Imma­gini proiettate su un doloroso presente

Scatti . Il fotogiornalismo di Gianni Berengo Gardin. Nuova edizione del libro sui manicomi con alcuni saggi sull’attuazione della legge 180

Mani­comi – Psi­chia­tria e anti­psi­chia­tria nelle imma­gini degli anni Set­tanta di Gianni Berengo Gar­din (Edi­zioni Con­tra­sto, pp. 170, euro 32) è un libro che con­ver­rebbe tenere come via­tico del dolore da sfo­gliare non solo per la bel­lezza (bel­lezza? Siamo dalle parti di una sof­fe­renza insop­por­ta­bile) delle imma­gini ma soprat­tutto per­ché evoca anni in cui l’interrogativo sull’universo con­cen­tra­zio­na­rio dello stigma psi­chico era all’ordine del giorno di una cul­tura e di una poli­tica radi­cale che vedeva nella malat­tia men­tale e nel rap­porto con essa, con gli uomini in carne e ossa che ne erano col­piti, la meta­fora di una vita (e di una politica).

Il libro è la ripro­po­si­zione di Morire di classe, che Gianni Berengo Gar­din e Carla Cerati pub­bli­ca­rono per Einaudi nel 1969, uno dei lavori che ha fatto epoca nel foto­gior­na­li­smo impe­gnato ita­liano. «Si era nel Ses­san­totto. Franco Basa­glia si bat­teva per la chiu­sura dei mani­comi e con Carla Cerati ave­vamo rea­liz­zato delle foto­gra­fie sui mani­comi. Veden­dole, Basa­glia rimase alli­bito. Si trat­tava di foto­gra­fie mai viste prima in Ita­lia. Così abbiamo deciso di farne un libro, Morire di classe, che con l’aggiunta di testi di Basa­glia, ha fatto cono­scere all’Italia le con­di­zioni tra­gi­che di que­sti malati». Così ricorda oggi il volume del pas­sato Berengo Gar­din nella nuova edi­zione con pre­fa­zione di Peppe Dell’Acqua e Sil­via D’Autilia, uno scritto di Basa­glia e una cro­no­lo­gia della legge 180.

Il libro si apre con la foto straor­di­na­ria, voluta da Franco Basa­glia, di un gruppo di uomini in giacca e cra­vatta, ripresi dalla pan­cia in giù, e con un mazzo di chiavi pen­zo­loni dalla cin­tura dei pan­ta­loni: sono il sim­bolo del con­trollo coatto e della deten­zione per i malati men­tali. E scor­rono le foto­gra­fie dai mani­comi di Firenze, San Cle­mente e San Ser­volo (Vene­zia), Colorno, Parma, Fer­rara, Gori­zia: imma­gini nitide e sem­plici di uomini e donne colti nel loro pere­gri­nare tra i reparti, nel loro abbru­tirsi den­tro un ripie­ga­mento su se stessi che la deten­zione bruta accen­tuava invece di calmare.

Uomini e donne che ave­vano biso­gno più di altri di «cura» nel senso let­te­rale del ter­mine e invece erano lasciati soli nei loro letti di con­ten­zione, spesso tra i loro escre­menti, merce da tenere in vita per pura for­ma­lità (e gua­da­gni). Fin quando c’è la svolta di Franco Basa­glia che pra­tica una nuova visione della psi­chia­tria, oppo­sta alla «ideo­lo­gia chiusa e defi­nita nel suo ruolo di scienza dogmatica».

È l’apertura dei mani­comi, le assem­blee con pazienti e società esterna, la con­qui­sta di una legge, la 180. Certo fa ancora impres­sione vedere le foto di Basa­glia entu­sia­sta discu­tere con i suoi pazienti, oggi che il disa­gio psi­chico pro­dotto da un regime vio­lento delle rela­zioni sociali ha ampia­mente supe­rato il con­fine della malat­tia conclamata.

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