Raven­sbruck, il campo delle reiette

È stato l’orrore nazi­sta decli­nato al fem­mi­nile, Raven­sbruck, il campo di con­cen­tra­mento per sole donne a nord di Ber­lino. Vi veni­vano rin­chiuse e tor­tu­rate donne defi­nite aso­ciali

Intervista. Un incontro con la scrittrice e giornalista inglese Sarah Helm, ospite a Forlì del 900 Fest, festival europeo di storia del Novecento. Il suo libro sul lager nazista per sole donne, «Il cielo sopra l’inferno», è uscito per Newton Compton

È stato l’orrore nazi­sta decli­nato al fem­mi­nile, Raven­sbruck, il campo di con­cen­tra­mento per sole donne, aperto nel mag­gio 1939 a nord di Ber­lino. Vi veni­vano rin­chiuse e tor­tu­rate donne defi­nite aso­ciali: senza fissa dimora, malate di mente, disa­bili, testi­moni di Geova, oppo­si­trici poli­ti­che, atti­vi­ste della resi­stenza, comu­ni­ste, zin­gare, lesbi­che, vaga­bonde, pro­sti­tute, men­di­canti, ladre, e, solo in minima parte, ebree. Donne con­si­de­rate di razza infe­riore e reiette che anda­vano cor­rette, punite ed estir­pate dalla società per evi­tare che con­ta­gias­sero gli ariani. Una strut­tura voluta da Himm­ler e da cui in sei anni tran­si­ta­rono circa 130mila pri­gio­niere, pro­ve­nienti da più di venti paesi euro­pei. Si stima che le vit­time furono fra le trenta e le novan­ta­mila donne, un dato incerto per la scarsa docu­men­ta­zione rima­sta dopo che le carte furono distrutte per insab­biare i cri­mini com­piuti alla vigi­lia della libe­ra­zione. Nel campo le donne subi­rono sevi­zie, espe­ri­menti medici, tor­ture, ste­ri­liz­za­zioni e aborti, ese­cu­zioni som­ma­rie oltre a ritmi este­nuanti di lavori for­zati. Dal campo di Mal­chow, un sot­to­campo di Raven­sbruck, fu libe­rata nel ’45 l’italiana Liliana Segre.

La sto­ria dell’unico campo di con­cen­tra­mento fem­mi­nile, rima­sta per molti anni nell’ombra, è al cen­tro del libro Il cielo sopra l’inferno (titolo ori­gi­nale If this is a Woman, para­fra­sando Primo Levi) della gior­na­li­sta inglese Sarah Helm, da poco uscito in Ita­lia, edito da New­ton Comp­ton. L’autrice è stata ospite a Forlì del 900 Fest, festi­val euro­peo di sto­ria del Nove­cento, sul tema delle donne nei totalitarismi.

Per­ché ha deciso di rac­con­tare la sto­ria di Raven­sbruck?
Avevo già scritto di Vera Atkins, straor­di­na­ria ebrea tede­sca che lavo­rava per l’intelligence bri­tan­nica a un’operazione segreta voluta da Chur­chill, reclu­tando e adde­strando donne a para­ca­du­tarsi in Fran­cia per aiu­tare la resi­stenza. Dopo la cat­tura, le agenti non tor­na­rono più e non furono mai cer­cate. Atkins seguì le loro tracce, que­ste la por­ta­rono a Raven­sbruck, dove molte erano state rin­chiuse. Rac­colse molte testi­mo­nianze e il pro­cesso per cri­mini di guerra per­pe­trati nel campo fu istruito dalle auto­rità bri­tan­ni­che gra­zie alle sue ricerche.

Che attua­lità assume oggi que­sto rac­conto a distanza di settant’anni?
Le testi­mo­nianze, le sof­fe­renze e il corag­gio di quelle donne sono cen­trali. È una sto­ria rima­sta ai mar­gini dei mar­gini. Si è trat­tato di un cri­mine con­tro l’umanità. Le donne furono tor­tu­rate, fatte sof­frire in maniera inau­dita, sepa­rate dai bam­bini che videro morire sotto ai loro occhi. Fu com­piuta una ste­ri­liz­za­zione di massa, oltre ad aborti atroci. A Raven­sbruck i nazi­sti pra­ti­ca­rono il con­trollo della ripro­du­zione, fu un labo­ra­to­rio per appli­care sui loro corpi vari metodi e stu­diare come rea­gi­vano ai trat­ta­menti. Le vit­time pra­ti­ca­rono sistemi di soprav­vi­venza estremi e uno straor­di­na­rio corag­gio. Si rea­liz­za­rono forme di soli­da­rietà da parte delle dot­to­resse del campo e di pic­coli gruppi di soste­gno a chi aveva perso i fami­liari. Si creò un’anomala forma di società. Le guar­die erano donne, altro aspetto non tra­scu­ra­bile, i cri­mini quindi erano com­messi da donne sulle donne. Aver mar­gi­na­liz­zato la sto­ria di Raven­sbruck ha signi­fi­cato accan­to­nare que­sta cru­deltà. La più ter­ri­bile sto­ria di orrore fu appli­cata nella stanza dei bam­bini. Le Ss cer­ca­rono di pre­ve­nire ed evi­tarne la nascita: vole­vano far estin­guere le razze con­si­de­rate infe­riori, ma verso la fine della guerra, nel 1944, le pri­gio­niere in stato di gra­vi­danza rag­giun­sero numeri tali che la situa­zione sfuggì al con­trollo e non si riu­scì più a pra­ti­care in tempo la ste­ri­liz­za­zione né l’aborto. Si per­mise di far nascere i bam­bini nella con­sa­pe­vo­lezza che sareb­bero morti. Dif­fi­cile imma­gi­nare qual­cosa di più cru­dele: per­met­tere alle donne di dare alla luce i loro pic­coli per vederli morire di stenti. A Raven­sbruck que­sta è forse stata una delle più orri­bili azioni di cru­deltà nazi­sta che era asso­lu­ta­mente neces­sa­rio ricordare.

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Cosa rende atro­ce­mente spe­ciale e diverso dagli altri il campo nazi­sta di Raven­sbruck?
La capa­cità delle donne di resi­stere e com­bat­tere con­tro quello che stava acca­dendo. Soprav­vi­vere. È una sto­ria di corag­gio, deter­mi­na­zione e volontà. Le gio­vani stu­den­tesse polac­che di Lublino, ad esem­pio, arri­vate nel 1941, e scelte per gli espe­ri­menti medici. I coni­gli, come furono sopran­no­mi­nate per la loro anda­tura zop­pi­cante, subi­rono atroci espe­ri­menti alle gambe. Himm­ler chiese ai dot­tori di ricreare le con­di­zioni dei campi di bat­ta­glia, le ragazze furono muti­late e infet­tate con la gan­grena gas­sosa per testare i far­maci che pote­vano essere effi­caci per i sol­dati. Le testi­mo­nianze degli espe­ri­menti sono det­ta­gliate. Una gio­vane polacca volle far sapere al mondo quello che stava acca­dendo gra­zie alla scrit­tura con un inchio­stro invi­si­bile usato a mar­gine delle let­tere indi­riz­zate alla fami­glia. Le mis­sive rag­giun­sero i parenti, in par­ti­co­lare una madre a capo di un gruppo di resi­stenza a Lublino che mandò le infor­ma­zioni alla Sve­zia che le girò a Lon­dra che, a sua volta, le inviò al comi­tato inter­na­zio­nale della croce rossa sviz­zera, che tut­ta­via le ignorò. Que­sto ebbe con­se­guenze ter­ri­bili. Dopo la fuga di noti­zie però nel campo fu deciso di ridurre gli esperimenti.

Il rac­conto delle effe­ra­tezze com­piute ai Raven­sbruck ha inse­gnato qual­cosa alle gene­ra­zioni future?
Vor­rei rispon­dere di sì, ma non posso. Molte delle donne inter­vi­state non ave­vano mai par­lato prima. Pen­sa­rono che la loro testi­mo­nianza fosse neces­sa­ria per impe­dire che la bar­ba­rie si ripe­tes­sero, ma non è stato così. Le con­ven­zioni di Gine­vra per la pro­te­zione dei civili sono con­ti­nua­mente igno­rate. Basti guar­dare a cosa accade in Siria, nes­suno si sta impe­gnando per pro­teg­gere la popo­la­zione, lo stesso è avve­nuto con i bom­bar­da­menti a Gaza l’estate scorsa. La mia impres­sione è che si stia regre­dendo e non si sia impa­rato nulla da ciò che è suc­cesso in passato.

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Milena Jesenskà

Nel campo fini­rono donne con­si­de­rate arbi­tra­ria­mente peri­co­lose, deboli, reiette. Que­sto fa pen­sare che nes­suna possa dirsi mai al sicuro…
È vero, chiun­que potrebbe finire in un campo come quello. Il regime nazi­sta arre­stava donne di ogni estra­zione, ori­gine, nazio­na­lità e colore. C’erano con­tesse fran­cesi, senza fissa dimora, pro­sti­tute, espo­nenti della resi­stenza, donne dell’armata rossa, infer­miere. Molte scrit­trici, gior­na­li­ste, arti­ste, come Milena Jesen­skà, intel­let­tuale ceca che fu amante di Kafka. Oggi non viviamo sotto la minac­cia nazi­sta, ma biso­gna man­te­nere alta l’attenzione. Vivere in una demo­cra­zia, avere libertà di espres­sione, non mette al riparo da derive peri­co­lose, come non si può igno­rare ciò che ci accade intorno. La rea­liz­za­zione del libro è stato un pro­cesso lungo e lento, come met­tere insieme diversi tas­selli di un puzzle. Con­vi­vere con una sto­ria così ter­ri­bile per tanto tempo è stato pos­si­bile gra­zie agli incon­tri con per­sone che mi sono state di grande ispi­ra­zione. Come le donne dell’Armata rossa, impe­gnate per difen­dere la Cri­mea poi tra­dite da Sta­lin, cat­tu­rate, por­tate a Raven­sbruck e dimen­ti­cate. Sono rima­ste unite, gui­date da Euge­nia Klemm, un’insegnante di sto­ria di Odessa, che le ha aiu­tate a soprav­vi­vere. Tor­nate in Urss sono state di nuovo rin­chiuse per­ché accu­sate di col­la­bo­ra­zio­ni­smo con il regime nazi­sta, man­date in Sibe­ria o uccise e per­se­gui­tate. La loro sto­ria è rima­sta sepolta fin­ché non ne ho rin­trac­ciate alcune, felici di rac­con­tarmi quello che ave­vano vis­suto. Per il pros­simo libro, fra i vari pro­getti, vor­rei invece occu­parmi di Gaza.

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