti vi inte­ra­gi­scono, pro­nun­cian­dosi apertamente.

Forse il sin­da­cato ita­liano, con moda­lità adatte a noi che si potreb­bero discu­tere, dovrebbe anch’esso atti­varsi in modo ana­logo più di quanto fac­cia, almeno nella fase sto­rica attuale, in cui (come per il Labour delle ori­gini) occorre uno sforzo gene­ra­tivo e uni­ta­rio per un’organizzazione poli­tica che rap­pre­senti meglio certe istanze.

La sini­stra euro­pea può nono­stante tutto ancora inse­gnare che il rap­porto fra sin­da­cato di pro­gresso e par­titi di sini­stra è impor­tante, ed attua­bile in modo diverso sia dalla cin­ghia di tra­smis­sione (pre­va­lenza del par­tito), sia dal vec­chio modello Labour (par­tito «del sindacato»).

Nella parità fra i due sog­getti, con rap­porti dif­fusi e crea­tivi vari, già spe­ri­men­tati in Europa, e già ipo­tiz­za­bili: una fase fon­da­tiva e di ricerca, pru­dente, ma non inti­mi­dita da chi urla al «sin­da­cato che fa politica».

Nella distin­zione delle fun­zioni, e con tutti i disac­cordi futuri ipo­tiz­za­bili, rimane inte­resse di un sin­da­cato che esi­sta un inter­lo­cu­tore poli­tico sen­si­bile ai suoi temi.

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