Un comu­ni­sta dalla parte dei vinti

Pietro Ingrao 1915-2015. Le parole costitutive del lessico ingraiano: «grumo oscuro». Parla di sé testimone del secolo breve e parla di noi che restiamo

Con­verrà andare alle radici, con­verrà appro­fon­dire l’amore, certo con­tro­verso, che lega la nostra sto­ria a quella di Pie­tro Ingrao. Ora che tutti salu­tano Pie­tro ten­tando di inscri­verlo in una comoda dimen­sione pubblico-politica; ora che per­fino Mat­teo Renzi dichiara che gli «man­cherà la sua pas­sione poli­tica» — quando mai l’ha cono­sciuta dal tor­rino della Leopolda?

Su tre argo­menti: l’origine, la guerra e la scrit­tura. In molti hanno ricor­dato — lo hanno fatto in primo luogo Luciana Castel­linaRos­sana Ros­sanda — che senza l’indecisione di Pie­tro pro­ba­bil­mente la nostra sto­ria, come Mani­fe­sto — prima rivi­sta, poi gruppo e subito gior­nale, poi par­tito, poi gior­nale — non sarebbe esi­stita, o meglio avrebbe avuto meno sta­gioni di crisi e quindi peso ben diverso, pro­prio nel momento in cui i movi­menti degli anni Ses­santa e Set­tanta ancora erano su piazza e det­ta­vano i con­te­nuti tra­vol­genti della libertà, dell’eguaglianza, della rot­tura degli schemi di classe, della libe­ra­zione della donna, della sepa­ra­zione tra gover­nanti e gover­nati; men­tre erano in corso i tra­vol­gi­menti mon­diali di quello che ancora si chia­mava Terzo Mondo, le istanze degli ultimi della terra e qui, nel Vec­chio con­ti­nente, della classe ope­raia impe­gnata con lotte di nuovo tipo non solo nel riscatto ma sui con­te­nuti di potere.

Pre­ferì Pie­tro, al Comi­tato cen­trale del Pci che decise la «radia­zione per fra­zio­ni­smo» difen­dere il par­tito di Ber­lin­guer, con­si­de­ran­dolo erede del par­tito di massa di Togliatti, di Longo e per­fino di Anto­nio Gram­sci. Non era così. E il mani­fe­sto venne messo fuori, con la pre­sun­zione di espel­lerlo dalla sto­ria del comunismo.

E invece testar­da­mente quel nome in ditta rimase (e resta tutt’ora).

Di quella scelta Pie­tro Ingrao si ram­ma­ricò dura­mente. Tutto sarebbe stato diverso, forse meno dolo­roso, se Pie­tro avesse aperto ai nostri con­te­nuti che pure ori­gi­na­vano in parte da quello che chia­ma­vamo «ingrai­smo» e dal dibat­tito interno al Pci.

Ora, a distanza di tanti decenni la que­stione comu­ni­sta, il suo «grumo», può appa­rire desueta ma, insieme alle mace­rie emerse dopo il disa­stro del socia­li­smo reale, arri­vano ormai anche la rovina e la deriva delle svolte demo­cra­ti­che dell’89. Anche que­sta «spinta pro­pul­siva» è finita. Hanno infatti pro­dotto a est società neo-autoritarie e fon­date sul pri­vi­le­gio e a ovest la rivin­cita del capi­ta­li­smo ancor­ché finan­zia­rio, la pau­pe­riz­za­zione della società, la divi­sione tra gli umani, ine­diti quanto vio­lenti con­flitti di classe, la rimessa in discus­sione dello stato sociale, men­tre dilaga la puzza di nuove «nostre» guerre dalle quali fug­gono in milioni di disperati.

Come pos­siamo allora dimen­ti­carci del fatto che Pie­tro Ingrao è stato il difen­sore dell’articolo 11 della nostra Costi­tu­zione e che ha fatto del paci­fi­smo un ele­mento costi­tu­tivo del suo pen­siero e del suo fare poli­tico. Un pacifismo-potenza mon­diale sto­ri­ca­mente scon­fitto nel 2003 dalla scelta di Bush di avviare ad ogni costo una nuova, epo­cale quanto deva­stante guerra nel Golfo.

Questa è la scena che ci è dato vivere. E cambiare.

O vogliamo lasciare al nuovo papa le parole d’ordine della lotta alle dise­gua­glianze e al pro­fitto, e quelle a favore degli ultimi, con­tro la guerra e per una vita e una società di ser­vi­zio? Il suo è comun­que un impor­tante ten­ta­tivo di espe­ri­mento sacro, che rimanda alla «rifon­da­zione» della Chiesa e alla tra­scen­denza; a noi spetta ancora l’esperimento pro­fano di costruire sulla terra una nuova società di liberi ed uguali.

Pie­tro non ha mai rinun­ciato a pro­porre e ad inter­ro­garsi come solo sapeva fare lui, vale a dire inin­ter­rot­ta­mente e costruendo un para­digma a prima vista para­dos­sale: quello della cer­tezza del dubbio.

«Acchiap­pa­nu­vole», «a cac­cia della luna», così i gior­na­li­sti main­stream hanno pre­fe­rito affron­tare in que­sti giorni l’argomento dell’eredità di Pie­tro Ingrao. Ma solo chi si espone al dub­bio cam­mina sul ter­reno delle verità. Soprat­tutto se parte da sé. Nella ten­sione ai con­te­nuti comu­ni­sti e alla demo­cra­zia, alla classe ope­raia «costi­tuente», il dub­bio di Pie­tro era la sua scrittura.

Sia che pren­desse appunti per un comi­zio o scri­vesse di cro­naca, sia che limasse i suoi pre­ziosi versi. Per­ché la poli­tica non era acqui­si­zione di sta­tus ma mili­tanza. Met­tendo in gioco la com­ples­sità dell’individuo.

Pie­tro Ingrao assu­meva il discorso dell’individualità, par­lava di sé quando «i poli­tici» si nascon­de­vano: dava un con­te­nuto nudo. Sor­pren­dente, per­ché, di chi ci si può fidare se non di chi rac­conta quello che è? Sopren­dente per­ché il rischio della presa di parola poe­tica ha que­sto di dispe­rato: non rea­lizza l’ascolto degli altri e viene male inter­pre­tata come debo­lezza, non come più pro­fonda ragione.

Pie­tro non nascon­deva que­sta debo­lezza, anzi la mani­fe­stava: «La tene­rezza come indichiarata/ molle radice del tempo». Senza dun­que alleg­ge­rire la por­tata dell’errore e delle scon­fitte, ma chia­mando in causa se stesso, nella misura dei vinti e dei deboli.

Ecco le parole costi­tu­tive del les­sico ingra­iano: «grumo oscuro». Dà il segno del gro­vi­glio nasco­sto e pri­mi­ge­nio, che biso­gna districare.

Così Pie­tro ha affron­tato i con­te­nuti della scon­fitta sto­rica rima­sta nel «gorgo» con la «poe­tica del pro­getto pro­vato». Ha in mente donne e uomini, un mondo intero e gene­ra­zioni che hanno ten­tato di pren­dere in mano il pro­prio destino. Un lascito per non man­dare dispersi quei con­te­nuti, con­sa­pe­vole che quella scelta è rima­sta sotto tiro, sotto accusa.

Scrive: «il valore indi­feso della scelta di campo». Parla di sé testi­mone del secolo breve e parla di noi che restiamo.

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